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I racconti

RICORDI

(Racconti dei combattenti del Tirano)

 

Sergente Roberto Fantaguzzi (Fronte Greco-albanese)

Dopo molti anni la memoria a causa dell’età si indebolisce; oppure, per grazia di Dio, si ricordano di più le cose belle che quelle brutte. E, in guerra, di cose belle non ce ne furono molte, salvo la grande fraternità fra gli alpini e la forte amicizia che ci legava nel pericolo. Non posso dimenticare però, in Albania, il fango che “bruciava” le stringhe degli scarponi, con il rischio di rimanere senza scarpa ad ogni passo perché spariva sotto terra come nelle sabbie mobili. E i cavalli, i muli e tutte le bestie morte durante l’inverno le cui carogne non s’erano potute sotterrare a causa del grande freddo che aveva pietrificato il terreno. All’arrivo della primavera, sparita la neve, le carogne affiorano sul terreno ancora intatte; sembrava che la battaglia attorno alla città di Coritza fosse passata in quel momento, anche se il cannone aveva smesso di sparare da molto. Un altro ricordo: le punture al petto, sulla schiena e nelle braccia ordinate dal comando sanitario, punture che, a causa della nostra giovinezza, della mancata esperienza e perché l’alpino (o forse tutti i militari) sono un po’ allergici alle istruzioni obbligatorie dell’infermeria, tutti cercavano di evitare. È un bel ricordo, perché, dovendo dare l’esempio, mi sottoposi a tutte le punture prescritte ingoiandomi tutte le pastiglie contro la malaria, eccetera, con il risultato di star bene durante e dopo la campagna militare. Stare bene non è stata cosa facile, perché abbiamo attraversato tutta l’Albania a piedi, in mezzo al lezzo delle carogne putrefatte, e purtroppo senza acqua da bere, Mi ricordo di avere bevuto acqua giallastra di uno stagno: al solo pensiero mi viene ancora oggi, dopo tanti anni, la pelle d’oca. Una cosa bella succedeva in Albania: non arrivava la cisterna dell’acqua, però non so per quale mistero non è mai mancato il vino; almeno ciò succedeva nella mia compagnia; il fiasco di Chianti e un pezzo di formaggio “Roma” si poteva trovare sotto ogni tenda. Un altro ricordo: di quando ci accampammo a Durazzo attorno alla villa reale, vicino al mare, in attesa del rimpatrio. Fu uno spettacolo: gli alpini, che vedevano per la prima volta il mare, in quanto nel viaggio di andata avevano preso l’aeroplano, andavano sulla spiaggia e assaggiavano l’acqua per sentire se veramente era salata come era stato loro descritto. E il ritorno da Durazzo a Bari, quando il capitano della nave chiamò l’ufficiale e i due sergenti di servizio per comunicarci di mettere gli alpini in allarme perché era stato avvistato un sommergibile nemico; mi venne in mente la scenetta dell’acqua salata. Non si poteva seminare panico fra gli alpini e così, d’accordo con il comandante, ordinammo a tutti di dormire senza scarpe e con il salvagente sotto la testa, in pre-allarme, senza precisare la presenza del sottomarino. Nella notte, dal sottomarino nemico partirono due siluri, ma per nostra fortuna a vuoto, perché si viaggiava a zig-zag. Finalmente arrivo a Bari, per la sfilata della divisione Tridentina

 

Alpino Andreino Rigamonti (Fronte greco-albanese)

Richiamato per la terza volta ai primi di novembre 1940, presso il centro di mobilitazione del Battaglione Tirano, 5° Reggimento Alpini. Dopo due notti e due giorni siamo giunti a Foggia, punto di partenza per Tirana, via aerea. Veniamo sistemati con paglia a terra in un silos. Dopo tre giorni, di buon mattino, il trombettiere suona l’allarme: tutti al proprio posto; viene distribuito in fretta e furia, ai piedi di ognuno, tanto materiale, esclusi indumenti di lana, indispensabili per quel rigido inverno sulle Alpi Albanesi. Materiale costituito da maschera antigas, elmetto, caricatori, scatolette, gallette, pacchetto di medicazioni, funicella da valanga e via dicendo, tanto da completare lo zaino da kg 40. Prima che spunti l’alba si aprono i cancelli del cortile del silos, arrivano numerosi autocarri tedeschi; ci fanno salire con tutto l’equipaggiamento, e via verso l’aeroporto di Foggia. Ai passaggi dei cancelli, donne fasciste ci distribuiscono viveri e bevande di conforto. Giunti vicini agli aerei, trimotori da bombardamento tedeschi ci attendono. Quello su cui prendo posto io, ha già la carlinga traforata da pallottole di mitraglia inglese. Saliamo in 14 su ogni apparecchio; in seguito a segnalazione di razzi luminosi, sul campo hanno riunito gli apparecchi in formazione d tre. Ancora segnali verdi, si parte per l’Albania. Durante la traversata sopra il mare, incrociamo gli apparecchi che fanno la spola per trasportare truppe e materiali vari e ritornano dall’Albania carichi di feriti e congelati che rientrano in patria. Fummo anche attaccati dalla caccia inglese, la nostra già scarsa aviazione accompagnava la colonna di 33 apparecchi da trasporto con due soli caccia. Giungemmo a Tirana con molti feriti. In breve tempo ci siamo sistemati; dopo soli due giorni sempre verso sera giunge una colonna di autocarri ancora tedeschi: ci fanno salire tanto da essere chiusi come sardine in scatola. Dove si va? Nessuno lo sa, nessuno parla, tutto è buio; un alpino di cognome Comi con una corona in mano si è messo a recitare il rosario. Dopo cinque ore di viaggio siamo arrivati (non si sa dove). Scesi dall’autocarro per raggiungere le baracche, sempre al buio, si deve camminare nel fango sprofondando fino alle ginocchia. Nessun ufficiale ci guida, si va avanti a stento per trovare un angolino per riposare alla meglio, per la prima volta senza paglia a terra. Una baracca è piena zeppa, in un’altra non c’è posto, tanto da arrivare alle ore piccole, si sentono solo i moccoli degli alpini. Al mattino successivo, zaino in spalla; a circa un chilometro distribuzione di caffè, pagnotte, marmellata per tutto il giorno. Altra colonna di autocarri; non riesco a sapere chi siano perché si fa tutto di fretta; poi via di nuovo su una strada impervia tanto da rimanere aggrappati uno all’altro per non cadere. Lungo il percorso un artigliere da montagna mi saluta dicendomi: “Ciao Andreino”; a dire il vero, a tutt’oggi non ho potuto sapere chi fosse quell’artigliere. Giunti verso sera ai piedi del Tomori, termina la strada carrozzabile, ci sono ospedali da campo, sussistenza e salmerie. A sera inoltrata si piantano le tende per la prima volta, si consuma il rancio a secco, si comincia a bere acqua di neve sciolta. Il giorno seguente di buon mattino si sentono gli apparecchi. A un tratto scendono a bassa quota sganciando bombe e mitragliando sulle salmerie e accampamenti di tende del mio battaglione, causando perdite da parte nostra. Cessato l’allarme si tolgono le tende, distribuzione di viveri a secco (si bagneranno poi con acqua di neve). Zaino in spalla, alpenstock in mano e via per impervie mulattiere per raggiungere il Battaglione Tirano del 5° Alpini. Si incontrano lunghe colonne di salmerie che trasportano viveri, munizioni e reticolati verso il fronte greco ancora molto distante. Camminando tutta la giornata giungiamo solo a metà strada da dove è dislocato il 5° Alpini, specialmente il Battaglione Morbegno che è già in posizione sul Gur i Topit. Zaino a terra, il rancio della cena è già consumato durante la giornata; tutti d’accordo mangiamo i viveri di riserva composti da scatoletta e galletta. Sistemati alla meglio sotto un portico di una stalla albanese vicino a un cimitero ortodosso, seduti sugli zaini uno vicino all’altro per scaldarsi un po’. Quella notte il termometro scende a parecchi gradi sotto zero; al mattino dopo si riparte; casualmente mi incontro con un conducente del mio paese, Losa Battista, classe 1920, in seguito disperso sul fronte russo. Chiacchierando brevemente gli chiedo quanto tempo ci voglia ancora per raggiungere la prima linea; lui mi dà una manata sulle spalle poi esclama, col braccio teso e l’indice rivolto verso l’alto: “Vedi quei puntini neri sulla neve?”. “Sì, li vedo”, esclamo. “Ecco, quelli sono alpini che fanno la corvée sul Gur i Topit al 5° Alpini, perché le nostre salmerie o per meglio dire i muli non riescono a passare, e allora dobbiamo andare là noi”. Non ha più detto parola, ci siamo salutati e lasciati al proprio destino. Attraversando costoni e vallate ci imbattiamo ancora nel fango rosso come il sangue, affondando sino al ginocchio. Si trovano carcasse di muli morti sfiniti dalle fatiche, dal freddo e dalla fame. Altri conducenti che scaricavano i quadrupedi perché non andavano più, immersi nel fango. Sempre avanti, nel pomeriggio nelle vicinanze del Comando del 5° Alpini primi colpi di mortai greci. Niente paura, anzi tutto curiosi di sentire e vedere gli scoppi sulla neve bianca che diventava nera. Più avanti c’è il comando del Battaglione Tirano, comandato dal maggiore Loffredo. Arrivano altri colpi di mortai sempre più vicini tanto da sentire odore di polvere bruciata, si ha l’istinto di buttarsi a terra, troppo tardi per qualcuno che è già fatto a pezzi, al primo giorno di storia nostra. Ancora un attraversamento vicino alle nostre postazioni in una coltre di neve alta, di fianco una fila di paletti lungo il sentiero di neve per raggiungere il comando della 49a Compagnia, mentre la 48a è rimasta più indietro. Finalmente siamo giunti al comando di compagnia. Piazzate le tende, durante la notte tutto silenzio, al mattino sveglia, neve, tormenta, freddo, è la seconda decade di gennaio. Sono assegnato alla mia vecchia 49a, sempre del Battaglione Tirano, III plotone, 6a Squadra. Entro in tenda. Trovo un mio compaesano, Mario Angelini classe 1917, ardito volontario poi disperso in Germania. Parliamo a lungo, prima della situazione militare in generale, specialmente per quello che riguarda le postazioni greche e nostre. Due ore di servizio, quattro di riposo se il fronte è calmo. Il capo posto di giornata mi consegna sei bombe a mano dandomi istruzioni per l’uso in caso di attacco. Arrivano ancora colpi di mortaio. Alle ore 14 dello stesso giorno, primo servizio di vedetta. Per raggiungere la mia postazione c’è un camminamento a zig-zag, tormenta, neve continua. In dotazione alla squadra una mitraglia pesante Fiat con raffreddamento ad acqua e un leggero fucile mitragliatore Breda. Per quest’ultimo, di tanto in tanto, si deve tirare il carrello sparando due o tre colpi per tenerlo lubrificato, altrimenti gela e non funziona più. Ciò è causa di molestia per i greci, che ci scaricano addosso colpi di mortai e di artiglieria, e ci prendono anche per traverso. La posizione tenuta dal 5° Alpini si chiama: settori montani di Pupatit e di Gur i Topit. La regione era avvolta dal gelo polare, da tempeste di neve e di fuoco, rifornita con enormi difficoltà: richiesto ai reparti del 5° il massimo sforzo fisico e morale nel resistere. Ai combattimenti più intensi si alternavano colpi di mano, furiosi scontri di reparti, violente reazioni con l’intervento delle ardimentose batterie di montagna. Merita citazione il colpo di mano brillantemente eseguito contro il centro nemico di quota 1429 il 4 febbraio dal reparto arditi del Tirano; le drammatiche giornate dei duri combattimenti dell’11 e 12 febbraio, in cui il nemico, che aveva attaccato con estrema violenza e con preponderanza di forze di artiglieria e di armi automatiche, veniva contenuto e sgominato. La seconda quindicina di febbraio fu relativamente calma, qualche sporadico scontro. Un giorno, col permesso del comandante del plotone, mi recai a trovare il tenente Annoni, ammalato, ricoverato in una casupola albanese, mio vecchio comandante durante il richiamo del 1935. Verso il 10 marzo reparti di alpini ci hanno dato il cambio, pare siano stati alpini della Cuneense; la mia compagnia era passata in seconda linea, ogni giorno un viaggio di andata e ritorno sul Gur i Topit trasportando viveri, munizioni e reticolati ai battaglioni là dislocati. Si rifornivano anche i proiettili per l’artiglieria del Gruppo Val D’Orco anch’esso in posizione avanzata sotto il Gur i Topit; nel ritorno si riportavano con barelle i feriti e congelati ai piedi. Inoltre, con l’addolcirsi della stagione il Battaglione Morbegno recuperava salme di alpini del 6° Battaglione Val Leogra, rimasti sepolti sotto la neve durante gli attacchi precedenti. Sia all’andata che al ritorno, per un percorso di trecento metri circa eravamo allo scoperto delle vedette nemiche ma non ci disturbavano. Da ricordare infine il combattimento intenso, violentissimo e decisivo dell’intera giornata del 4 aprile, in cui i Battaglioni (tutti in prima linea) Tirano, Edolo, Morbegno sostennero quattordici ore di lotta ininterrotta riuscendo a sgominare i reparti nemici attaccanti che riportarono gravissime perdite. Anche i nostri furono duramente provati; caddero sul campo sette ufficiali, cinque sottufficiali e centoventidue alpini. Fra i caduti l’eroico capitano di complemento Adriano Augadri, già decorato di due medaglie d’argento sul campo, e il tenente Battisti nipote del martire trentino. Il 14 aprile il 5°, con i suoi reparti, si lancia all’inseguimento del nemico in ritirata e dopo otto giorni di marce forzate e di combattimenti si raggiunge la zona Ponte Perati. 23 aprile: l’armistizio.

 

Sottotenente Ambrogio Gromme (46a Compagnia - Fronte Greco-albanese)

Sbarcammo a Durazzo nei primi giorni di novembre del 1940. Poco prima del nostro arrivo alcuni aerei inglesi avevano bombardato il porto e incendiato alcuni grandi serbatoi di carburante. La confusione era enorme, i danni rilevanti, e subito ci chiedemmo se questa era la “passeggiata” che ci era stata preparata dai nostri governanti. Con passo quasi da bersagliere, per sfuggire ad eventuali nuovi bombardamenti, ci allontanammo alcuni chilometri dal porto, accampandoci al campo “E” località dove si radunavano e si organizzavano tutti i reparti che arrivavano in Albania via mare. Dopo poche ore di sosta, un portaordini della divisione consegnava al nostro comandante di battaglione, maggiore Loffredo, l’ordine di partire immediatamente per Coritza dove i greci avevano rotto in qualche punto l’enorme estensione di fronte del Battaglione Edolo. Una lunga colonna di autocarri ci portò velocemente verso Coritza, dove l’artiglieria greca batteva con violenza la periferia. Sotto i continui colpi di artiglieria e di mortai saltammo dagli autocarri e ci avviammo quasi di corsa verso il fronte. Senza armi pesanti, rimaste a Durazzo con le salmerie, senza munizioni di scorta e senza viveri, rimasti in coda alla colonna su autocarri messi fuori uso. Risalendo un ripido pendio, incontrammo i feriti del Battaglione Edolo che venivano portati a valle. Avvolti, in cima al pendio, da una fitta nebbia, non ci rendemmo esattamente conto di dove fossero i greci. Ma ben presto si fecero vivi. Fatti segno, durante una leggera schiarita, ad una nutrita scarica di fucileria e a diversi colpi di mortaio, potemmo reagire solo con pochi colpi di fucile e qualche bomba a mano. La situazione si aggravò quando un folto gruppo di greci, coperti dall’artiglieria e dalle mitragliatrici, si avventò su di noi. Il nostro riparo si limitava a rimanere sdraiati, o dietro a qualche grosso sasso. Già dalle prime ore di linea subimmo sensibili perdite. Il maggiore Loffredo (ormai era quasi buoi) mi mandò a valle a sollecitare l’arrivo dei mitragliatori e delle mitragliatrici. Occorrevano munizioni. Con alcuni alpini mi precipitai a valle, e , a un certo punto, senza alcun preavviso, venimmo fatti segno ad alcuni colpi di fucile fra imprecazioni in dialetto bergamasco. Eravamo di fronte al caporalmaggiore Locatelli, il quale con un gruppo di conducenti… appiedati, ci portava le sospirate armi. Ritornati alle nostre precarie posizioni trovai il sottotenente Righi ferito ad una mano e il sottotenente Gallizzioli, ora in Brasile, ferito ad una gamba; i feriti erano numerosi, ma questo non basta: durante un ennesimo attacco dei greci moriva il comandante di compagnia, tenente Brenna. Dopo pochi giorni iniziò il nostro penoso ripiegamento. Questo, che avvenne dapprima con un tempo accettabile e con scorta di viveri e munizioni, per l’improvviso cambiamento del clima e la mancanza assoluta di rifornimenti si dimostrò quasi disastroso. In Italia ci avevano detto che in Albania non faceva freddo, non nevicava. Infatti il freddo intenso, la neve e le giornate di tormenta erano frutto della nostra fantasia… Quante volte abbiamo dovuto abbandonare i muli e trasferire il carico sulle spalle degli alpini! Durante una prevista sosta di alcuni giorni nei pressi del Devoli, per frenare l’avanzata greca e permettere al reggimento di riorganizzarsi su nuove posizioni, incominciammo ad avere le prime perdite per congelamento. La dissenteria era all’ordine del giorno. Le munizioni non arrivavano, così si cercava di sparare a colpo sicuro. Per la mancanza di viveri si ricorreva ai buchi della cinghia dei pantaloni! Finalmente dopo alcuni giorni arrivarono munizioni e scatolette di carne. Le munizioni erano per mitragliatore Breda mentre noi avevamo in dotazione le Fiat, e le casse di scatolette sigillate (in numero preciso rispetto alla forza) ne contenevano alcune vuote. I collegamenti con gli altri reparti del reggimento davano poca garanzia: per rintracciare la sussistenza impiegai, con un gruppo di conducenti, una notte e un giorno di continuo cammino. Con gioia di tutti ritornammo con viveri e munizioni e quello che più rese felici gli alpini fu il ricevere cognac e anice.

 

 

Tenente Arturo Vita (Fronte russo)

 

L’allarme era scattato alle tre e mezzo del mattino dopo che per tutta la notte si era susseguita la violenta sparatoria verso l’estremità sud-ovest di Nikitowka; tra le isbe cominciano a piovere sempre più frequenti i colpi di mortaio mentre un gruppo di partigiani, al riparo di alcuni muretti diroccati, inizia un intenso fuoco contro gli alpini che si stanno radunando al centro dell’abitato. Oggi il battaglione Tirano è all’avanguardia della lunga colonna in ritirata e muove con le compagnie nel seguente ordine: 46a-49a-C.C.T.-109a A.A.-48a; in coda, la teoria delle slitte con a bordo i feriti, i congelati e le poche armi ancora efficienti. Infiliamo la pista che conduce a Nikolajewka, che dopo aver descritto un’ampia curva intorno al paese, sale lentamente alla selletta di Arnautowo, piccolissimo abitato costituito da una ventina di misere isbe. La testa della colonna si trova a circa 400 metri dal valico allorché viene improvvisamente investita da una violentissima scarica di mortai, prendendo così alla sprovvista gli alpini che cercano protezione in un vicino boschetto di betulle; i colpi si susseguono sempre più precisi e possiamo facilmente individuarne la provenienza: in parte da Arnautowo e in parte da macerie al limite dell’abitato, dunque alle nostre spalle! Il comandante del battaglione Tirano, Taccagno, non esita ad inviare un reparto col compito di snidare questi franchi tiratori arroccati ancora a Nikitowka, quindi ordina al plotone esploratori della 46a, alla guida del sottotenente Perego, di eseguire una ricognizione alla selletta di Arnautowo: le restanti compagnie devono nel frattempo serrare i ranghi, ricostituirsi e prepararsi al combattimento. I cannoni da 47/32 della 109a vengono sollecitati a più riprese dai portaordini ma non riescono purtroppo a farsi strada causa la pista sconvolta dai morti e feriti, dalle slitte rovesciate e dai muli imbizzarriti. Viene infine ripresa la marcia ed arrivati ad un modesto pianoro, Taccagno, che nel frattempo ha ricevuto notizie allarmanti da Perego circa la forza del nemico che occupa saldamente il valico, impartisce l’ordine di attacco alle compagnie del battaglione. La 46a deve dunque schierarsi al centro e sulla destra della selletta alle spalle di quattro isbe diroccate, la 49a sulla sinistra mentre la compagnia comando viene spinta sulla destra con il compito di operare un largo movimento aggirante sul fianco dell’avversario che continua a far fuoco con mortai e cannoncini a tiro rapido. Sentiamo lanciare rauchi “Hurrah…” ed ecco i russi avanzare sulla destra della selletta, ma le mitragliatrici e le bombe a mano della 46a li fermano decisamente sul ciglio estremo. La temperatura si mantiene sempre assai rigida e col passare del tempo la situazione non accenna a migliorare: a due Breda si è congelato l’olio e neppure il fuoco acceso al riparo di un’isba riesce a sciogliere quel blocco di ghiaccio; anche un mitragliatore, al centro della linea, tace di colpo, alcune bombe a mano non riescono a scoppiare nella soffice neve. I feriti, adagiati accanto a due muretti, invocano aiuto… Accanto alle isbe di Arnautowo, ove il Tirano sta combattendo la battaglia per la salvezza dell’intera colonna in ritirata, una trentina di artiglieri del gruppo Bergamo, morti congelati ed abbracciati ai loro pezzi, nelle pose più drammatiche e tragiche, restano i muti testimoni dell’eroismo dei loro fratelli alpini! Così è finito per questi oscuri artiglieri il tragico combattimento della notte innanzi, i cui echi, da noi tutti che stavamo a Nikitowka, erano stati perfettamente uditi. Veniamo intanto informati che Perego è caduto e che il capitano Grandi, comandante la 46a, è ferito gravemente: la furia del combattimento si è frattanto spostata sulla sinistra della selletta, investendo in pieno la 49a. Sulla neve, carponi, ecco che mi si avvicina il portaordini Robustelli con un messaggio di Taccagno: raggiungerlo subito per comunicazioni. Lo trovo poco dietro, accanto al colonnello Adami, comandante il 5° alpini, ambedue preoccupati e pensierosi. Mi affida il comando della 46a, ordinandomi di fare affluire in linea uomini e munizioni nonché di rafforzare le nostre posizioni. I russi infatti stanno ora decisamente attaccando sulla sinistra della selletta, ma la “49a di Dio” non molla neanche un metro di terreno: la neve è rossa del sangue delle “penne nere” che, le dita incollate sulle mitragliatrici, sparano a zero contro il nemico che avanza. “Non si cede…!” questo è il grido degli alpini che viste incepparsi due armi automatiche si buttano al contrattacco; nell’azione che segue cadono da prodi, alla testa del reparto, il capitano Briolini, comandante la 49a, i tenenti Nicola e Soncelli, mentre a terra resta gravemente ferito il tenente Calvi. La sparatoria non dà requie, la 46a e la 49a sono rimaste quasi senza munizioni, i russi non accennano ad alleggerire il loro impeto: è un momento molto critico per tutti ma finalmente vediamo arrivare i primi rinforzi sotto forma di reparti della 109a e della 48a che a fatica riescono a piazzare due mortai da 81 e due cannoni da 47/32 iniziando un tiro rapido contro l’avversario: era proprio ora! Vado a trovare Grandi in una delle isbe adibite ad infermeria: il tenente medico Taini scuote la testa. L’addome è forato in più parti e quasi nulle sono le speranze di poterlo salvare: si era lanciato con due bombe a mano contro una ridotta russa, ma una sventagliata di parabellum lo aveva subito inchiodato al suolo, nel suo generoso tentativo di distruggere quel centro di fuoco che teneva sotto tiro la postazione del tenente Darè. Accanto a Grandi i corpi dilaniati di Perego, di Torelli e di tanti alpini. Tutt’attorno si accatastano i feriti in un clima di gelo polare, in una allucinante confusione di urba, di grida e di invocazioni: i due medici ben poco possono fare, esaurite come sono da tempo le scarse dotazioni sanitarie. Mentre la C.C.T. prosegue nel suo movimento aggirante, ecco entrare in azioni due cannoni da 75/13 di un nostro gruppo di artiglieria divisionale nonché la squadra mitraglieri della 48a. Il caos delle retrovie non aveva permesso ai rinforzi di uomini e alle grosse bocche da fuoco di raggiungere la selletta in tempo utile; così il Tirano, basandosi unicamente sulle proprie forze, aveva dovuto sostenere tutto da solo il peso del tremendo combattimento ed immolarsi, con quasi metà dei propri effettivi, per aprire la via per Nikolajewka alla colonna in ripiegamento. I morti e i feriti infatti non si possono contare tanto il terreno è disseminato di alpini, tragiche macchie scure sulla bianca neve sconvolta dalla furia della battaglia. Il fuoco nemico, sulla sinistra della selletta, accenna ora a smorzarsi e ne approfitta tutta la 48a, comandata dal tenente Piatti, slanciandosi all’inseguimento del nemico che abbandona armi, munizioni e lasciando sul terreno anche decine di caduti. La 46a, la 49a e la 109a si fermano invece alla selletta di Arnautowo per riordinare i reparti superstiti e provvedere al carico sulle slitte dei tantissimi feriti: verso le dieci del mattino, la colonna può riprendere la marcia in direzione di Nikolajewka, sulle orme di quell’amorfa massa di sbandati di tutte le nazionalità e specialità, che, spettatori imperturbabili del combattimento senza mai prestare alcuna forma di collaborazione o di assistenza, non avevano esitato, al termine dell’azione, a scavalcare il nostro battaglione, passando tranquillamente con le loro slitte e i loro muli sui cadaveri ancora caldi dei nostri alpini caduti in combattimento… Ben fece Giudici, valoroso sergente della 46a, che imbracciato il mitragliatore aprì rabbiosamente il fuoco contro quelle centinaia di soldati, senza vergogna ne pietà… Carichiamo Grandi su una slitta, avvolgendolo nelle coperte intrise di sangue: è ancora vivo, respira faticosamente scosso dai brividi, sembra quasi voglia sorridermi quando gli dico: “Forza, Grandi, coraggio…” ma si vede che stenta a tenere gli occhi aperti. Il tenente De Minerbi gli accarezza il viso e gli alpini continuano a mormorargli: “Forza, signor capitano, ce la farà…!”. Grandi scuote la grossa testa avviluppata nel grigio passamontagna incollato alla barbaccia dal gelo di questi giorni, ma ci accorgiamo che le nostre parole non vengono comprese. Ad un tratto, però, lo sentiamo sussurrare: “Tirano… mai tardi!…”. poi, dopo un attimo di silenzio, accenna ad intonare le prime parole della famosa e nostalgica canzone: “Il capitano l’è ferito…”. È un momento di profonda commozione per noi presenti… Giudici e Clementi a voce bassa continuano la strofa “…l’è ferito e stà per morire …” ma non riescono più a continuare: scossi dai singhiozzi piangono come bambini! Muti e silenziosi seguiamo la slitta sulla quale ci pare che Grandi continui tristemente a sorridere… E così la colonna dei superstiti riprende la sua dolorosa marcia mentre il freddo sempre più intenso paralizza le nostre membra e tortura i poveri feriti ammucchiati nelle slitte. Gettiamo un ultimo sguardo a quella tragica selletta , tomba del battaglione Tirano, con gli occhi velati da lacrime: ovunque cadaveri di alpini irrigiditi dal gelo della steppa. Quanti magnifici eroi di quella gloriosa giornata che la tragedia della guerra ci obbliga purtroppo ad abbandonare e lasciare in balia del nemico, senza neppure il conforto di una piccola rozza croce: rimasero lassù ad Arnautowo, soli, uno accanto all’altro, riversi sulla neve chiazzata di rosso, accanto alle loro armi che fino all’ultima cartuccia avevano sparato contro il tenace avversario! I pochi alpini del battaglione Tirano, circa 200 uomini della 46a della 49a e della 109a , raggiungono verso le 14 di quel 26 gennaio, dopo aver attraversato l’intera piana, il bastione di fronte a Nikolajewka: la 48a , al termine del combattimento di Arnautowo, aveva proseguito nel proprio slancio accodandosi al battaglione Edolo mentre la C.C.T., rientrata dal suo brillante aggiramento, era stata inviata dietro ordine di Adami a riforzare un altro battaglione del 5° alpini. Un’immensa colonna di uomini e di slitte è ora ferma sulla neve, immobilizzata dalla violenta reazione di fuoco proveniente dalla linea ferroviaria che corre proprio di fronte all’abitato: ha così inizio il secondo tragico combattimento della giornata, l’ultimo del nostro ripiegamento, quello che avrebbe però dovuto decidere della salvezza di decine di migliaia di soldati. In quella bolgia di uomini laceri e spossati, sotto i colpi di mortaio che dove cadevano sicure erano le vittime, andiamo a cercare il collegamento con il comando del 5° alpini e col battaglione Edolo. Veniamo così a sapere che i battaglioni Val Chiese e Vestone del 6° alpini stanno attaccando sotto un fuoco infernale lo sbarramento russo: il nemico, abbarbicato al terrapieno della ferrovia e alle numerose isbe, in posizione predominante, può facilmente battere con il tiro rapido delle sue armi i nostri reparti che tentano l’avvicinamento alle rotaie. Diversi colpi di mortaio provocano ancora vittime fra gli alpini del Tirano, la cui colonna è sempre ferma in attesa di ordini… Anche i micidiali “Rata” scendono a mitragliarci da bassa quota, passano e ripassano lanciando fra noi spezzoni incendiari: ma ecco due slitte prendere fuoco e i muli, avvinti alle stanghe e impazziti dal terrore, si slanciano col loro carico in una folle corsa abbattendo gli uomini che incontrano sul loro tragitto. I feriti dalle slitte chiedono aiuto, urlano per un sorso d’acqua, implorano il medico: purtroppo quello che si poteva fare è stato fatto e non abbiamo assolutamente nulla per dare a questi nostri fratelli un sia pur minimo conforto materiale. Vedo passare il cappellano padre Corsara che si avvicina alle slitte per portare la sua parola di rassegnazione; anche padre Tonidandel, irriconoscibile nella coperta che lo avvolge, si adopera per assistere i tanti feriti. Ma finalmente riusciamo a raggiungere la 48a: siamo sulla sinistra dell’abitato, accanto all’estremo sottopassaggio della ferrovia, mentre alla destra, vicino a un mucchio di macerie, è arroccata la compagnia comando: quest’ultima compagnia aveva già respinto un attacco russo ma era riuscita, dopo un eroico contrattacco, a ristabilire le posizioni. Il suo comandante, tenente Alessandria, impartisce gli ordini da una slitta ove giace gravemente ferito al volto e mi comunica l’eroica morte del giovane sottotenente Slataper che, slanciatosi all’assalto del nemico e colpito per due volte in pieno petto dalla mitraglia, aveva trovato la forza di gridare agli alpini del suo plotone nel suo inconfondibile dialetto triestino: “Dài fiòi… forza Quinto… Viva l’Italia…!”. I russi stanno intensificando la loro sparatoria e gettano nella battaglia tutto il peso delle loro artiglierie; con i pochi alpini rimasti della 46a mi avvicino sempre più all’abitato, infilandomi in un cuneo sulla destra del sottopassaggio: vedo alcuni reparti ondeggiare avanti e poi indietro, poi scorgiamo un forte reparto russo saltare giù dal terrapieno della ferrovia e venire fatto letteralmente a pezzi dalle armi della 48a. Calano le ombre della sera, il freddo è davvero pungente! Mentre il fuoco aumenta di potenza, ecco il battaglione Edolo sfilare sulla nostra destra unitamente ad un battaglione del 6° alpini: si stanno dirigendo verso la curva della ferrovia, aspramente contesa ma ancora terra di nessuno. Vedo correre Novello che urla: “Di là è la salvezza, alpini! Di là vi è l’Italia! Forza “veci” del Quinto…” ed ecco che si formano plotoni e reparti, si improvvisano squadre, tutti concorrono a questo estremo generoso sforzo, dal generale all’ultimo alpino; è sufficiente possedere ancora un fucile, una bomba, una baionetta, e via! all’assalto dell’ultimo ostacolo, oltre il quale, ci dicono, ci sia davvero la salvezza. Disorientati ed attoniti i russi abbandonano lentamente le difese più avanzate: la piana di Nikolajewka risuona di urla e di grida, sono i soldati di tutte le nazionalità che si slanciano all’assalto del terrapieno superandolo di slancio, cadono, si rialzano, manovrano, poi come belve piombano sul nemico: ciò che importa è di fare presto! La 48a è magnifica nella sua azione, ma il suo comandante, tenente Piatti, alla testa degli alpini, è fermato di colpo nella sua corsa da una scarica di parabellum che lo inchioda all’uscita del sottopassaggio. Tutti si sono messi ora in moto, anche le slitte, che entrano di corsa nel grosso borgo per procurare al più presto un tetto e un po’ di calore al loro carico di sofferente umanità. Sono quasi le venti, è già buio fitto, allorché raggiungiamo il centro di Nikolajewka, in preda ad una confusione che mai nessuno avrà la forza di descrivere nei suoi reali termini. In un’isba semivuota faccio scaricare le slitte dei feriti: cosa mai possiamo fare per questi poveretti? Tanti purtroppo sono spirati nel corso della giornata, altri, intorpiditi dal gelo, respirano a fatica, stretti in una morsa di ghiaccio. Grandi è ancora vivo, balbetta qualche parola ma non ne comprendiamo il significato: gli occhi sono chiusi, trema per tutto il corpo. Il tenente medico Taini mi consiglia di non muoverlo ma di lasciarlo tranquillo. Alle due di notte, ecco giungere l’ordine di immediata partenza, mentre su Nikolajewka ricominciano a cadere colpi di mortaio: accelero al massimo le operazioni di carico dei feriti sulle poche slitte rimaste, i cui muli, per nostra fortuna, hanno trovato magro sostentamento nella paglia dei tetti delle isbe e parecchi di essi sono ancora in grado di tirare il loro prezioso carico. A pochi chilometri fuori dell’abitato mi avvisano che Grandi è spirato. Mi avvicino alla sua slitta e sollevo la coperta che lo avvolge: dorme in pace, ha il viso sereno. Ad un centinaio di metri di distanza mi indicano i muri di un’isba semidistrutta: lo adagiamo sul terreno gelato dopo averlo ricoperto di un soffice strato di neve candida. Addio per sempre, nostro valoroso comandante, la tua lunga giornata terrena volge al termine. È il 27 gennaio 1943. E si riprende l’estenuante marcia in direzione di Uspenka, quell’incredibile marcia che sta sospesa fra l’umano e l’irreale, un piede avanti all’altro, l’automatismo naturale del passo, quasi una tortura il doverli posare sulla coltre lucida e gelata che nega persino il conforto di un sorso d’acqua. Fermarsi, anche per un solo istante per riprendere fiato, significava entrare insensibilmente nell’immobilità statuaria che solo il primo tepore a primavera avrà il potere di sciogliere e di scomporre. Avanti, avanti verso ovest, perché solo in quella direzione sappiamo esserci la salvezza per tutti noi, la nostra “baita”, la nostra Italia tanto lontana.

 

Alpino Michele Donati (Fronte russo)

Quelli della mia età o giù di lì se lo ricordano ancora: il 1917 batte un primato assoluto di mesi di naia senza interruzione. Nel luglio 1942 la Tridentina parte per la Russia: destinazione fronte del Caucaso. Per cause non specificate i vecchi scarponi sono dirottati sul fronte del Don dove operava il vecchio CSIR, assieme ad altre quattro divisioni di fanteria. Il battesimo del fuoco russo lo avremo per tamponare la falla subita dalla divisione Sforzesca. Schierati sul Don siamo affiancati all’armata ungherese, assieme alle divisioni Julia e Cuneense del corpo d’armata alpino. Gli attacchi russi sono brillantemente da noi respinti. Siamo però quasi all’oscuro di quanto stanno preparando i russi per demolire i reparti italiani. Infatti verso il 10 dicembre un massiccio attacco alle divisioni di fanteria è quasi disintegrante. Noi siamo saldamente trincerati nei nostri caposaldi, i russi dovranno vedersela con gli alpini. Il numero impressionante dei soldati russi che attaccò i nostri fu pressoché una rovina; in più i russi avevano dei mezzi corazzati che superavano in numero e potenza ogni immaginazione e previsione. Inoltre al loro attivo i russi disponevano sempre di forze fresche e di armi automatiche molto precise e scelti tiratori. Impossibile frenare l’urto di tanti battaglioni, che pure subivano forti perdite. La cosa si fa molto preoccupante quando alcuni reparti della Julia vengono sostituiti dalla Vicenza, per andare in aiuto ai nostri fanti verso il fronte di Kantemirowka. Gli attacchi infittiscono sempre contro di noi. Il resto dell’ottava armata ripiega sempre su tutto il fronte. Solo il corpo d’armata alpino resiste sul posto e protegge per quel che può le spalle al resto dell’ottava armata. Quando verso il 17 gennaio 1943 ci perviene l’ordine di ripiegamento quasi non crediamo: ma è giocoforza ubbidire agli ordini. Era per noi segnato l’avvio alla tragedia. I russi ci incalzavano per ogni dove con forze in organico e partigiane: ormai non c’era più via di scampo, essendo completamente accerchiati. Unica nostra speranza nella vita era il grido di incitamento alla battaglia dell’indomito, del valoroso se pur giovane generale Riverberi che ci guidò in tali aspri combattimenti. Io fui presente dal primo all’ultimo. Quando a Nokolajewka il valoroso generale medaglia d’oro al valor militare ci incitò all’attacco decisivo per aprirci un varco verso la salvezza, ero a pochi passi da lui. (Alpini! si muore dal gelo, dalla fame, oppure dal piombo nemico?) Avanti il Tirano, il Morbegno, l’Edolo, ed il resto degli altri battaglioni e reparti dell’artiglieria alpina. Quando abbiamo posato le nostre mani nude sui cingolati russi abbandonati a Nikolajewka, era veramente la vittoria. L’ultima grande battaglia vinta dagli alpini, era il 26 gennaio 1943. Sfiniti all’inverosimile, camminavano in colonna i pochi rimasti vivi, con la speranza in cuore verso una meta ancora incerta: la patria, la nostra casa assai lontana. In marzo fummo finalmente rimpatriati, ma non era ancora finita la tragedia. Quando la Tridentina ormai semidistrutta e poi rifatta a nuovo con le reclute del ’23 e ’24 poteva ben dominare la Val Pusteria ci fu un grave errore: così all’8 settembre ’43 venimmo fatti prigionieri dei tedeschi e mandati a languire per ben due anni nei campi di prigionia: là, da dove non tutti tornarono.

 

Alpino Natale Facoetti (Compagnia Comando - Fronte russo)

26 gennaio. Dopo lunghi giorni di marcia forzata, e aver rotto molti accerchiamenti nemici, attraverso la steppa russa, senza viveri e quasi senza munizioni, tra il gelo cane e la fame, mi trovavo all’imbrunire di quella sera, per entrare in questo famoso villaggio. (Tanto noi i nomi dei villaggi non li conoscevamo, solo camminare per sfuggire ai russi che erano sempre alle calcagna.) Mentre stavamo per entrarci, per ripararci dal gelo della notte in qualche isba, siamo stati sorpresi da un intenso fuoco di armi automatiche. Strisciando sul ghiaccio a carponi per portarmi fuori dai tiri, in quella confusione sentii vicino a me uno che gridava forte: “Fuori gli ufficiali”; ma nessuno rispose all’appello. Così si poteva organizzare tre specie di soluzioni, perché era possibile tornare indietro e fermarsi tutta la notte, o morire assiderati, o tentare la sorte. Così decisi di mettermi su una collina, e raggiunsi un’isba nel villaggio, per poter ripararsi dal freddo polare che faceva quella notte, sotto i colpi di arma da fuoco che si sentivano sempre. In questa isba eravamo circa una trentina di noi. Sentii la padrona dell’isba che diceva di andare via dalla sua casa, si faceva capire benissimo che eravamo in mezzo ai loro partigiani, ma nessuno le diede ascolto, tanta era la stanchezza e il tiepido caldo, che ci addormentammo quasi tutti. 27 gennaio. Mi svegliai alle ore 6 circa, avevo bisogno di uscire, faccio per aprire la porta fino a metà ma un nostro alpino mi si è messo davanti a me per guardare se c’era ancora il suo mulo, che aveva lasciato fuori la sera precedente. Così, proprio in quell’istante ha preso in pieno una raffica di mitra, facendomi scudo col suo corpo. Si creò nell’isba un panico generale: qualche mio compagno di sventura, circa una decina, tentò di fuggire da una finestra, ma inutilmente; tentarono da un’altra finestra, ma anche quella era sorvegliata, e il panico continuava ad aumentare. Mi recai sopra la soffitta dell’isba e feci un buco nel tetto di paglia, e vidi proprio un russo che aveva un suo parabello, un mitra proprio davanti alla finestra, era lontano circa un centinaio di metri; io puntai il fucile contro di lui e feci partire un paio di colpi, poi giù di corsa (io non so se l’ho ferito o ucciso).Fui io il primo a uscire dalla finestra e gli altri dietro di me. So solo che correvo verso il terrapieno della ferrovia e facevo come pista in mezzo alla neve, e mi sparavano addosso, sentivo qualche mio amico brontolare. Così arrivai ai piedi del terrapieno della ferrovia. In cima vedemmo subito una ventina di russi in tuta bianca col parabello in mano. Il mio amico Giuseppe Laini di Canonica D’Adda, nel vedere questi soldati russi, una ventina circa, fece per alzare il fucile, ma a metà movimento gli ho dato uno schiaffo, per distoglierlo dal suo proposito. I russi si avvicinarono, noi naturalmente con le mani che guardavano il cielo, in segno di resa; uno mi ha tolto un paio di bombette a mano che in mezzo alla neve facevano sempre cilecca. In tutto eravamo in cinque o sei, gli altri sono rimasti per strada; e intanto continuavamo a ripetere quella parola in russo che si impara subito: “Karasciò”, e di stare buono. Mi disarmarono, e mi fecero qualche domanda, che noi non capivamo. Così inizia la marcia del ritorno nel villaggio, ma fatta pochissima strada vedo che al mio fianco passa una slitta piena di pane e di pagnotte, con quel loro profumo. Chiesi al russo che era vicino a me e che mi accompagnava, di darmi un po’ di pane, e con meraviglia vedo che ne prende una, e me la regala. Era ancora calda, allora la spezzai e ne feci un po’ ciascuno coi miei compagni di sventura. Osservandomi il russo in questo gesto, si avvicinò di più e mi abbracciò. Intanto la nostra fila continuava ad allungarsi e quello mi chiamò da parte facendomi capire se potevo far uscire gli altri soldati italiani dalle isbe. Un po’ coi cenni che ci scambiavamo, siamo riusciti a capirci. Mi disse di andare avanti oltre la fila per invitarli a uscire, ma io gli risposi di ordinare agli altri russi di non sparare più che io andavo avanti; e così fu deciso, perché la situazione era grave. Così siamo arrivati in mezzo alla piazza, e la fila diventava lunga, eravamo in fila per quattro, e in quel momento il russo mi ha fermato, e loro si sono nascosti dietro delle isbe, perché passava a bassa quota un aeroplano a due motori. Il mio amico continuava a lamentarsi perché i russi dicevano che ci avrebbero portato in Siberia. Risposi, al mio amico:”Fatti coraggio, così vediamo anche la Siberia, ma guarda però che la nostra Bergamo la vedrai ancora”, e così lo tranquillizzai dicendogli di non seccarmi più. Siamo arrivati a una specie di comando loro, io ero sempre in testa, e sempre il russo che mi aveva abbracciato mi conduce da un loro ufficiale che parlava benissimo l’italiano. Mi ha chiesto se dentro c’erano degli ufficiali, gli risposi che eravamo tutti soldati richiamati. In questa pausa alcune donne russe hanno portato dei veri paioli pieni di patate bollenti ai nostri soldati. Gli domandai che cosa ne facessero di noi, mi risposero che aspettavano il momento opportuno per passare, e ci avrebbero portato sicuramente in Siberia. In questo momento, saranno state le ore 9 del mattino, hanno cominciato a sparare le nostre artiglierie da montagna, i colpi venivano così vicino, che mi fecero spostare un po’ per volta dietro a un graticcio e raggiunsi, al di là della strada, una specie di teatrino. Lì trovai due russi e due ragazzini armati che per prima cosa mi hanno tolto l’orologio, la penna da scrivere e qualche marco di occupazione e mi hanno lasciato due foto, una della mia povera madre e l’altra della mia fidanzata. Intanto i colpi dei nostri cadevano così da vicino che tutto tremava; tanti piangevano per le ferite e per i congelamenti, e tanti pregavano. Così, vicino a me seduto notai un alpino, si levò i suoi scarponi ma non vedevo le dita dei suoi piedi. Così gli dissi: “Ora hai levato gli scarponi e puoi levare anche le dita”, e lui si mise a piangere. “Ti fa male?” gli chiesi aiutandolo a fasciarsi i piedi con le nostre fasce grigioverdi. “Ora non mi fa male.” “Vedrai che il buon Dio ci sarà anche per te.” Il rumore delle armi automatiche si sentiva sempre fuori più in basso di noi c’era un russo che dominava tutta la discesa della strada dal ponte della ferrovia, e non si poteva fare niente per fermare questa sua mitraglia. Sulle ore 3 del pomeriggio non si sentiva più niente e non si vedeva più nessuno, regnava un silenzio tale che non sapevo cosa era successo. So soltanto che la pausa durò poco, ricominciarono i tiri di fucileria, di mitra e di artiglieria, e urla umane a noi note che si avvicinavano sempre di più e la battaglia si è fatta più dura. Così è venuto scuro e da fuori cominciarono a tirare la maniglia della porta, e udendo chi c’era dentro, fu un attimo ad aprire, i russi prima di fuggire avevano chiuso tutto e noi in quel periodo critico eravamo col cuore in gola, perché prima di abbandonarci potevano vendicarsi! Così uscii e per caso trovai un altro alpino della mia stessa squadra, un certo Attilio Rubis di S. Giovanni Bianco (Bg.). Lo salutai e gli cercai delle sigarette, ma nell’oscuro non ho visto subito che era ferito a un braccio. Così gli frugai io e trovai due “Morava”, ma lui mi ha chiesto però del pane, io gli assicurai che gli avrei dato del pane subito, gli dissi di aspettarmi un minuto che andavo a pigliarlo, e il pane c’era perché avevo notato in quelle poche ore quando ero chiuso, che lì vicino c’era una chiesetta in legno e lì vedevo che i russi andavano a pigliare del pane. Entrai, e non mi ero ingannato, presi tre pagnotte, e ho fatto appena in tempo, in un baleno è sparito tutto coi nostri soldati, gridai a squarciagola per chiamare il Rubis, ma io non l’ ho più riveduto. L’ ho riveduto a Salsomaggiore per caso, mi rammentò le sigarette e il pane di quella famosa sera. E l’altro amico Laini lo trovai dopo tanti anni al suo paese. Così, non trovando l’amico Rubis, nella grande confusione mi imbattei per caso in un’isba, dove c’erano dentro 3 o 4 dei nostri ufficiali e un paio di attendenti. Mi dissero subito di andare via e di cercarmi il mio reparto, così feci per uscire, ma uno di loro notò anche nell’oscurità che tenevo fra le mie braccia le tre pagnotte e mi fece fermare. Depositai il pane e noi intanto con gli attendenti frugavamo l’isba, ma niente abbiamo trovato da mangiare. Allora siamo usciti in due girando un po’ per parte, ma le isbe erano piene dei nostri soldati. Il caso mi avvicinò a un’isba, di lato alla porta c’era una specie di pollaio, entrai al buio e con grande sorpresa incontrai con le mie mani due corna: era una capra; avvisai l’altro che era fuori, di quello che avevo trovato e la spingemmo fuori tirandola io per le corna e l’altro chiudendole la bocca per non farla gridare, per non farla sentire agli altri che erano in questa isba, altrimenti me l’avrebbero rubata. Ritornando con la nostra preda, non mi importava più delle fucilate russe con pallottole traccianti, così abbiamo uccisa la capra e in mezzo all’isba c’era una stufa con una specie di padella, la cuocevo così alla meglio. Poi un ufficiale mi disse di portarne un po’ nell’altra parte dell’isba, era come uno sgabuzzino, e dentro c’era una specie di ottomana in legno, e c’erano seduti sopra due generali: uno tedesco l’ ho riconosciuto subito, perché era l’unico che parlava in italiano, e gridava sempre “Forza Edolo e Tirano”; e l’altro era il generale Riverberi. Hanno preso la mia specie di padella e Riverberi disse al tedesco queste parole: “Vedi: i nostri alpini festeggiano già la vittoria”. Io mi infilai sotto quella specie di letto. Là sentii che il mattino alle ore 7 del giorno 28-1-1943 si partiva, e a poca distanza dovevano trovarsi le avanguardie tedesche. E al mattino ci siamo divisi in due colonne, marciando proprio verso le linee tedesche.

 

Sergente Giuseppe Galbiati (109a Compagnia - Fronte russo)

 

Se potessi dare un titolo a questo mio scritto lo farei con sole due parole: previsione avverata. Nella primavera dell’anno 1942, la 109a compagnia è sistemata, con altri reparti, nelle “casermette” di Rivoli, grosso centro posto nelle vicinanze di Torino. Tutti gli alpini, con marce ed esercitazioni di ogni genere, si stanno preparando per un nuovo prossimo impiego. Già da tempo la solita, ben informata “radio scarpa” diffonde su tutte le onde il luogo di arrivo dell’imminente trasferimento: fronte russo! Nell’ospitale casa del signor Rovei mi trovo sovente alla sera in compagnia di miei cari amici, il caporal maggiore Carlo Capellini e l’alpino Umberto Dorigo. “La lingua batte dove il dente duole”, dice un vecchio proverbio, e, pertanto, il discorso cade sempre in considerazioni sulla grande prova che ci attende. Dorigo, orfano e scapolo, non ha grossi problemi, le sue previsioni non sono ottimistiche; tanto, dice, anche se non dovessi più ritornare, come è probabile, nessuno mi attende a casa, mentre invece voi… Capellini, con la mamma e la sorella che l’attendono a casa in preghiera e con un altro fratello, pur esso al fronte, è meno pessimista e prevede di ritornare ancora alla sua casa, magari zoppicando! Io, più ottimista di tutti, mi sento sicuro di ritornare sano e salvo; diamine, a casa ho papà, mamma e sorella e qui a Rivoli ho già messo gli occhi su di una bella figliola, che riprometto in cuor mio di portare un giorno all’altare. No, non posso, non voglio che tutti i miei sogni vengano infranti. Il giorno 22 luglio si parte da Collegno e, via via, con la lunga tradotta, si valica il Brennero, si scende in Austria, si attraversa la Germania e la Polonia per entrare, infine, nella sconfinata pianura russa, in un mare di campi di frumento e di girasoli; Minsk, Gomel, Gorlowka, dove ci si accampa attendati nel vicino bosco. Il 16 agosto 1942 iniziamo le marce verso il Caucaso, ma dopo tre giorni il movimento in quella direzione viene sospeso; “radio scarpa” avverte che le montagne non le vedremo più, perché hanno deciso di impiegarci altrove. Si riprendono le marce, per qualche giorno si viaggia a piedi, poi dei capaci autocarri ci trasportano al fronte: i russi hanno attaccato ed avanzano, la situazione si rabbuia alquanto, ma per poco. La fine dell’estate trascorre relativamente liscia; ai primi di novembre i reparti di linea del battaglione Tirano si attestano sulla riva del Don in località Belogorje; le salmerie con l’autocarreggio si dispongono sulle tre basi di Kulschowka, Sergeiewka e Morosowka. Le prime nevi a metà novembre ci avvertono che il terribile inverno russo è ormai vicino. Da novembre a gennaio sulle nostre linee non si segnalano episodi di grande rilievo, se consideriamo nel loro complesso gli eventi che si stanno svolgendo intorno a noi. In dicembre la posta, tanto attesa quanto desiderata, arriva solo dopo lunghi intervalli irregolari: qualche cosa di certo non funziona nelle retrovie.Troppa è la calma sul fronte ai primi di gennaio; infatti grossi nuvolosi si stanno addensando sul nostro capo. Il giorno 17 gennaio 1943 verso sera, il nostro battaglione inizia il ripiegamento su Podgornoje, lasciando in linea parte della forza con il compito di mascheramento e di protezione. Il giorno dopo, raggiunti dalle truppe di copertura suddette, iniziamo la tragica, lunga, allucinante marcia nella gelida ed inospitale steppa russa che ci porterà, dopo furiosi e sanguinosi combattimenti, all’abitato di Nikitowka, quando il sole sta per porre termine alla giornata del 25 gennaio. Mentre nel tepore delle isbe assaporiamo un po’ di miele, non possiamo ancora immaginare cosa ci riserverà l’indomani. Il mattino del 26 gennaio il nostro battaglione è chiamato a sostenere un furioso combattimento contro soverchianti forze avversarie. Il sacrificio di tanti alpini di ogni grado, servirà ad aprire la via per Nikolajewka che verrà occupata la sera, dopo una memorabile battaglia oramai passata alla storia. Al mattino del 26, nel fatto d’arme sopra citato, rimangono feriti, oltre al Comandante di compagnia e vari ufficiali, sottufficiali ed alpini, anche il caporal maggiore Carlo Capellini e l’alpino Umberto Dorigo. Sottraendo una comoda slitta ai tedeschi riesco a sistemare su di essa i miei cari amici feriti ed altri alpini pure essi bisognosi, ed alla sera entro in Nikolajewka con quel carico di dolore. Iddio mi ha proprio assistito in modo particolare in quella tragica giornata perché, nonostante tutti i proiettili che mi sono passati vicino, nonostante quel fuoco infernale che mi circondava da ogni parte, alla sera mi trovo ancora intatto, se non nel morale, almeno nel fisico. Sistemati i miei amici così duramente colpiti, cerco anch’io un posticino vagando nelle sconvolte strade di Nikolajewka, dove tutto sta a testimoniare il furore del combattimento da poco conclusosi. Il giorno 27 all’alba si riprende la marcia con passo sostenuto, perché c’è poco tempo da perdere; mi assicuro nuovamente delle condizioni dei miei amici: il caporal maggiore Capellini presenta ferite multiple al braccio ed alla gamba destra, l’alpino Dorigo colpito alla testa ed al ventre si trova in gravissime condizioni. Purtroppo in una notte successiva, Dorigo, delirante, con una febbre altissima si spegnerà, steso su un duro tavolo, in una piccola isba. L’amico Capellini, appiedato per il furto del suo mezzo di trasporto, troverà un angolo di salvezza su di una slitta guidata dal caro sergente Bellaviti che da giorni trascina con sé il fratello gravemente ferito. Il giorno 31 gennaio, abbracciato di nuovo il mio amico superstite, lo carico su di una autoambulanza che lo porterà a Karkov, dove, successivamente verrà rimpatriato. Noi sopravvissuti alle tragiche vicende, dovremo marciare ancora per parecchie settimane, prima di trovare il treno che ci riporterà in Italia. Dopo l’8 settembre inizierà per me il nuovo doloroso capitolo della lunga prigionia in Germania. Terminata la guerra, rientro in patria dopo avere lasciato un terzo del mio peso in quella lontana inospitale terra tedesca. L’amico Capellini si affaccia sulla soglia della mia casa e mi guarda esitante, non mi riconosce subito, ma, dopo un istante, zoppicando e reggendosi con un robusto bastone, mi viene incontro: un commosso affettuoso abbraccio suggella la nostra antica amicizia. Il caro Dorigo non c’è, il suo corpo senza vita è rimasto là, in quella notte, nella piccola isba sperduta nell’immensa pianura russa. Il 12 maggio dell’anno 1946, Capellini assiste alle mie nozze quale testimone; infatti la bella figliola che avevo conosciuto a Rivoli sta per diventare mia moglie. Con questo ultimo felice avvenimento, la previsione si è completamente avverata.

 

Tenente Giovanni Piatti (Medaglia d’Oro al V.M. alla memoria Comandante 48a Compagnia - Fronte russo)

Non impensieritevi, miei cari, se non riceverete posta da me; ecco la mia ultima lettera. Ora sono disteso entro la ferace terra della grande Russia ove le nubi bianche ed il cielo azzurro fanno da volta alla mia tomba. Non rammaricatevi, o voi che ho molto amato, non rammaricatevi se non di aver dovuto rinunciare, come era vostro diritto, al mio sangue continuatesi nella prole che da me avrebbe preso vita e nome. Se le mie scarpe oggi brillano al sole è per la volontà di Dio, della sorte, del fato, per l’imperscrutabile legge che governa la vita e la morte, il bene ed il male, la pace e la guerra. Sappiate comunque che non ho gettato la mia gioventù matura al di là di tutti gli ostacoli per puro spirito di esibizionismo. Né ho voluto morire per nausea della vita. Desideravo anzi di vivere. Sono partito perché il buon nome d’Italia della quale mi sentivo figlio migliore imponeva, una volta lanciata la sfida, che le sue creature più disinteressate raccogliessero l’impegno di fronte all’alleato e di fronte all’avversario di tener fede alle rivendicazioni spirituali e materiali intese a portare questo santo popolo nella gerarchia universale che gli spettava. Sono partito perché i più giovani di me non vollero partire, perché i vociferatori della guerra tradivano la santa causa del popolo, sono partito anzitutto perché i miei alpini – che la storia dimostrerà essere i più puri rappresentanti della stirpe italiana – volevano essere condotti da capi responsabili, da uomini come loro, solidi, decisi, tenaci. Mai ho nutrito odio verso i popoli che combattemmo. Ancora oggi che riposo nel mondo senza patria sono convinto, come fui sempre, che nel secolo ventesimo tutti siamo europei, di razza bianca. Dimentico delle comuni gioie che fanno la felicità terrena dei molti, dimentico della mia giovinezza, del mio lavoro, dei miei compagni, di tutte le soddisfazioni e delle delusioni, solo col vostro affetto nel cuore, io non rammarico la mia sorte, non la impreco. La misericordia dell’Onnipotente mi diede la salute, il denaro, la vita serena, la casa paterna ospitale, una madre amorevole; mi lasciò conoscere le soddisfazioni terrene. Che altro avrei potuto esigere? Della lealtà ho fatto la mia scuola di vita; sono stato fedele alle leggi. Fui circondato dall’amore di altre donne, ma il più puro, il più santo è il tuo, o mamma carissima, o tu che sempre mi hai dato senza nulla chiedere. Ora che riposo nel sonno eterno, transustanziato nella terra su cui crescono le messi dell’est, sento che questo amore avrebbe dovuto essere da me corrisposto con minor egoismo. Ma è tardi! Forse è la stessa volontà di Dio che ha voluto riserbare il ricordo di me nel cuore di una sola, di te mamma, perché da te fosse santificato al di fuori di ogni idea men che pura. Non piangere perché noi soli siamo in comunione perenne ed io ti ho preparato nell’alto dei cieli, ove le stelle indorano le azzurre vie dell’infinito, la nostra casa comune, eterna. Ora questo posto è rappresentato da un semplice rigonfiamento del terreno su cui crescono i girasoli che fiammeggiano sulle pianure russe; ma chissà che non sia meglio per tutti. Tempi sempre tristi attendono il mondo. Gli errori dei governanti cadono sui popoli. Mettete il mio cappello alpino che lascio a casa, intriso ancora del mio sudore con la penna di falco, con la nappina rossa, mettetelo in un’urna di cristallo e riponetelo nel sepolcro di famiglia ove dormono i nostri morti. Esso mi rappresenta, esso sta in luogo delle mie ceneri troppo lontane ed ormai volatilizzate dal vento della steppa ghirghisa. Esso vi attende con me fianco a fianco. Se avete altro tempo da vivere fatelo con sovrana alterigia sopra le miserie della vita. L’onestà continui ad essere la vostra norma, la libertà delle opinioni il vostro credo, l’amore nel valore del popolo,contro il quale nessuno prevarrà, la vostra fiducia.Non piangetemi né adornate la mia tomba dei fiori prosaici nati nelle serre. Portatemi qualche volta un fiore alpino, nato sulle vette, cresciuto nel sole di Dio ed abbeverato alle fonti difane dei ghiacciai, puro come l’aria della montagna ove sovente mi ritirai a fortificare il mio carattere. Destinate alla pubblica carità – quella saggiamente amministrata – quel qualsiasi obolo che la vostra pietà vi consiglierà di spendere per ricordarmi. Nessuno spirito di vendetta vi animi contro chiunque. Nessuno ha vera colpa se non noi stessi che non reagimmo in tempo. Non aggiungete altro rancore, altro sangue al sangue, al troppo sangue sparso per una causa santa ma vana, perché non è la spada che afferma i diritti, non è la violenza che risolve i problemi della vita; è la carità, la comprensione,è l’amore. La spada non semina che morte. Io sono con voi ma non ho voce, non ho più volto, non ho più sangue, ma io sono con voi. Salite per me le colline che circondano Como, la nostra bella città, recatevi per me sulle acque del lago, guardate per me questo scrigno di sempre cangianti bellezze, guardatelo perché io l’ ho amato.Date ai miei veri amici un ricordo di me. Ai miei alpini un aiuto. Per me benedite le loro case, i loro figli, fatelo per me perché sono io che lo faccio per voi. Per me siate fieri e sereni, fieri di avermi dato i natali, sereni perché io stò bene, perché stò meglio di voi. Io spazio nell’eternità della materia, divenuto libero e puro. Io vi amo e vi assisto.

 

Tenente Arturo Vita (46a compagnia-Fronte Russo)

Chi ha avuto la ventura di partecipare (e di fare poi ritorno a casa) all’epica battaglia di Nikolajewka del 26 gennaio 1943, difficilmente potrà scordare quell’immensa piana, limitata su due lati dalle basse colline su cui sorgeva l’abitato di questa importante via di comunicazione; il suo viadotto ferroviario con il famoso sottopassaggio, attraverso il quale irruppero i primi animosi; lo sbarramento di fuoco delle armi automatiche appostate dietro le due vaste isbe rosse, che con il loro tiro incrociato bloccavano chiunque avanzasse dal terrapieno della ferrovia; ed infine ancora i mitragliamenti russi contro la massa dei soldati, il morso del gelo, l’ansia e la disperazione che gravavano nel cuore di tutti noi. Ma era soprattutto il freddo a congelare il nostro spirito in quella grigia giornata, iniziata, per noi del Tirano, con lo sfondamento alla selletta di Arnautowo, nella stessa mattinata, delle prime resistenze nemiche; fu un’azione impetuosa e prepotente, che costò il quasi totale smembramento del battaglione. Ben sei le medaglie d’oro concesse agli eroi del Tirano; ma la via fu così aperta alla colonna in fremente attesa. Era il freddo che penetrava nelle ossa, protette a malapena dagli insufficienti cappotti col finto pelo e dalle malfatte scarpe del regio esercito, era il gelo che paralizzava la mente di chi aveva dovuto combattere da 9 giorni senza possibilità di riposo, di vitto e di caldo; erano i quaranta sotto zero che ti agghiacciavano l’intelletto, per cui desideravi solo stenderti sulla neve, sederti ai bordi della pista, abbandonare la colonna, per immergerti felice nel tepore di un sonno ristoratore che ben presto si sarebbe tramutato in morte sicura ed immediata… E così li lasciammo, i nostri alpini, lungo la gelida steppa, appoggiati ai muri delle isbe, seduti o sdraiati sulla neve, in attesa di un soffio caldo che non riuscivano più a ricevere da nulla e da nessuno; li lasciammo addormentati nel sonno eterno, mentre la neve scendeva fitta e ben presto li avrebbe ricoperti col suo candido manto di pietà infinita. Ed ora di fronte a noi si ergeva Nikolajewka, baluardo che sembrava imprendibile: la massa attendeva immota, mentre le prime ombre della sera acuivano ancor più l’incubo di quelle ore di ansia e di incertezza, per cui un’altra notte all’addiaccio, in quelle condizioni di spirito e di ambiente, avrebbe certamente significato la morte certa per assideramento! E venne improvviso un urlo a rompere quell’atmosfera, un urlo lanciato da uomini come noi ma più coraggiosi, che si erano avventati contro le difese nemiche al seguito del generale Reverberi, il quale in piedi sulla torretta dell’unico carro armato tedesco ancora efficiente, urlava “Avanti Tridentina – Avanti – Di là c’è l’Italia…!”. E la massa si mosse, dapprima lentamente e poi sempre più veloce, rincuorandosi a vicenda, col volto atteggiato ad un mesto sorriso, il cuore aperto ad un nuovo alito di speranza… “Avanti, avanti…” si udiva gridare da più parti, “Forza ragazzi… avanti alpini!..” e gli uomini intorpiditi, stanchi, affamati, congelati, feriti, si buttarono, nel gelo del tramonto, contro le mitragliatrici russe asserragliate nel loro abitato. Ed anche noi entrammo a Nikolajewka, dopo aver perso ancora tanti dei nostri alpini, primo fra tutti il tenente Piatti, che con gli uomini ancora validi della sua 48a Compagnia, non aveva esitato a buttarsi attraverso il tragico sottopassaggio della ferrovia. E fu la settima medaglia d’oro del Tirano quel giorno: le altre sei corrispondono ai nomi di Grandi, Briolini, Slataper, Nicola, Perego e Soncelli. La sera stessa riuscimmo a sistemare in un’isba, a protezione delle morse del gelo, oltre 28 alpini del nostro battaglione: il medico li curò e li medicò… ma un cerino inavvertitamente lasciato cadere sulla paglia provocò l’immane tragedia! Perirono tutti quanti in un tragico rogo, fatale destino per loro, mentre le fiamme dell’isba maledetta illuminavano sinistramente Nikolajewka immersa nel silenzio della notte. Il mattino successivo si riprese il cammino in direzione degli avamposti ungheresi ed ogni tanto volgevamo il capo alla coda della colonna, lungo serpente nero snodatesi sull’immacolata pista…: alcune isbe di Nikolajewka ardevano ancora, qualche sporadico colpo di fucile rintronava nel gelo e spaccava il silenzio di una grigia alba: la libertà per noi era oramai vicina.

 

Maggiore Franco Maccagno (Comandante del Battaglione Tirano-Fronte Russo)

Partiti da Nikitowka, all’alba, mandai in ricognizione un tenente, il quale mi riferì subito dopo che i russi stavano attaccando sul fianco sinistro. Rammento di aver disposto sulla selletta di Arnautowo una compagnia sulla sinistra (la 49a comandata dal capitano Briolini), al centro la 46a comandata dal capitano Grandi, in attesa che la 48a, comandata dal tenente Piatti, giungesse sul posto, essendo stata mandata in rinforzo al comando di divisione a Nikitowka. Ricordo che il sottotenente Giuliano Slataper, medaglia d’oro, mi chiese il permesso di partecipare con i suoi alpini (era alla compagnia comando) alla lotta contro i russi, i quali si avvicinavano sempre di più sulla sinistra. Poco dopo cadeva colpito a morte, nel tentativo di trattenere il nemico. Ricordo che nel frattempo era stato ferito alla schiena il capitano Bonomi, ingegnere, che comandava la compagnia cannoni. Una delle tante granate, scoppiate nelle immediate vicinanze, aveva tentato di colpire il sottoscritto; un alpino mi chiese se ero ferito, ma risposi che non mi era capitato nulla, all’infuori di una sbrecciata al mio pastrano con un foro nella giacca a vento che portavo sotto, all’altezza dell’ascella destra. Un alpino, con un braccio completamente, o quasi, staccato dal busto, fu ricoverato su di una slitta e non so che fine abbia fatto. Il tenente Del Curto, intanto, era stato ferito anche lui, al collo; mi chinai su di lui; vidi che la ferita, se pur grave, non interessava la gola; per persuaderlo, gli diedi un pezzetto di galletta dicendogli: “Se non fuoriesce dal foro, vuol dire che la gola non è intaccata…”. Il tenente Del Curto potè inghiottire il pezzetto di galletta, così tutto andò bene; egli fu poi caricato su di una slitta e posto in salvo. Sulla selletta, un artigliere di montagna, accovacciato sul suo cannone, era morto; un proietto entratogli nel petto era fuoriuscito dalla schiena, formando come un fiore con la lana del cappotto trapassato. Intanto cadevano il capitano Briolini, medaglia d’oro; il tenente Soncelli, medaglia d’oro; il capitano Grandi, medaglia d’oro; il tenente Nicola, medaglia d’oro; il tenente Perego, medaglia d’oro ed altri. Davanti a Nikolajewka il valoroso comandante del 5° Alpini, colonnello Adami, mi diede ordine di scendere sulla sinistra con i resti del battaglione. Moriva nella mischia il tenente Piatti (medaglia d’oro), mentre il tenente Alessandria, mi pare che se la sia cavata con una ferita. Seppi che con le salmerie era caduto anche il tenente Astolfi. Mi rifaccio alla relazione fatta dal capitano Stucchi, firmata dal colonnello Adami, comandante del 5° Alpini, nella quale è detto che la difficile prova avrebbe potuto compromettere la salvezza di tutta la colonna, se non fosse riuscita. Ricordo il tenente Monti, caduto a Skororib, forse il primo ufficiale del Tirano morto durante il ripiegamento, e il tenente Ripamonti. E tanti altri…

 

Tenente Arturo Vita (46a compagnia-Fronte Russo)

30 AGOSTO 1942 SANGUE E LUTTO PER IL BATTAGLIONE ALPINI “TIRANO” IN RUSSIA. Il 30 agosto 1942 è una giornata di sangue e di lutto per i battaglioni alpini “Tirano” e “Monte Cervino”. Il dottore Arturo Vita, dirigente aziendale in Milano, a quel tempo tenente presso la 46^ compagnia del “Tirano”, scriveva nel suo diario: “Era il 30 agosto, data che resterà sempre bene impressa nella mia mente. Trovai il Comandante a rapporto nel suo camioncino; mi offrì mezzo pollo e mi pregò di accompagnarlo in ricognizione nella zona della quota 187,7. Partimmo così in sei verso le ore 13: Maggiore Gaetano Volpatti Comandante del “Tirano”, Capitano Vittorio Brivio Comandante la 48^ compagnia, Capitano Gaetano Giamminola Comandante la 109^ compagnia armi di accompagnamento, Sottotenente Gastone Da Re della 46^ compagnia, Sottotenente Angelo Fracasso della 109^ compagnia ed io.” “Lasciato il camioncino a Jagodnji salimmo a piedi fino alla piccola balka ove aveva sede il Comando del battaglione “Cervino”. Ci facemmo molta festa col Comandante Tenente Colonnello Mario D’Adda, vecchio amico del 5° e con gli altri amici. Ci fu spiegata la zona, mostrati i punti salienti del terreno, poi il Capitano Eligio Biasi decise di accompagnarci per un pezzo di strada; uscimmo dalla balka e ci incamminammo in gruppetto verso la quota mentre Fracasso e Da Re si attardavano ancora a salutare, per loro fortuna, un altro conoscente.” “Un primo colpo di mortaio venne a scoppiare a 30 metri di distanza: “ è la loro controbatteria”, così ci fu spiegato; infatti le nostre artiglierie avevano appena terminato un tiro di aggiustamento. Seppi poi, invece, che nella piana tra le quote 187,7 e 226, era abilmente nascosto in un pagliaio un osservatorio russo e da lì il nemico dirigeva il tiro dei mortai. Evidentemente noi camminavamo un po’ troppo allo scoperto. Dopo dieci metri di strada, altra mortaiata. Ci buttammo per terra e poi continuammo tranquillamente il cammino. Era in testa il Maggiore con Biasi, dietro Brivio, Giamminola e io. Caddero due colpi ancora, sempre più vicini; sembrava proprio che i russi correggessero il tiro; infatti appena rialzati dalla posizione “a terra”che si assume in questi casi, un colpo cadde in pieno sul nostro gruppo. Fui lanciato dallo spostamento d’aria a cinque metri di distanza; appena dileguatisi il fumo e la polvere tentai di alzarmi; ero illeso, avevo soltanto le ossa un po’ indolenzite e il viso un po’ escoriato. Ma quale tragico spettacolo si presentò allora alla mia vista: il povero Maggiore Volpatti e Biasi giacevano riversi in un lago di sangue; Giamminola rantolava e poco dopo lo vidi esalare l’ultimo respiro; Brivio era vivo e mi disse di essere ferito ad un braccio. Chiesi subito aiuto ad un gruppo di fanti lontani cento metri, ma fecero tutti orecchie da mercante.Gridai a più non posso fino a che non vidi giungere due alpini con una barella; feci subito caricare Brivio, ma in quel preciso momento un altro colpo venne a cadere nello stesso punto ferendo una seconda volta il Capitano e uno dei portaferiti.” “Nella balka che venti minuti prima avevamo lasciata felici e contenti, erano ora allineate quattro barelle con tre morti e un ferito grave. Ringraziai in cuor mio il Signore del tremendo pericolo scongiurato. Un Cappellano diede l’assoluzione ai poveri amici. Brivio purtroppo stava male e il dottore scrollò la testa quando gli chiesi precise notizie.” “….Quale fu la mia gioia nel sapere successivamente che il Capitano Brivio era fuori pericolo. Venne poi portato in aereo a Stalino e di là in Italia dove guarì bene. Dopo due mesi fece domanda di ritornare alla sua compagnia.” “Il giorno dopo il battaglione schierato in armi rese gli onori militari ai nostri due morti, i primi morti del nostro Reggimento. Furono seppelliti nel cimitero militare di Verch Marksaj.” “Caro e buon Maggiore Volpatti, integro e degno Comandante, che tanto aveva fatto per rendere il battaglione sempre più forte ed omogeneo. La morte lo colse proprio nel momento in cui più avevamo bisogno di lui.” “Assunse il comando del battaglione il Capitano Franco Briolini, Comandante della 49^ Compagnia e successivamente il Maggiore Gerardo Zaccardo.” (Tratto dal volume di Aldo Rasero, dal titolo “TRIDENTINA AVANTI” Storia di una Divisione alpina. Edizioni Mursia 1982 – Milano) Questo racconto ci è stato inviato dal Col.Genio Alpino Luciano Salerno di Bologna vi riportiamo il suo messaggio allegato: Cari Amici del "Tirano", nel rileggere lo stupendo volume di Aldo Rasero, "Tridentina Avanti", purtroppo non più in commercio, la mia attenzione è stata attirata da uno stralcio del diario del dottor Arturo Vita, già Tenente della 46^ Cp, in cui egli descrive la tragica morte del Comandante del "Tirano", Magg. Gaetano Volpatti, avvenuta a Jagodnji, in Russia, il giorno 30 agosto 1942. Per la storia è da considerare che il 28 agosto 1942, il 5° Reggimento Alpini, con i suoi tre battaglioni - "Edolo," "Tirano," "Morbegno" era passato alle dipendenze della Divisione "Celere,"inserita tra le Divisioni "Pasubio" e "Sforzesca." Colgo l'occasione per esprimere a tutti Loro il mio più vivo e sentito apprezzamento per l'opera altamente meritoria volta a tenere accesa nel tempo la fiamma del glorioso Battaglione Alpini "Tirano", rendendo così onore anche a tutte le "Truppe Alpine" d'Italia. Con fraterni, memori saluti "alpini."

 

 

Alpino Filippo Bianchi (Fronte Russo)

 

È il 25 gennaio 1943. Dopo un breve, ma intenso combattimento il Tirano si mette in marcia: la 49a e la 46a avanti, la comando al centro mentre la 48a chiude la colonna. Passiamo ai margini di un boschetto ed intravediamo, giù nella balka, un paese che a noi valtellinesi ricorda un poco il nostro Livigno visto dal passo d’Eira. Così ci appare Nikitowka: una lunga pista appena segnata, costeggiata da isbe per chilometri e chilometri. Sogno di tutti noi è di giungere presto nell’abitato con la speranza, essendo i primi, di trovare qualcosa da mangiare, poiché ieri, sotto questo punto di vista, non siamo stati fortunati. Il freddo è intenso ed il cielo sereno, nonostante la fame e la stanchezza si sentono qua e là delle allegre battute e delle franche risate. Qualcuno, per sentito dire, afferma che ci stiamo avvicinando ai capisaldi tedeschi. La voce corre e da tutte le parti si alzano grida di gioia. Io e Piero ci guardiamo in faccia e decidiamo di metterci alla ricerca di qualcuno che sappia di più. Incontriamo Cesare, l’attendente di Vita, che di novità ne sa sempre tante; ma questa volta, alle nostre domande, neppure lui sa rispondere. “Dio car, se al fos vera, quando an va a baita, an fa dir una Mesa in val de Sac.” È tutto quello che Cesare sa dire. Comunque noi tre decidiamo di stare insieme e cerchiamo altri compaesani. Troviamo il Ros, Mafè, Romeri e tutti insieme continuiamo la marcia con rinnovata speranza. Il paese è un paradiso per orsi affamati come noi; infatti è un vero, immenso alveare: ogni isba è un autentico deposito di miele. Prendiamo d’assalto le prime case; ogni vaso che viene alla luce è subito lavato da decine di mani inguantate e sporche. Dopo pochi chilometri siamo tutti sazi, ma, pensando al domani, ci portiamo via, legati allo zaino o assicurati a tracolla con pezzi di filo di ferro, interi favi. Mi sembra che questa sia la marcia più corta e tranquilla di tutta la ritirata. Giunti in fondo al paese troviamo il generale Riverberi e gli ufficiali del 5° che ci assegnano, per la prima volta nella ritirata, gli accantonamenti compagnia per compagnia. Su ordine del tenente Alessandria, Slataper guida il comando verso una costruzione in muratura che avrebbe potuto essere una scuola o un edificio pubblico. Occupiamo uno stanzone al primo piano e depositiamo in un angolo, sul pavimento di legno, le nostre poche cose, lasciandovi di guardia Romeri, il più anziano di noi, mentre, dividendoci i compiti, ci diamo da fare per procurare la cena. Piero va alla ricerca di qualche animale, Mafè e Cesare pensano alla legna e al recipiente per la cottura, mentre io ed il Ros scaviamo sotto la terra delle cantine sperando di trovare qualche patata. Siamo fortunati: ognuno di noi assolve brillantemente il proprio compito. Una latta piena d’acqua è già sul fuoco e ci ritroviamo con un agnello, una gallina, un cesto di patate e cinque pani di miglio. Decidiamo di fare un bel “fricò” e così buttiamo nella latta tutto quello che essa può contenere. L’esperienza ci ha insegnato a non sprecare energie e così, mentre la cena cuoce, riposiamo a turni. Io e Piero facciamo il primo turno di cuochi mentre gli altri schiacciano un pisolino. Quando la cena è pronta svegliamo tutti e, attorno al fuoco, iniziamo quello che a noi sembrava un lussuoso banchetto. Adeguandoci alle usanze russe, non usiamo né piatti né gavette, ma anche noi attingiamo direttamente dalla “tola” con cucchiai di legno o di alluminio. Il “fricò” è caldo, appetitoso e abbondante; sazi e soddisfatti io, Piero e Romeri ci mettiamo a riposo mentre il Ros fa la guardia e Cesare, con Mafè, prepara il bollito per l’indomani. Lo stanzone è caldo; la pancia piena e la convinzione di essere ormai liberi, per non parlare della stanchezza, fanno sì che subito sprofondiamo nel più duro dei sonni. Non so dire quante ore siano passate quando Cesare mi sveglia con uno spintone; sento il tenente Slataper che grida: “Sveglia, ragazzi, allarme”. In risposta riceve un grugnito da parte degli alpini che cercano di riprendere il sonno. “Sveglia, ho detto, non sentite? Qui ci ammazzano tutti.” Di colpo ci troviamo completamente svegli; udiamo in vicinanza le esplosioni dei colpi di mortaio ed il gracchiare delle mitragliatrici e dei parabellum. In un lampo raccogliamo le nostre cose e ci troviamo radunati dietro la casa con il tenente Slataper che ci spiega come, oltre all’attacco dei russi contro il paese, su ad Arnautowo la 33a Batteria del Gruppo Bergamo già da mezzanotte è costretta a sparare a zero sul nemico che ormai è sotto. Bisogna andare là. Ci avviamo sotto un grandinare di colpi di mortaio, attraversiamo un ponticello ed iniziamo la salita lungo una pista tracciata in mezzo a un frutteto. Giunti in vicinanza delle prime slitte dell’artiglieria siamo presi d’infilata dagli anticarro russi. È un macello! Mi trovo a correre nella neve trascinato da Piero che mi tiene per mano; di Cesare e degli altri non so più niente. Avanziamo per gli ultimi metri, raggiungiamo le slitte che sono affiancate lungo la pista e ci appiattiamo dietro ad esse. Il combattimento è in pieno svolgimento; la potenza di fuoco del nemico è impressionante mentre da parte nostra c’è poco più della decisa volontà di passare. “Plotone collegamenti avanti con me.” È Slataper che, mitragliatore in spalla, chiama a raccolta i suoi alpini. Io e Piero, con le cassettine delle munizioni, seguiamo lui e Soncelli che, scavalcate le slitte, hanno cominciato ad avanzare. Strisciando sulla neve scendiamo giù nella balka sotto un grandinare di pallottole e rispondiamo al fuoco. Passiamo alternativamente i caricatori ai nostri tenenti; mi procuro un’altra cassetta e torno giù; passo il primo caricatore a Slataper e mi guardo attorno: non vedo più né Soncelli né Piero, ma non mi preoccupo molto convinto che siano lì vicino. Cerchiamo di avanzare; Slataper spara due o tre raffiche e poi, colpito, si accascia sulla neve; dopo un solo attimo, con feroce volontà, vedo che si rialza addirittura in piedi: “Viva l’Italia, viva il 5° Alpini” urla sparando l’intero caricatore. Una seconda raffica lo abbatte per sempre. Sono stordito, forse impaurito. Chiamo Piero, ma non ricevo risposta. Adesso, poco più in là di Slataper, vedo Soncelli anche lui immobile nella neve e vedo ancora decine e decine di alpini caduti. Con lo spirito di conservazione, più che col ragionamento, mi ritrovo su alle slitte e, mentre sto per scavalcarle, una mano mi afferra e mi costringe ad accucciarmi. È Cesare: “Sta giò che chilò i scherza miga. In dò el Piero?”. Passano i minuti; io e Cesare teniamo lo sguardo fisso sulla neve, oltre le slitte, con la speranza di vedere spuntare la grossa faccia di Piero. Non vogliamo credere, non riusciamo a credere, poi Cesare per primo si rende conto e mi abbraccia. Adesso anch’io capisco che Piero non tornerà più e piango. Cesare mi dice: “Ades, bociascia, an sta insema mi e ti”. Appiattiti dietro le slitte non sentiamo neppure i 40° sotto zero, mentre i nostri pensieri, sono rivolti ormai solo verso una fine che sia la meno dolorosa possibile. “Compagnia Comando qui con me.” È il tenente Alessandria che ci chiama. Andiamo verso di lui e ritroviamo gli amici Mafè e Ros. L’ufficiale ci spiega il suo piano: si tratta, nel tentativo di sbloccare la situazione, di prendere con noi una mitragliatrice, passare dietro le isbe dove si trovano gli artiglieri, scendere giù nella balka, raggiungere un canalone che sale dalla parte opposta e prendere i russi alle spalle. Siamo in pochi, ma il piano ci piace e lo approviamo. Si uniscono a noi i sergenti Dilani, Calcaterra, Pedana, un alpino gigantesco che porta la sua Breda in braccio come fosse un bambino, il caporale Salatenna ed alcuni altri di cui, a distanza di 30 anni, purtroppo non ricordo il nome. Passando dietro le isbe ci rendiamo conto dell’eroica resistenza degli artiglieri e di quanto sia stata cruenta la loro battaglia. Vediamo mucchi di cadaveri di uomini frammisti a carogne di muli dai bianchi denti sporgenti che li fanno assomigliare a fantasmi ghignanti. Il tutto ormai… surgelato. Siamo ormai in prossimità del canalone e avanziamo strisciando sotto le raffiche di mitraglia. Sono vicino a Cesare e lo sento mormorare: “Dio se i spara” mentre mi fa vedere la punta del suo scarpone che una pallottola ha tranciato di netto senza toccargli il piede. “Dai che an fa amò un salt. Pront? An và? “ Raduniamo le nostre forze e tentiamo lo scatto verso il canalone che ormai è a pochi metri. Sento una mazzata in testa e rimango stordito per alcuni minuti; quando mi riprendo non ho più l’elmetto e sento Cesare vicino a me che si lamenta. Mi chino su di lui che mi dice: “Adio Pierino, saluda la mia Anna, la mia Cecilia, l’pà e la mama” “Podes miga saludai ti?” gli rispondo. “No, Pierino, l’è finida: son ferì a na spala”. Con l’aiuto di Mafè trascino Cesare nel canalone e solo allora vedo il sangue che, scendendo lungo il braccio, cola sulla neve. Gli taglio la manica del cappotto: davanti, sulla spalla, c’è solo un piccolo foro, ma dietro la ferita è orribile, poiché la pallottola,uscendo, ha frantumato la scapola. Tamponiamo la ferita con tutti i pacchetti di medicazione che possiamo trovare per arrestare l’emorragia, ricopriamo il braccio alla meglio e appoggiamo Cesare ad una parete del canalone dicendogli di aspettare lì che, se riusciamo a passare, torneremo a prenderlo. Dopo un’ultima raccomandazione di non muoversi, raggiungo gli altri. Dalla cima del canalone vediamo i russi appostati dietro i pagliai che, con tutte le loro armi, bersagliano gli alpini sulla china di fronte. Pedrana piazza la Breda, arma il carrello e spara. I colpi non partono. L’arma si è inceppata. Il sergente dice che è per il freddo e che bisogna scaldarla. Cerchiamo di fare pipì sopra la canna, ma purtroppo, sarà il freddo, per la fatica, per la paura, di pipì ne abbiamo solo poche gocce ciascuno ed anche quelle più gelate dell’arma. Prendiamo due coperte e strofiniamo energicamente la Breda. Pedrana riarma il carrello; rimaniamo col fiato sospeso perché dal funzionamento della mitraglia dipende la nostra vita, ma il sergente, che conosce bene la sua arma, ci rassicura volgendosi verso di noi e sorridendoci tranquillo. Tira il grilletto e partono i primi colpi; Pedrana si apposta meglio, prende accuratamente la mira, ci dice di tenere ben saldo il treppiede ed inizia il fuoco rapido, una lastrina dopo l’altra. I russi, colti di sorpresa alle spalle e sotto il nostro fuoco micidiale, abbandonano le armi pesanti, si danno alla fuga infilandosi in una specie di pista incassata fra due alte muraglie di neve. La battaglia di Arnautowo è finita; il Tirano è stato magnifico: con pochi uomini stanchi per nove giorni di marcia durissima tra sofferenze inaudite, con l’appoggio di pochi mezzi pesanti, contro un nemico fresco, ben armato ed equipaggiato, col sacrificio supremo di tanti alpini e di quasi tutti gli ufficiali, ha saputo vincere la battaglia di Arnautowo dal cui esito dipendeva la salvezza dell’intero corpo alpino. Volgo lo sguardo intorno: la neve è grigioverde! Prendo dallo zaino i cinque pani di miglio, li divido coi compagni e ci abbracciamo. Ritorno al canalone per riprendere Cesare, ma la colonna, rotto l’accerchiamento, è ormai in marcia ed il mio amico è già stato medicato e caricato sopra una slitta. “Battaglion Tirano, avanti! Adami ci aspetta e Riverberi ha bisogno di noi!” sento gridare da un ufficiale. In un attimo siamo di nuovo in marcia più sicuri ora, più decisi e pronti. Siamo rimasti in pochi perché il Tirano ha riempito coi suoi alpini migliori la balka di Arnautowo. “Addio tenente Slataper, addio tenente Soncelli, addio Piero, addio compagni!” Un ultimo sguardo indietro e poi mi avvio anch’io verso Nikolajewka.

 

 

Alpino Guerino Giudici (46a Compagnia-Fronte Russo)

 

La sera del 24 gennaio 1943, dopo una estenuante marcia nella steppa in mezzo ad una gelida tormenta che aveva messo a dura prova uomini e muli, il mio reparto alloggiò per il pernottamento in un capannone. Stanco e senza cibo mi sdraiai sopra dello strame che ricopriva il pavimento ai bordi del capannone, e tra il vociare e l’imprecare dei primi contro i ritardatari in continuo afflusso mi addormentai. Faceva ancora buio ed ebbi una insolita sveglia, me l’aveva data un mulo legato fuori dal capannone il quale, spinto dalla fame, aveva divorato la paglia che ricopriva una finestra, che guarda il caso, sboccava all’interno proprio sulla mia testa. Dall’apertura fischiava un gelido vento, il quale mi costrinse ad alzarmi in compagnia ad altri alpini, e mi aveva indurito le scarpe che tenevo legate ai lati della testa (per sicurezza). Non riuscendo a calzarle uscii dal capannone, il quale era tanto stipato di gente rannicchiata e sdraiata per terra che per uscire fuori fui costretto a passare dal foro che il mulo aveva aperto, e mi avvicinai a un fuoco poco distante che avevo scorto già dall’interno del capannone. Con le scarpe in mano mi accostai il più possibile al fuoco, girandole e rigirandole finchè divennero morbide, per poi infilarle nei piedi tiepide come pantofole. Sedutomi, assaporavo il calore del fuoco, ed a tratti giravo lo sguardo scrutando le facce di quelle creature umane mute ed immobili accovacciate sulla neve, facendo corona al fuoco che non era altro che i resti di un’isba in fiamme, un focolare domestico distrutto che nella fase della sua estinzione col suo calore e il suo bagliore contribuiva a donare alle creature che l’attorniavano la sensazione di rivivere, ridonare la speranza di rivedere il loro focolare. Esse tenevano il tipico atteggiamento di coloro che sono forzatamente costretti a passare una notte all’addiaccio, traendo dal fuoco dei benefici fisico-umani che solo chi ha vissuto una di quelle notti in quelle tragiche circostanze può comprendere e giudicare. Fui distolto dal mio fantasticare da una domanda che mi fece l’alpino seduto al mio fianco, il quale mi chiese informazioni sul Battaglione Tirano, a lui risposi che anch’io facevo parte del Tirano, 46a Compagnia, la quale era accantonata nel vicino capannone. Quell’alpino ebbe un sussulto ed esclamò: “È la mia compagnia! Finalmente l’ ho ritrovata! Quanto ho tribolato per raggiungerla, l’avevo persa a Podgornoje”. Mi voltai e lo guardai, non lo conoscevo, ma in quello stato difficilmente lo avrei riconosciuto, fui colpito dall’espressione del suo sguardo, al bagliore del fuoco i suoi occhi emanavano qualcosa di un profondo umano impossibile e descrivere, direi che non fosse altro che la gioia nella sofferenza. Lo guardavo con attenzione, mi faceva pena, dimenticavo me stesso che condividevo le sue condizioni. Scarno, gli occhi affossati nelle occhiaie, la barba rada e irta gli copriva il mento e le guance in parte coperte da uno sdrucito passamontagna sopra il quale stava ben calcato il cappello alpino deformato; teneva il fucile a tracolla ed una bisaccia che penzolava sui fianchi, chissà quale miseria quella bisaccia racchiudeva in sé. Nel tempo il fuoco lentamente si estingueva, il freddo si faceva più pungente ed il gruppo che attorniava il fuoco non mollava, anzi continuava ad ingrossarsi; così venne l’alba. Una voce che gridava: “Adunata Tirano!” mi fece abbandonare il fuoco ormai semispento, ed intorpidito dal gelo e dalla posizione in cui mi ero soffermato per tanto tempo, barcollando mi infilai nella mia compagnia che stava adunandosi, seguito dall’alpino a me sconosciuto. Il 25 gennaio il cielo era azzurro, splendeva un sole che ci donava la speranza, facendo dimenticare il pericolo che incombeva su migliaia di giovani vite. Nel pomeriggio attraversammo Nikitowka distesa con le sue isbe ai fianchi della strada per alcuni chilometri, fortuna nostra perché in quelle isbe affondammo le nostre mani alla ricerca del cibo con risultati soddisfacenti. Indisturbati dal nemico, era buio quando ci accantonammo in una isba adibita a stalla. Tra il discutere di ognuno, alcuni alpini accesero il fuoco nel bel mezzo della stalla e diedero inizio a cuocere un capretto allo spiedo emanava un profumo di tale mole che nell’attesa di divorarlo faceva trangugiar saliva così di frequente da indolenzire nel ritmo dei colpi l’apparato digerente di quella gioventù affamata di cibo e di vita. Stavo gustando il pezzo di capretto da poco mangiato, allorché sentii alcuni spari isolati i quali mi tolsero la voglia di dormire. Mi appisolai più volte, ma nel dormiveglia sentivo l’intensificarsi dei colpi di armi automatiche sempre più vicini, i quali misero in allarme quanti stavano nell’isba. Non saprei dire l’ora esatta, ma alle quattro, le cinque del mattino vi fu l’allarme. Non ci sorprese, ed in poco tempo il Tirano fu pronto. La 46a Compagnia comandata dal capitano Grandi si mosse per prima, e al mio plotone fu dato il compito di avanzare in avanscoperta onde impedire eventuali attacchi a sorpresa. Si sentiva il tuono del cannone ed il crepitar delle mitraglie sempre più vicino, al bagliore dei combattimenti in corso faceva corona gli innumerevoli proiettili traccianti che solcavano luminosi nel buio seppur stellato cielo di quel mattino. Era ancora notte che avemmo contatto con gli artiglieri della 33a Batteria e del comando Gruppo Bergamo, i quali ci misero al corrente della precaria situazione in cui si trovavano, dicendomi che il nostro intervento li salvava da un sicuro annientamento; avevano subito gravi perdite per i combattimenti che si erano protratti tutta la notte, avevano in efficienza solo un cannone e due mitragliatrici. Ci fermammo dietro a un’isba; mentre si formavano i gruppi di fuoco, scaldai e controllai se era in efficienza il fucile mitragliatore, ed allo spuntare dell’alba del 26 gennaio prendemmo posizione qualche decina di metri fuori dell’abitato di Arnautowo, oltre l’ondulazione del terreno che lo proteggeva dal tiro delle mitragliatrici nemiche. Con sorpresa rividi l’alpino a me sconosciuto il quale faceva parte del mio gruppo di fuoco. Ci appostammo in una piega del terreno discretamente profonda, con noi vi era il comandante di compagnia, capitano Grandi. Ci accorgemmo che eravamo in una situazione molto critica, i russi ci dominavano con armi superiori alle nostre per potenza di fuoco, avvantaggiati da posizioni migliori predisposte da alcuni giorni. Indirizzai alcune raffiche su una posizione che sparava su noi con efficacia, vi furono i primi morti e feriti, ma ormai eravamo a tu per tu con i russi e dovevamo rispondergli con le dovute rime. Il fuoco delle mitragliatrici russe aumentava di intensità, era preciso, guai alzare la testa, chi osava era spacciato, e così le nostre perdite aumentavano. Questa era la situazione in cui ero venuto a trovarmi il mattino del 26 gennaio 1943, disteso sulla neve semiassiderato, con i componenti il mio gruppo di fuoco, comandato dal sergente maggiore Rinaldi. Il capitano Grandi dalla nostra postazione seguiva il combattimento, rischiava per individuare le postazioni russe che da breve distanza causavano gravi perdite alla sua compagnia. Il capitano, individuata un’arma che sparava sul nostro fianco e dei soldati russi in movimento per prenderci a tergo, di persona decise di segnalare ad una nostra postazione poco distante il pericolo di essere eliminata; dalla nostra postazione era impossibile esporsi a sparare sui russi in movimento, pena la pelle a chi osava. Il capitano Grandi con sprezzo del pericolo con un balzo tentò di raggiungere la postazione minacciata dai russi, per poi eliminare l’arma nemica e bloccare i russi in movimento. Ma la stessa arma che voleva eliminare lo colpì al ventre, e cadde tra le due postazioni. Vi fu in noi un attimo di disorientamento, poi senza riflettere con un balzo fui vicino al capitano ferito, fui subito raggiunto dal sergente Pasini il quale mi aiutò a caricare sulle spalle (stando a carponi) il capitano, e a carponi nella neve lo portai per un breve tratto per poi raggiungere un’isba distante alcune decine di metri. L’isba era stipata di feriti, perciò il capitano ferito fu disteso sopra una coperta dietro l’isba, lo prese in consegna il tenente Ravelli il quale con le lacrime agli occhi disse che nell’isba giaceva morente il tenente Perego. Le prime cure vennero prestate dall’infermiere di compagnia, caporale Todeschini, mentre il capitano imprecava contro i russi che gli avevano bucato le “budelline”. Non so quanto mi fermai sul posto, ma ho ben chiaro che l’artigliere Visinoni mio compaesano mi invitò a entrare nell’isba ove c’era un altro mio compaesano e amico, l’artigliere Balsuzzi, il quale giaceva gravemente ferito. Non entrai nell’isba, ma istintivamente raccolsi da una slitta carica di munizioni una cassetta spalleggiabile di caricatori da fucile mitragliatore, me la misi in spalla e con la mano ne afferrai un’altra trascinandola nella neve, e giù a salti verso la mia postazione. Trovai la postazione più arretrata, mi sdraiai e cominciai a passare le munizioni al caporale Danieli che sparava con il mitragliatore. (Vorrei segnalare alcuni nomi che ricordo di caduti che facevano parte del mio plotone: Troina, Tiraboschi, sergente Rebustelli, Brembilla; fu ferito Marchetti e di striscio il comandante di plotone, tenente De Minerbi.) Poco distante si sentiva il lamento di un ferito, il quale ripetutamente implorava un nome: “Margherita!”. Non si poteva rischiare per soccorrerlo, eravamo troppo bersagliati. Con sollievo finalmente sentimmo i colpi della nostra artiglieria che sparava a schrapnel sulle postazioni di fronte a noi colpendole con precisione; seguiva un nutrito lancio di bombe sparate da un mortaio 45 il cui mortaista dimostrava abilità centrando con precisione le postazioni russe. Sotto i nostri colpi e l’aumentata pressione degli alpini che non badavano alle perdite pur di aprire un varco, i russi cominciarono ad abbandonare le postazioni compreso le armi pesanti, sbandandosi, volgendo a noi le spalle. Per meglio colpirli mi alzai a sparare, in quell’attimo vidi l’alpino a me sconosciuto, che imbracciava ancora il fucile, con il suo deformato cappello alpino in testa, con la faccia ancor più scarna, la bocca ritratta dalla smorfia della morte che gli aveva mozzato il suo lamento mentre implorava la sua Margherita, la quale era di certo la sua vita. Era bastato quell’attimo: la morte di quell’alpino a me sconosciuto ha lasciato in me per tutta la vita l’immagine della sofferenza di coloro che in quelle tragiche circostanze donarono la vita per dovere di patria e per l’umana fratellanza. Infatti, mai come allora, nel vortice della guerra, pur nell’istintiva preservazione della vita, uno donava all’altro il suo essere perché qualcuno vivesse e ricordasse coloro che onorarono nel dovere la bandiera col sacrificio della propria vita. Sparavo inginocchiato nella neve, il tenente Da Re mi aveva ripetutamente tirato il pastrano perché non mi esponessi troppo sparando sui russi in fuga. Ci buttammo all’inseguimento con la neve fino alle ginocchia, nel primo tratto della balka il tenente sparava con il fucile mitragliatore appoggiato sulle mie spalle. Attraversammo la balka in lungo combattendo con accanimento, annientando ogni resistenza nemica, proseguendo fino sulla strada che costeggiava la balka. Sulla strada fummo raggiunti dal generale Riverberi con il suo seguito. Con il mio gruppo di fuoco composto dal sergente maggiore Rinaldi, dal caporale Danieli che imbracciava il fucile mitragliatore, dal caporale Avioli, dagli alpini Marchetti, Vanoni, Bongin, proseguimmo raggiungendo il costone di una grande balka, ai suoi piedi si adagiava un rosso abitato da cui proveniva l’eco dei combattimenti in corso; era iniziata la battaglia di Nikolajewka.

 

Alpino Cesarino Magatelli (46a Compagnia-Fronte Russo)

Nikolajewka 26 gennaio 1943; chi l’ ha vissuta è una data indimenticabile, che noi reduci di Bormio abbiamo sempre ricordato e commemorato a ricordo dei caduti. Questa terribile giornata che non so se basta chiamarla infernale, e solo chi c’era nel mezzo si chiede come abbiamo potuto salvarci in quel terribile uragano. Dall’alba al tramonto è stato un fuoco senza tregua da tutte le parti da terra e dal cielo, il freddo a 40 e più, la fame i pidocchi che ci tormentavano. Mi resterà sempre impresso le gesta del mio capitano povero Giuseppe Grandi, medaglia d’oro, che ferito mortalmente gridava ancora avanti con le bombe a mano. Si era diventati come tante belve, l’assalto a Nikolajewka l’abbiam fatto di corsa come tante belve infuriate, in mezzo a quell’inferno ben pochi siamo arrivati alla fine di quella terribile giornata. La vita non contava più pur di finire questo calvario. Senza il coraggio e l’unità degli alpini non sarebbe più tornato a casa nessuno.

 

Maresciallo Andrea Dante Bagiotti (Compagnia Comando-Fronte Russo)

Vorrei ricordare un episodio che col tempo forse sarà un particolare. Mi trovavo a Podgornoje verso la metà del gennaio 1943, tutto intorno c’era aria di tempesta e mentre aspettavo ordini sul da farsi vidi un crocchio di alpini che stavano parlando animatamente. Mi avvicinai più per curiosità che per interesse e riconobbi al centro Don Gnocchi, il cappellano della Tridentina, che stava parlando loro: “Ricordatevi che Dio è con gli alpini.” Dal crocchio si potè udire in coro: “Gli alpini sono degni di Dio”. Nikitowka un villaggio di molte isbe, il 25 gennaio, 30 anni or sono. Nei nove giorni di dura marcia sul ghiaccio a 40° sotto zero, il 5° è uno dei reparti che hanno saputo conservare maggiormente la loro compattezza, malgrado la serie dei combattimenti malgrado le armi siano in gran parte inefficienti, malgrado lo sfinimento degli uomini. Le poche slitte servono per i feriti, sulla prima c’è la bandiera che il colonnello Adami ha giurato di riportare in Italia. Ora da Nikitowka, dove il 5° ha trovato precario riparo per la notte, la strada verso ovest è sbarrata da un forte reparto russo, che con molte armi automatiche, lanciarazzi e mortai occupa la selletta di Arnautowo. È l’ora del Tirano: “ Tirano avanti!” è il grido passato di bocca in bocca, le nappine rosse del battaglione vanno all’ attacco sotto una tempesta di colpi. La 46a al centro, la 49a a destra, la Compagnia Comando a sinistra. È una lotta selvaggia. Per tre volte il Tirano si butta avanti, e giunge alle postazioni russe: gli uomini si battono in un corpo a corpo crudele e sanguinoso. L’intervento della 48a Compagnia pure del Tirano decide la sorte della situazione: il nemico, che ha attaccato anche di fianco, si ritira. Il Tirano è riuscito a passare, ma in mezza mattinata sono caduti undici dei suoi ufficiali e oltre metà dei suoi uomini. Con il sacrificio del Tirano la colonna può riprendere la marcia verso Nikolajewka, l’ultimo ostacolo, il più duro…

 

Alpino Mario Galluzzi (48a Compagnia-Fronte Russo)

Era ancora buio, la mattina del 22 gennaio 1943. Arrivò un ordine: “Si abbandonino le autocarrette”. A malincuore dovetti lasciare quel mezzo, ormai si era agli sgoccioli con la benzina. In compagnia del mio paesano Luigi Accerboni della Reggimentale del 5°, mi avviai come tutti gli altri, nell’intento di raggiungere ciascuno il proprio reparto, che era poco avanti. Verso le 10 stavamo per attraversare un bosco e solo dopo un po’ compresi quello che stava succedendo: tutti gli sbandati e i disarmati venivano fermati e trattenuti, per lasciare passare oltre i reparti organici della Tridentina. Io e tanti altri si passò, preoccupati di raggiungere al più presto la propria compagnia. Verso sera l’Accerboni riuscì a prendere contatto con il suo reparto collegamenti, comandato dal sottotenente Gariboldi. Io rintracciai i paesani sergente Carlo Calcagni e l’amico Lodovico Ambrosiani, entrambi della nostra 48a Compagnia. Verso sera davanti a noi si sentivano degli spari; si capì solo quando era già notte cosa stesse succedendo. All’improvviso, come se fossero usciti dall’inferno, si pararono davanti a noi due enormi carri armati russi, che ci fecero retrocedere fino ad un paese, di cui non ricordo in nome. Mentre questi due ordigni di morte sparavano e le pallottole traccianti delle mitragliatrici passavano sopra le nostre teste, un cappellano recitava il santo rosario e noi alpini rispondevamo in coro, mentre ognuno, nell’intimo, pensava ai propri cari lontani e malediva quella sporca guerra. Raggiungemmo le isbe di quel villaggio, erano ormai già tutte piene zeppe di alpini, tanto che non ci si stava neppure in piedi. Verso le 21 incominciò l’inferno, i carri armati russi scorrazzavano avanti e indietro in mezzo ad alpini, muli, slitte con feriti e congelati; fu un vero massacro. Con bombe a mano si tentava di fermare quei mostri, ma non si faceva loro che solletico. Con il Calcagni e l’Ambrosioni mi imbattei nell’altro paesano Spirito Codega, appartenente alla 107a Compagnia Cannoni del Morbegno. Si appartò con noi per circa dieci minuti; e ad un tratto un proiettile sparato da un carro russo colpì in pieno il pezzo a cui il Codega era addetto, ferendo mortalmente quanti stavano attorno. Fu una carneficina. Durante tutta la notte, inoltre, si sentivano ovunque gemiti e lamenti di feriti che invocavano la mamma lontana, che non avrebbero forse più rivisto; altri inveivano contro la guerra, altri ancora chiedevano informazioni del proprio reparto. Dopo la notte passata all’aperto, verso l’alba ci imbattemmo in una slitta abbandonata, con un mulo a terra, morto; era la slitta del plotone mitraglieri della 48a del Tirano, con due mitragliatrici pesanti e con cassette di munizioni, il tutto intatto e funzionante. Recuperammo un mulo, la slitta con il suo carico e ci accingemmo a raggiungere il battaglione. Purtroppo, quando si fece chiaro ci rendemmo conto che eravamo circondati. I carri russi si erano portati sulle balke a circa 100 metri l’uno dall’altro: quindi non era tanto facile uscire di lì. Mentre si stava osservando e studiando la situazione, arrivò un maggiore degli alpini, che disse: “Se vogliamo uscire vivi di qui e raggiungere il reggimento dobbiamo tentare da quella parte e farlo subito, forse i russi stanno dormendo; altrimenti saremo fatti prigionieri e… addio Italia!” Ci mettemmo in marcia, ci volle circa un’ora e passammo a non più di dieci metri dal carro russo. Passammo in pochi però, perché ad un tratto il carro cominciò a muoversi e a sputare fuoco. Rimanemmo circa una cinquantina; alcuni furono costretti a retrocedere al paese, molti rimasero sul campo. Il giorno dopo era il 23 gennaio, nevicò: buon per noi altrimenti i carri russi, che ci superavano
ai lati, ci avrebbero visti. Alla sera, stanchi e affamati, arrivammo in un villaggio e lì trovai il sergente Pedana di Bormio, anche lui della 48a. Pernottammo in un’isba al caldo, ma al mattino presto arrivò una masnada di tedeschi che cominciarono a piantar grana per avere loro il posto e… ci toccò sloggiare. Ci mettemmo di nuovo in cammino, faceva appena l’alba. In lontananza si vedeva una colonna che veniva verso di noi, era la Tridentina con i suoi battaglioni, con il generale Riverberi in testa. Fu la nostra speranza e la nostra salvezza, nonostante le molte altre peripezie, prima e dopo Nikolajewka.

 

P. Narciso Crosara (Cappellano del Battaglione Tirano-Fronte Russo)

A Scororib passai la notte tra i feriti. Al mattino, prima di riprendere la marcia versi ovest (porta misteriosa della salvezza) mi venne a cercare il fedele attendente David. L’unica cosa che mi era rimasta era uno zainetto, caricato sulla slitta del comando, che conteneva i documenti più importanti e alcuni preziosi rotoli di fotografie scattate sulle rive del Don. Bisognava liberare la slitta per caricarvi i feriti ed i pochi viveri rimasti. Vidi le mie cose sparse qua e là sulla neve. Raccolsi i ritoli fotografici e alcune carte. E il cappello? Ero partito dalle rive del Don con il passamontagna in testa e con la tuta mimetica da sciatore. Il freddo, a 40° sotto zero, passava attraverso le maglie di lana e arrivava alle tempie pungente come aghi. Il mio cappello lo scorsi in testa ad un alpino. Egli capì che avrebbe dovuto restituirlo al suo cappellano. “Va là…” gli dissi. “Hai freddo quanto ne ho io; tienilo pure ma toglici i segni di cappellano e poi, se vuoi, mettici i gradi da generale.” Così il cappello se ne andò. Spero che gli abbia portato fortuna. A me sì. Averlo sacrificato fu la mia salvezza. La sera del 25 gennaio raggiungemmo Arnautowo. Le file si erano assottigliate. I superstiti camminavano a stento, brancolanti, spossati dalle marce forzate, dal sonno, con le carni doloranti per le ferite, mutilate dai congelamenti, affamati e laceri. Le scarpe indurite dal gelo stringevano i piedi tanto da farli sanguinare. Cammina, cammina, di giorno e di notte sulla neve che pareva sabbia mobile. Varcai il ponticello gettato sul fiumiciattolo della palude, mi riparai nella prima isba che incontrai, lasciando il villaggio alle spalle. Passai la notte, la prima in verità che mi offrì una sponda di letto, condiviso con il maggiore Zaccardo ed alcuni ufficiali. C’erano nell’isba dei bambini, un vecchio e delle donne, raggomitolate a dosso del forno. Dormire? Un ufficiale rannicchiato in un angolo del letto bruciava dalla febbre. Ogni tanto mi scuoteva. “E allora, cappellano, ce la faremo?” “Sì. Vedrai che ce la faremo ad uscire da questo inferno.” Avevo questa speranza; la sentivo profondamente nel cuore. Nella tarda sera e per tutta la notte si ripeterono insistenti gli attacchi dei russi contro il Valchiese e la 33a Batteria del Bergamo, che con noi avevano trovato rifugio in quelle isbe, tagliate fuori dal paese. Ne seguì una lotta violenta a corpo a corpo. La battaglia si estese, arrivò il mio battaglione. Tirai un profondo respiro di sollievo. Avevamo appena incominciato a risalire la selletta che incominciarono a piovere colpi di mortaio. Vidi la slitta di Viale colpita e l’ufficiale fuggire e scomparire verso la palude tenendosi la testa tra le mani. Fu un momento di incertezza e sbandamento. Lungo tutto il ridosso si sentiva chiamare: Tirano!, per farci coraggio e tenerci vicini. Giunti al colmo della sella il Tirano fu investito da forti formazioni russe. Avanzavano baldanzose, cantando, protette da mortai; attaccando con parabellum, mitraglie e fuciloni anticarro. Il nemico tentava di spezzare in due la colonna e rompere la compagine del reggimento. Se ci fossero riusciti, le sorti degli alpini sarebbero state segnate fin dal mattino con l’annientamento e la nostra fine. Mi trovavo in testa con la 49a Compagnia, comandata dal capitano Briolini. Mi avventurai con loro all’attacco. Caddero molti alpini con in testa i loro ufficiali. Mi meravigliavo di non essere travolto con loro. Mi passò vicino, di corsa, il sottotenente Slataper gridando: “Viva il 5°!”. Lo vidi stramazzare al suolo. Chi avanzava era falciato via. Fui preso da una terribile ribellione contro quella carneficina. So di avere urlato, imprecato contro i nemici, finchè le loro armi finalmente tacquero, sopraffatti, travolti dall’impeto disperato del Tirano. Cercai di smistare a valle i feriti. L’isba convertita in ospedale rigurgitava di gente che si lagnava, che soffriva: ma i più erano là sulla bianca distesa, senza vita. Consegnai i feriti a padre Tonidandel arrivato in Russia con i complementi. Moltiplicava le sue energie per fare l’impossibile. Sapevo che essi erano in buone mani; cercai di raggiungere il resto del battaglione, ridotto ormai a duecento uomini. La massa degli sbandati si muoveva lentamente sul dosso della collina verso Nikolajewka. Per vasto spazio il terreno digradava verso il villaggio in una piana a forma di anfiteatro. Nella valle si era fatto silenzio, che soffocava il cuore nell’attesa. Avevo impegnato parecchio tempo per i feriti e per i morti. Ora camminando ora correndo lungo il lato della colonna stavo per raggiungere i resti del mio battaglione che avanzava all’attacco. Comparvero alcuni apparecchi russi che bombardavano e mitragliavano a bassa quota. D’improvviso si scatenò l’inferno, rabbiosamente. La neve appariva chiazzata di nero e di sangue sotto le raffiche delle mitraglie, le sventagliate dei parabellum, l’esplodere dei proiettili di mortai e di anticarro. Vidi la massa ondeggiare, arrestarsi. Un apparecchio dopo aver sganciato alcune bombe, puntò con brusca virata verso di me, tanto basso da poter scorgere il pilota che arrivava mitragliando. Mi son visto perduto. Mi inginocchiai sulla neve. Promisi qualcosa al Signore. La neve si sollevò intorno a me ma non fui colpito. Deo gratias! Il generale Martinat a pochi passi da me gridava agli alpini di avanzare e cadeva colpito in testa alla Compagnia Comando del 5°. Il generale Riverberi sopra un’autoblindo affronta il sottopassaggio; va all’assalto incitando i superstiti a seguirlo al grido: “Alpini avanti! Tridentina avanti!” Gridavo anch’io a quanti portavano la penna nera o imbracciavano un’arma, di venire avanti… Ci voleva coraggio e bisognava farcelo a vicenda. In quel mentre ho sentito uno schianto vicino e mi sono sentito risucchiare come da una raffica di vento. Ebbi il tempo di pensare: cosa ci mettono i russi nelle granate? Nessuna ferita, neppure una scalfittura eccetto quel terribile ruzzolone. Mentre stavo per risollevarmi afferrai istintivamente, quasi senza rendermene conto, un elmetto che era lì sulla neve e me lo ficcai in testa sopra il cappuccio. In quel mentre mi investì un sinistro bagliore e fui travolto dallo scoppio di una granata. Non ricordo più nulla. Ho sentito una botta, potente all’elmetto. Con gli occhi sbarrati non ci vedevo, e sulle carni sentii un calore intenso. Mi parve di essere fuori dal tempo. Quando mi riscossi mi trovai immerso in una bolgia spaventosa. Mi ricordai del mio cappello al quale avevo rinunciato, perché un alpino non si sentisse stringere le tempie dal gelo. Un gesto che valse per me la salvezza. Con un cappello alpino in testa, un elmetto non ci sarebbe stato. Mi guardai attorno. A pochi passi da noi padre Pedrini del Vestone cadeva ferito a morte. Alcuni ufficiali fecero per rialzarlo. “No” disse con voce stanca “non perdete tempo. Andate avanti. Dite a mia madre che io muoio da cappellano e da soldato”. Quando tentai di riprendere a camminare per raggiungere i miei alpini sotto lo spalto della ferrovia, mi imbattei in un giovane russo, buttato sulla neve. Stringeva in mano un pugnale cercando con l’altra di strapparsi il bavero che gli stringeva il collo, per tagliarsi la gola. Siamo in combattimento sì… ma vedere quel giovane che voleva togliersi la vita, mi parve una cosa orribile! Gli presi il braccio gridando: “Vigliacco, perché ti ammazzi? Cosa ti facciamo ora di male?”. Mi fissò con occhi che mi parvero di fuoco e sangue. C’era in quello sguardo tanto odio e disperazione. Umanamente non potevo fargli nulla. Gli misi davanti agli occhi il crocifisso che lo potesse vedere… Egli capì che mi faceva tanta compassione e gli volevo bene, Prese con mano tremante il pugno che stringeva il crocifisso e lo baciò ripetutamente. Mi guardò. I suoi occhi erano divenuti buoni. Mi consegnò il pugnale. Lo buttai più che potei lontano, perché non ripetesse più quel gesto. Mi chinai su di lui e, come meglio mi riuscì ad esprimermi, gli dissi, anche per me: “La Madre di Dio ti vuole bene. Abbi fiducia. Nessuno ti farà del male”. Mi guardai d’attorno. La vasta piana era punteggiata di morti.

 

Tenente Tonino Lupi (49^ Compagnia - Fronte Occidentale)

Il vento della Val d’Aosta soffiava impetuoso quel giorno investendo con le sue raffiche gli alberi, scotendone i rami, turbinando tra le foglie, disperdendosi sull’alta erba ondeggiante dei prati. Curvo sul manubrio, pedalavo tenacemente, cercando di vincere la resistenza di quelle ventate: sull’asfalto la mia ombra appariva con disegni strani e , di quando in quando, l’osservavo, quasi avessi potuto trovare un punto di riferimento al mio sforzo sempre più teso. Vedevo, nell’ombra, la penna del cappello piegarsi quando le raffiche si susseguivano con maggior violenza e ne udivo il ronzio, simile a quello di un petulante calabrone. Ero abituato a quel vento, e, mentre lentamente mi avvicinavo all’abitato di Borgofranco, guardavo con invidia coloro che, in bicicletta, mi incrociavano sfreccianti, sospinti da esso verso Ivrea; altre volte, con Ossicino e De Nardo, ci eravamo divertiti a scendere in città facendo vela con l’ampia mantella e ponendo a gara a chi pedalava meno; al ritorno poi, da vecchi furbi; si caricavano le biciclette in bagagliaio e col “ciuf-ciuf” della Val d’Aosta si rientrava a Settimo, dove il battaglione era accantonato. Ero aspirante allora e da Merano mi avevano assegnato al Btg. Tirano, trasferito in Piemonte in fretta e furia per via della tensione dei rapporti tra le “fratellanze” e le “cuginanze”. Ricordo il mio arrivo al battaglione!! Il primo ufficiale che incontrai fu Gromme che mi fece naturalmente pagare da bere e subito, mentre ancora avevo le valige tra le mani! Poi fu la volta di Vita, il bell’Arturo!, ed anche alla sua anzianità dovetti immolare il portafogli, e giù “Vov” come se nevicasse! E ancora mi presentai a Valcanover, al capitano Tessitore, al tenente Brenna, a Molteni e tutti trincavano alla mia salute che era una bellezza ed io continuavo a pagare che era uno schifo a vedersi! E con me gli altri allievi, Silvestri, De Nardo, Marzotto, Cecchi; Bensuglio e tutti eravamo quasi goffi nelle nostre divise tirate a lucido, con gli stivaloni scricchiolanti ed il cappello senza pacche! Poi il maggiore Loffredo ci assegnò alle Compagnie ed io andai in forza alla 49,comandata interinalmente da Ossicino, al secolo Eugenio Montrasio, e lì imparai subito a scattare come una molla! Ossicino, magro come un chiodo e tutto nervi, era un ottimo amico, ma in servizio non ammetteva repliche e tirava certe pedate che alzavano una spanna da terra! Se lo ricorda l’alpino Leidi colpevole di una tremenda vaccata che se ne prese una che gli fece provare l’ebbrezza del volo e dovette in seguito dormire bocconi per una settimana; lo stivale di Ossicino invece fu affidato alle cure del calzolaio e, da rigido, divenne floscio! A Settimo si stava bene! Gli alpini erano accantonati a Montestrutto, gli ufficiali all’albergo dell’Angelo dove c’era anche la mensa; allo scadere del primo mese lo stipendio mi era rimasto nelle tasche il solo tempo di portarlo dall’Ufficio Maggiorità alle mani della signora Maria, padrona dell’albergo, per merito di quelle imponenti libagioni effettuate alla salute dei miei gradi “a lutto”; poi le cose si erano andate normalizzando ed a poco a poco mi ero fatto dritto e, dopo dieci settimane di naja, riuscivo anche a telare alla volta di Ivrea città tentacolare. Quel giorno, ricordo, ero reduce da una di quelle puntate; avevo perduto il treno e mi ero rassegnato a fare i conti con quel maledetto ventaccio. Ballonzolando sull’acciottolato di Borgofranco, tenevo bene aperti gli occhi per il pericolo di incontrare “Penne Bianche”; ero, come dissi, piuttosto giovane di naja, allora, ma già da tempo avevo fatto tesoro del vecchio adagio: “Davanti ai muli, dietro ai cannoni, lontano dai superiori” e lo applicavo con scrupolo veramente lodevole, godendone ampiamente i benefici effetti. A Borgofranco c’era il Comando di Reggimento ed il colonnello Frassi sapeva piantarle le grane, lui, quando ci si metteva! Pedalavo, insomma, ad occhi aperti, pronto ad esibire quel minimo di “faccia di tolla” necessario per farmi credere in giro per servizio. Davanti alla palazzina del Comando Reggimento vidi un gruppo di ufficiali: tutti subalterni: Meno male! Ma c’era tra loro una insolita, strana animazione! Sotto la naja si diventa un po’ pettegoli, nel senso che si va sempre in cerca della notizia che possa interessare; l’interesse, d’altra parte, è estremamente diretto ed ognuno in fondo, ha ben diritto di sapere quello che di lui s’intende fare! Naturalmente poi si accetta tutto ciò che capita: si parte, si arriva, si smonta, si sale, si scende, si marcia, ci si ferma, si serra sotto o si va distanziati, ci si muove carichi oppure”scossi”: in altre parole si ubbidisce per via di quelle stellette che son disciplina di noi soldà. Però la curiosità di sapere è uno scoglio che ben difficilmente si riesce a sormontare. A meno che non si abbia fatto Modena o si sia arrivati nei primi dieci a Bassano del Grappa! Fu appunto questa curiosità (io a Bassano, a fine corso, per trovare il mio nome tra gli ammessi feci più presto a cominciare dal fondo!) che mi fece avvicinare a quella gente e a Migliavacca chiesi il motivo di quella animazione. “Sfido io! Si parte! La va a pochi!”. “Ci siamo” dissi tra me, e mille pensieri mi turbinavano dentro il testone e subito svanivano: uno solo rimaneva inchiodato: pensiero che mi entusiasmava e mi atterriva nel medesimo tempo, che mi rallegrava e mi intristiva. “Stavolta ci siamo!”, ripetei, e quasi a conferma di quanto andavo rimuginando, dall’aperta finestra del primo piano mi giunse agli orecchi la voce del maggiore Chiaradia che andava urlando concitati ordini al telefono con quel suo spiaccicato accento veneto così insolito tra gli alpini del Quinto usi alla pacata cadenza valtellinese o alla stretta parlata bergamasca. Ripresi il mio faticoso pedalare verso Settimo: il vento era scemato e potevo accelerare la corsa; avevo fretta di rientrare, di recare la notizia, ma giunto a Montestrutto mi accorsi che Radio-Scarpa mi aveva preceduto. La vecchia Radio-Scarpa, quando ci si mette, dà dei punti a Marconi! Gli alpini uscivano in libera uscita, sciamando per il paese e, più ancora, per la campagna; avevano capito che quella era una partenza diversa dalle altre, eppure erano tranquilli. Quella sera alla mensa ufficiali, si parlò a lungo della guerra che stava per scoppiare; poi Ossicino intonò “Corda Manilla” e la signora Maria offrì da bere per tutti. La stazioncina di Settimo rigurgitava di uomini e di muli, di armi e di materiali, in un andirivieni di carrette cariche “a tappo” tra scalciare di muli, in un frastuono di urla, di bestemmie dei soliti conducenti, di fischi di locomotive. Quando vi giunsi, ve n’era una manovrata da Sparafucile che si muoveva lentamente, sbuffando, inseguita dal macchinista preoccupatissimo: Sparafucile se ne stava imperturbabile alla guida: “Solo il tratto necessario a spostarla dal binario per farlo attraversare dai miei muli”, diceva! Calava la sera, mentre le prime stelle si accendevano in cielo; la tradotta si mosse lentamente; dal finestrino salutai con uno sguardo il castello di Montestrutto, i verdi prati di Quassolo, i boschi di Trovinasse, mentre, all’improvviso, il cuore mi si riempiva di malinconia. St. Vincent, Châtillon, Aosta: il treno ansimò nella notte, rallentò, riprese la corsa. Sparafucile canticchiava Shangai-Lil agghiacciandomi con spaventose stonature, il capitano Marchi, Zanchi e De Nardo dormivano già da un bel pezzo; nei carri bestiame gli alpini erano quieti; la Dora ci fiancheggiava spumeggiando. Mi appisolai, cullato dal ritmo monotono del treno. “Sveglia!”. La voce del Capitano mi fece sussultare. “Si scende! E Valdigna! Siamo arrivati!”. I muli, felici di sentire la fresca terra sotto gli zoccoli, sgroppavano; i conducenti, naturalmente, bestemmiavano. Prendemmo subito la montagna, salendo lenti, in fila indiana, a plotoni intervallati. Incominciai ad udire un rumore per me nuovo: tac, tac, l’elmetto, fissato allo zaino, batteva aritmicamente sulla canna del fucile, tac, tac! Chiesi all’attendente il mio, lo volli provare: mi sembrava di aver la zucca dentro una capanna. “L’è brütt, sicur tenent!”. Restituii a Caratti il „cappello di ferro“ e già mi parve di aver fatto un torto a quello con la penna che mi schiacciai in testa con una manata affettuosa. A Moliè ci accampammo nel bosco, sopra le poche e povere case; fu lì che ci arrivò la notizia della dichiarazione di guerra. Tutti ormai ce l’aspettavamo, eppure a tutti fece impressione; il giorno dopo pioveva e faceva freddo: già si sentiva in lontananza il brontolio del cannone, riecheggiante cupo nella vallata. Ma la linea era ancora distante, eravamo soltanto di copertura in attesa di muoverci da un momento all’altro. Scrissi la prima lettera a mia madre; vergavo quelle righe sotto la tenda gocciolante pioggia e tristezza: pensavo che era proprio vero che mi ero venduto la vacca per andare negli alpini e fu questo pensiero che mi fece sorridere. Chiamai Caratti e con le armonichette attaccammo “Piemontesina”. E tutto passò! Richiami echeggiarono nella notte: era l’ordine di levar le tende. Ridiscendemmo a Valdigna e il Btg. Tirano, incolonnato, si avviò lungo la strada maestra, verso Courmayeur. Marciavo al fianco di Toni Zurla, giunto fresco fresco da Glorenza. Aveva un paio di baffi biondi e aguzzi, il Toni, e mi chiamava “Piccolo fiore”; ogni tanto Sparafucile ci raggiungeva e allora l’argomento del discorso erano le allegre serate trascorse al Pappagallo di Merano con le bionde frauen di Innsbruck e di Salisburgo, le grandi manovre, come le chiamavamo. Lasciammo Courmayeur e ci infilammo nella Val Venì; alla cantina di La Visaille il profumo del bosco era inebriante. La colonna saliva lentamente, snodandosi lungo l’Alée Blanche, specchiandosi nel lago di Combal nelle cui acque si vedevano correr nuvole. Sordi boati rompevano di quando in quando la silenziosa maestà della natura: la montagna lanciava scariche di sassi; più in alto, sul Monte Bianco, tuonavano le valanghe. Altissimo nel cielo, un aereo appariva e scompariva alle nostre viste. Marciavamo lentamente: gli alpini carichi come muli, i muli carichi come gli alpini! Poi l’erta si fece più dura e su di un ripido nevaio ci giunse il rombo delle prime cannonate; finalmente, vicinissimo, con le prime ombre della sera, ecco Col de La Seigne! Il gruppo Bergamo, che ci aveva preceduto, stava scaricando i piccoli 75/13 da montagna; stavamo oltrepassando la postazione di un pezzo, quando, improvvisa, un enorme fruscio; tutti ci gettammo nella neve, un attimo ancora poi un fragorosissimo scoppio e mi trovai, imbrattato di fango, con le orecchie che mi rintronavano, a pochi metri da una rispettabile buca scavata dal proiettile appena esploso. “La si è girata!” pensai e mi sentivo venir l’acqua ai denti. Gli alpini mi guardavano spauriti, poi una voce: ”Marca giò che l’è la prima”. Quella frase pronunciata con un umorismo inconsapevole mi rincuorò, mi donò quasi l’allegria; istintivamente trassi di tasca la armonichetta e mi misi a suonare. Pasini disse: ”L’è matt, il tenent” ed io avrei voluto dirgli che non ero matto, che suonavo per farmi coraggio, perché ”stringevo” anch’io, come lui, forse più di lui! Il battaglione era ora tutto ammassato al colle; a brevi intervalli giungevano salve di artiglieria che sconvolgevano il nevaio. La nostra artiglieria alpina rispondeva con i suoi cacciafuoco; io ero acquattato sotto uno spuntone di roccia e guardavo l’Eolo che, scavalcando il colle, sfilava lentamente sul nevaio dell’Auguille des Glaciers; la notte era ormai calata ed un freddo pungente mi intirizziva, mi avvolsi nella mantellina e dormicchiai, battendo i denti, tra Ossicino e Degano. L’alba sorse gelida e con essa il tambureggiare dell’artiglieria francese; i colpi scrostavano appena e terminavano la loro parabola nella conca nevosa, a poche decine di metri da noi; quel tratto, naturalmente, era diventato tabù. Poi toccò a noi! Vidi il ten. Brenna, alla testa della 46, avanzare allo scoperto, poi fu la volta della mia compagnia; procedemmo su di un terreno roccioso, in mezzo ad una fitta nebbia; una ventata di pallottole sibilò sulle nostre teste, un nevaio ripidissimo si aperse davanti a noi; fu necessario srotolare le corde assicurandole alle piccozze piantate nella neve per preparare una mancorrente. Mentre eravamo intenti all’operazione, un colpo di grosso calibro arrivò in mezzo a noi. Parecchi alpini, che già avevano iniziato la discesa, si staccarono e rotolarono lungo il nevaio: fu una discesa vertiginosa che per fortuna si arrestò proprio sul limitare di una larga screpacciata. Zurla dominava il disordine creatosi con metodi assai persuasivi e mi esortava ad imitarlo; feci de mio meglio e nella foga non mi accorsi nemmeno di aver appioppato un calcio nel sedere ad un ufficiale, ma costui non protestò! C’era un tratto di roccia da attraversare, sotto il nevaio; bisognava stare all’occhio, afferrarsi bene agli appigli: lo zaino, il fucile, le armi sbilanciavano maledettamente, eppure bisognava passare a gruppi… alla svelta, perché il posto era bersaglio continuo dell’artiglieria e la roccia volava nell’aria in mille frantumi, con sibili acutissimi. Passai, seguito da Degano e Cola, poi il plotone; respirammo di sollievo. Avanzando, incontrammo alcuni feriti della Scuola di Alpinismo; mi avvicinai e ad uno di essi rivolsi qualche domanda; mi rispose volgendomi le spalle; gli dissi di girarsi e vidi che brancolava inciampando: era ferito agli occhi ed era cieco; lo rincuorai e gli regalai qualche sigaretta e dello zucchero, mi ringraziò augurandomi buona fortuna, povero ragazzo! Appresi che la sua compagnia era stata in parte travolta da una valanga staccatasi sotto l’Aiguille di Trelatete. Proseguimmo lentamente. Gli uomini mi seguivano faticando sotto il peso degli zaini e delle armi; incominciò a nevischiare mentre la nebbia continuava ad abbassarsi. Tutt’intorno era un susseguirsi incessante di cannonate che scoppiavano nella neve sollevando zampilli di fango; sulle nostre teste, ogni quando, raffiche di mitraglia: gli Chasseurs des Alpes, annidati chissà dove, cercavano di colpirci, ma erano deboli tentativi di disturbo che non avevano effetto. Non facemmo nemmeno più caso anche perché il bombardamento dei forti, in certi momenti, era talmente assordante che copriva ogni altro rumore: proprio il caso di dire: “ Orecchio non ode, cuore non duole!”. Finalmente mi ricollegai col capitano Marchi; con lui c’erano Zurla, De Nardo, Zanchi, d il dottore; facemmo un controllo: nessun mancante, nessun ferito: aveva quasi del miracoloso! Il capitano radunò la compagnia sotto un costone, poi mandò una staffetta al Comando di Battaglione; l’alpino partì veloce, sicuro, camminando curvo, il fango delle esplosioni lo annaffiò una, due, tre volte; continuò imperterrito, scomparve: “È in gamba Martinelli”, pensai “Signore Iddio, proteggilo!”. Sopra al costone, a qualche centinaio di metri, la 46 e la 48 mossero all’attacco: un rosario interminabile di mitragliatrici che crepitavano furiosamente; poco dopo uscimmo anche noi; il plotone per plotone percorremmo di corsa il tratto allo scoperto; forse i francesi avevano già abbandonato la posizione perché non spararono più. L’artiglieria e i mortai invece sempre la solita solfa! Sulla nuova posizione incontrai Gianni Fischetti col suo plotone della 50 dell’Edolo, mi parlò di aver fatto “naja spessa” e mi offerse delle Caporal, preda bellica. Zipper mi mostrò il calcio della pistola ammaccato da una pallottola ed il suo cinturone pieno di graffiature. Meccanicamente feci il primo torto al cappello alpino e lo coprii con l’elmetto! Pioveva ed annottava; tirammo i teli e ci ficcammo al relativo riparo; Zurla mi ricordò di non aver mangiato da 24 ore; credevo di aver delle zollette di zucchero ma nelle tasche non trovai altro che poltiglia appiccicosa mista a polvere ed a tabacco! Una notte nerissima! Non si vedeva ad un centimetro di distanza; la pioggia batteva sul telo, sotto la schiena l’acqua filtrava scorrendo con rumore monotono, qualche colpo di mortaio rintronò cupo nella valle des Glaciers. Mi svegliai intorpidito, battendo i denti per il freddo; i ragazzi ficcarono la testa nell’apertura a finestrella del telo: così ingualdrappati riuscivano a ripararsi notevolmente dalla pioggia. Riprendemmo ad avanzare a mezza costa per aggirare i fortini di Valle des Glaciers. I francesi ci perseguitavano col fuoco di sbarramento delle loro artiglierie; tutto intorno era un susseguirsi ininterrotto di esplosioni, la terra tremava, l’aria era solcata da sibili acuti ed incessanti. Il capitano ordinò di tener pronte le mitragliatrici, eravamo a breve distanza dalla prima cinta di fortini; più a valle, l’Eolo, attaccava rabbiosamente: vedemmo dei puntini neri che attraversavano correndo un ponticello; uno di essi stramazzò proprio al centro, dal fortino uscirono pochi francesi con le mani alzate. Poi la nebbia infittì e non vedemmo più nulla. Arrivò una staffetta del Comando di Battaglione per chiamare Marchi a rapporto; addossati sotto uno sperone roccioso lo vedemmo scomparire nella nebbia seguito dagli esploratori che saltabeccavano come camosci. Nell’ attesa divisi col mio plotone le ultimi sigarette; fumavamo appoggiati alla roccia, la pioggia batteva tintinnando sugli elmetti, una goccia cadde sulla mia sigaretta, si allargò sulla carta, facendo crepitare la brace; Gotti mi chiese se saremmo andati all’attacco: “Credo di si” risposi “ sta in gamba!”. Incominciò a nevicare: una neve bagnata e pesante, che infradiciava, larghi fiocchi sfarfallati quietamente che rendevano ancora più lattiginosa la nebbia che ci circondava. Il capitano ritornò e ci chiamò a rapporto; l’ordine era di avanzare il più possibile prima che sopraggiungesse l’armistizio che sembrava imminente; riprendemmo il cammino, tenendoci sempre in quota per evitare la prima cintura di difesa e per penetrare maggiormente in profondità; gli alpini erano stanchi, affamati, intirizziti, eppure non si lamentavano. Marciavano lenti su quel terreno impervio, sotto l’imperversare dei grossi calibri nemici che da Col du Bonhomme scaraventavano un uragano di ferro e di fuoco. Avanzammo fino a notte, poi l’oscurità ci avvolse e sostammo in mezzo alla neve; nessuno dormì il freddo, la fame, la posizione impossibile, l’ansia dell’attacco, la speranza dell’armistizio: tutte cose che non lasciavano un momento di martoriare il corpo e la mente. Ogni cinque minuti accendevo un cerino per guardare l’orologio: il tempo sembrava essersi fermato, i minuti eran diventati ore, le ore secoli! Sfregai l’ultimo fiammifero: era la 1,35: un attimo dopo un boato lacerò l’aria, poi uno scoppio assordante, vicinissimo, il telo tenda che mi riparava mi cadde addosso; delle urla, poi silenzio! Qualcuno fece luce: una scheggia aveva spaccato l’alpenstock che reggeva il telo, il troncone giaceva al mio fianco; due palmi più bassa e il mio testone scoppiava come un cocomero. Attesi per udire altri colpi di partenza: nulla, silenzio assoluto; trascorse un’ora, due: sempre silenzio: la montagna era muta, immobile, la neve era cessata. Albeggiò; eravamo pronti per l’attacco, gli alpini mi interrogavano con lo sguardo; qualcuno, tra i più giovani, era pallido. Grida concitate salirono dal fondo della valle; un portaordini giunse trafelato: “ Cessate il fuoco! Armistizio! Armistizio!”. Saremmo fuori dalle rocce: “Armistizio! Armistizio!”. Gli alpini gridavano di gioia! Zurla mi abbracciò, i suoi baffoni erano fradici, girati all’ingiù, era letteralmente coperto di fango; stava incontrando la corvé dei viveri e delle munizioni, verso mezzanotte, quando fu ingabbiato da una scarica di artiglieria: è vivo per miracolo! Purtroppo tra i conducenti della corvé, partiti Col de la Seigne coi materiali in spalla, vi furono dei feriti ed uno cadde! Scendemmo verso Seloge; il maggiore Loffredo ci accolse sorridendo: “L’ hai scampata bella! “ disse al capitano Marchi. Riprese a piovere; entrammo in una baita, forzando la porta, finalmente all’asciutto! Ci sistemammo: gli ufficiali in cucina, il resto nelle altre stanze e nel fienile; coi viveri, finalmente arrivati, ed il caminetto creammo un angolo di paradiso. Gli Alpini, dopo un po’ di baccano, s’acquietarono; uscii all’aperto per disporre il servizio di sentinella: la luna faceva capolino tra le nubi, l’Aiguille di Trelatête mi sovrastava, candida, snella, scintillante. Rientrai, mi sdraiai in cucina per terra; il capitano Marchi ronfava in un angolo, il dottore bofonchiava rivoltandosi nel sonno, sul duro pavimento; l’aria della stanza era calda e gravida di odori. Toni Zurla era sveglio, al mio fianco. “ Toni, abbiamo vinto!” gli dissi. “ Con la Francia e per ora sì!” mi rispose “ Bella fadiga!”. Gli occhi mi si appesantirono e mi addormentai!

 

Alpino Silvio Bresesti (Fronte Greco Albanese e Russo – 49^ Compagnia)

Verso la fine del 1939 ricevetti la cartolina rossa; i primi di marzo dell’anno successivo partii per il distretto di Sondrio, quindi fui mandato prima a Tirano e poi a Glorenza, in Val Venosta, per un periodo di istruzione lungo un paio di mesi. Successivamente fui trasferito a Montestrutto in Val d’Aosta, dove venni aggregato alla 49^ Compagnia del Btg. Tirano (5° Alpini), in attesa di ricevere l’ordine d’attacco contro i nemici francesi (zona Monte Bianco). I primi di giugno scoppiò il conflitto contro la Francia che fortunatamente durò pochi giorni poiché i francesi capitolarono contro gli alleati tedeschi. A piedi tornammo a Fenis, in Val d’Aosta, dopo alcuni giorni ci trasferimmo a Mezzocorona (TN) da lì a Fai della Raganella (TN) dove restammo accampati per circa 20 giorni. Nell’ambito delle “manovre della Gardena” arrivammo a S. Vigilio di Marebbe (BZ) dove ci fermammo per circa 40 giorni. Fummo poi trasferiti a Prato dello Stelvio (BZ), dove alloggiammo nelle case finché il 10 novembre 1940 giunse l’ordine di partire per l’Albania in guerra contro la Grecia. In treno arrivammo a Brindisi, da lì imbarcati per Durazzo, già colpita dai bombardamenti inglesi che centrarono depositi petroliferi levando altissime fiamme visibili già molti Km prima di approdarvi. Fu il primo impatto con la guerra. Io ed altri alpini aspettammo al campo “E” di Durazzo per circa 20 giorni l’arrivo delle salmerie, poi partimmo prima per Tirana, per Elbassan ed infine per Grashi. Raggiungemmo la zona del “settore dei Devoli”, già occupata dal ripiegamento dei reparti del Btg. Tirano e Morbegno. L’ordine era di arginare l’avanzata greca sul ponte “Gori Topi”, una delle cime più insidiose del fronte albanese. La prima Compagnia (49^), non fu ordinato di attaccare le opposizioni greche. Di quei terribili giorni ricordo un Cappellano che confessava sotto un pino e distribuiva la comunione a chi volesse riceverla. Il comandante Ten. Alessandria, che aveva sostituito il Cap. Marchi, trattenne me ed altri per portare tutte le notti i viveri in prima linea. Ogni notte arrivando nei rifugi costruiti sotto la neve del “Gori Topi” cercavo di parlare con un mio compaesano, Luigi Giumelli (classe 1915) al quale ero molto legato. In Aprile il “Gori Topi” fu abbandonato dai greci e le nostre truppe tornarono a Gorizia e poi a Libras in una grande boscaglia dove sostammo per una quarantina di giorni prima del rientro in Italia il 29 giugno 1941. Furono giorni di paura quelli del rientro perché avanti a noi una nave con a carico il Btg. Gemona della Julia fu affondata da un siluro inglese; una beffa dopo gli eroici giorni vissuti in prima linea. Giungemmo a Bari dove fummo accantonati per circa 15 giorni nella zona del policlinico dove arrivò il Duce che premiò (se così si può dire) ognuno di noi con 5 lire. Il giorno dopo fummo trasferiti prima a Varallo di Sesia (NO), poi a Pinerolo dove ricevetti la prima licenza dopo oltre 16 mesi di “naja”. Rientrai a Sala Vertano, il Btg. fu poi trasferito a Rivoli Torinese, dove cominciarono a giungere voci sulla possibilità di partire per il fronte russo. Furono mesi di trepidazione fino al 17 luglio 1942, quando giunse l’indesiderata notizia di partire per la Russia. Una lunga tradotta ci condusse al fronte, i primi effetti della guerra li vedemmo a Varsavia: le donne ebree pulivano i binari sotto la sorveglianza dei soldati tedeschi, una di queste ( che aveva studiato all’Università di Torino) si avvicinò a noi per scambiare qualche parola, il Tenente le allungò qualche galletta, ma la poveretta fu subito richiamata e picchiata dai militi tedeschi. Giunti in Ucraina cominciammo a vedere la miseria lasciata dalla guerra; poveri contadini offrivano uova, pollame, tuberi in cambio di sigarette, utensili o quel poco che ritenevano di poter scambiare. Più in la carcasse di armamenti, devastazioni del conflitto fino a Novagorlofka cittadina distrutta dai precedenti combattimenti. Fummo destinati nella zona dei laghetti dove i russi avevano avuto la meglio sui nostri reparti di Fanteria. Il C.te del Btg. Tirano fu risparmiato dall’assalto. Purtroppo furono uccisi e di conseguenza il Btg. fu risparmiato dall’assalto; al suo posto attaccò il Btg. Valchiese. Fummo poi spostati a nord nella zona di Rossos, sede del Comando d’Armata alpino. Il comando . Il comando della Divisione Alpina Tridentina si trovava a Podgornoec capeggiato dal Gen. Reverberi. Durante quel periodo fui addetto ai rifornimenti che portavo tutti i giorni da Sagaiewka al Don; il Btg. era schierato nella zona di Belogoroje. Il 15 gennaio 1943 arrivò l’ordine di ritirarsi in quanto i russi ci avevano circondato; il 17, giorno di S. Antonio, iniziò il lungo calvario della ritirata: partimmo da Podgornoe, passammo Opyt, dove incontrammo una piccola resistenza russa, resistenza che divenne molto più agguerrita a Postojalyi, la ritirata proseguì da Skororib, a Malakijewa a Schelijakino dove il 22 gennaio 1943 si consumò una grande battaglia. Continuammo il cammino passando per Nikitowka e poi giungere a Arnautowo dove fu combattuta un’altra grande battaglia che vide il Btg. Tirano vincere sui russi; purtroppo durante questo combattimento caddero 11 Ufficiali tra i quali ricordo Peppe Perego, Briolini e Soncelli, e moltissimi Alpini tutti valtellinesi o bergamaschi; una vera e propria tragedia. Di quei terribili giorni di ritirata ricordo alcuni piccoli ma significativi episodi: un giorno mi chiamò un alpino, era Antonio Turcatti di Grosotto, che mi chiese di aiutarlo a scaricare alcuni morti da una slitta; sotto di loro trovammo un pezzetto di formaggio di grana che con grande gioia dividemmo. Il Ten. Nicola chiese al Turcatti se poteva averne una scheggia in cambio della propria catenina d’oro; il Turcatti allora prese il suo pezzo di grana e ne offrì una scheggia al Tenente senza però volere niente in cambio, fu un gesto di grande generosità in quelle disastrose condizioni. Ricordo un altro aneddoto: un giorno io, Cecini Giovanni e Trabucchi Severino di Semogo, adocchiammo un’isba (capanna) sprangata; dall’interno sentimmo alcune voci e così decidemmo di sfondare la porta. Davanti a noi trovammo due donne ed una quindicina di bambini impauriti, li tranquillizzammo dicendo che non avremmo fatto loro del male, ma accecati dalla fame, perquisimmo tutta la casa per trovare qualche cosa di commestibile. In un armadio trovammo tre belle pagnotte, le stavamo per divorare quando una donna piangendo ci supplicò di non farlo; allora dividemmo una pagnotta in tre e indicammo di distribuire le due restanti ai bambini prima che qualche altro povero soldato affamato come noi potesse prendersele. Da Arnautowo, dopo aver raccolto i pochi feriti sopravvissuti, partimmo per Nikolajevka dove già il 6^ Alpini era impegnato a combattere per sfondare la resistenza russa. Noi eravamo in pochi e senza munizioni ed attendemmo il Btg. Edolo lasciato in retroguardia. Quando giunse attaccammo con impeto, ricordo che il Generale Reverberi salì su un carro e gridò “Tridentina avanti”; a quel grido guidò i suoi soldati sostenuti solo dalla disperazione, all’occupazione di Nikolajevka. Anche durante questo terribile combattimento subimmo gravi perdite. Da lì partimmo subito, la notte stessa, in direzione ovest; con alla testa il Btg. Edolo superammo di slancio una piccola resistenza quindi, la sera, arrivammo davanti ad un grosso centro già occupato dai russi. Il nostro Ten. Calvi contò le munizioni: davvero poche ; fortunatamente arrivò una cicogna tedesca che ci suggerì di non puntare sulla cittadina ma di aggirarla e servendosi di un fumo segnalatore ci indicò la direzione. Camminammo tutta la notte e tutto il giorno seguente; ricordo che davanti a me c’era un soldato con la faccia tutta fasciata e due polli sulle spalle che avrei volentieri divorato; durante il cammino non scambiammo nemmeno una parola. Quando dalla coda della colonna giunse l’ordine di fermarsi per una breve sosta, l’Alpino avanti a me si girò e subito mi disse:” Oh, te se ti Silvio!”; era Giacomo Pasini, un mio vicino di casa e solo in quel momento, dopo tanti km. trascorsi l’uno dietro l’altro, ci si riconosceva. Decidemmo quindi di restare vicini per farci coraggio; durante la sosta, durata circa 3-4 ore, Giacomo, si tolse gli scarponi per riposare meglio, ma appena levati, i piedi semi congelati, si gonfiarono a tal punto da non infilarsi più negli scarponi. Era disperato, non sapeva più che cosa fare; con tutta la strada da percorrere, in mezzo alla neve e con temperature glaciali a cui si doveva resistere, gli scarponi rappresentavano un elemento indispensabile. Provammo quindi a fasciare i piedi con delle coperte, ma Giacomo in preda al panico disse che non voleva più camminare, poi si rivolse a me e aggiunse:”Vai cerca di salvarti e se hai la grazia di arrivare a casa salutami una sola persona: mio padre e gli spieghi la mia fine”. Poco dopo si dovette ripartire e Giacomo vedendoci allontanare con la forza della disperazione si alzò e mi raggiunse. Durante la ritirata anch’io dovetti togliermi gli scarponi e fui costretto a continuare coi piedi gonfi avvolti nelle coperte. Prima di uscire completamente dall’accerchiamento russo, la cosiddetta “sacca” ricordo che la mia squadra era ormai completamente sfinita. Disperati cercavamo qualcosa che potesse esserci d’aiuto per continuare il cammino. Fu così che esausto mi accostai ad una casa, vidi che era abbandonata, allora provai sul retro e trovai un cavallo che docilmente mi si avvicinò. Io lo accarezzai e vidi che aveva una brutta ferita da granata, ma ciò nonostante non zoppicava. Approntata una briglia di fortuna, provai a montarlo e in poco tempo raggiunsi gli altri. I miei compagni, tra i quali ricordo Antonio Famlonga di Arigna, Carmelino Uberti di Cedrasco, Trinca Luigi Tarelin di Grosotto, vedendomi arrivare a cavallo, cominciarono a gridare di gioia. Decidemmo di montarlo ed attaccarci alla coda; fu così che a turno ci potemmo riposare un poco. Mai un animale fu tanto provvidenziale, per noi fu come ricevere una grazia insperata. Il 31 gennaio 1943 riuscimmo così ad uscire dall’accerchiamento russo: eravamo fuori dalla famosa “sacca”. Lì trovammo il Gen. Gariboldi (in attesa del figlio Tenente) al quale chiedemmo se sarebbero arrivati degli aiuti; sconsolato ci disse che stavano arrivando solo i primi automezzi per caricare i feriti cioè 1 camion per reparto. Ora non eravamo più sotto il fuoco nemico, ma purtroppo la strada del ritorno era ancora molto lunga. Sempre con il nostro cavallo, diventato per me come un fratello, camminammo così , sino a giungere nei pressi di Gomel; erano gli inizi di marzo del 1943. Dopo 850 Km. di ritirata, finalmente avevamo raggiunto le tradotte che ci avrebbero poi portato alla tanto sospirata casa. Fu un interminabile calvario che vide tornare in Italia solo 13.500 soldati dei 60.000 partiti. Baciai il mio cavallo che con gli occhi malinconici mi vide partire per un lungo viaggio che terminò il 17 marzo 1943 a Udine. Fuori dalla stazione ricordo che c’era una massa imponente di persone che si accalcava per chiedere notizie dei propri cari (in particolare della B. A. Julia); quindi per evitare che fossimo visti, tanto eravamo conciati, fu rotta la cinta della stazione e per quel varco raggiungemmo le baracche allestite per il nostro rientro. Servirono ben 15 giorni di contumacia per riprenderci un po’ dai patimenti e dalle privazioni vissute, sino cioè all’8 aprile 1943, quando potemmo tornare a casa in licenza per 1 mese. Finita la licenza tornai a Tirano dove fummo di nuovo vestiti e quindi trasferiti da Merano, a Malles, a Gorizia, a Rio di Punteria; correva l’8 settembre 1943. Purtroppo questa data diede inizio ad un nuovo lungo calvario: i civili ci fecero arrestare dai tedeschi che ci portarono a Bressanone e da lì, caricati sui treni sino alla Prussica Orientale; un viaggio lungo 5 giorni stipati sui vagoni, senza servizi, nemmeno per i bisogni personali. Arrivammo così nel campo di Stablac dove la prima notte dormimmo sulla sabbia bagnata all’interno di una baracca. Il mattino seguente ci fu un’adunata generale dove chiesero se qualcuno volesse arruolarsi nell’esercito tedesco; pochi della milizia aderirono, tra questi nemmeno un Alpino. Accettammo la prigionia, la via del sacrificio e del tormento pur di essere coerenti con la nostra fedeltà alla Patria. Fui mandato a Kunisberg dove finii con l’andare in città a costruire rifugi antiaerei. Qualche tempo dopo una notte fui chiamato al corpo di guardia e intimandomi di preparare le mie povere cose fui trasferito in treno al campo di Onestein dove fui rinchiuso nella baracca dei condannati in attesa di processo. Qui incontrai il Lino di “Mastru” di Posseggia (Teglio) ed uno di Castello dell’acqua. Conobbi qui anche un interprete, Emilio Bonomi di Treviso, al quale mi raccomandai che mi trovasse da lavorare dai contadini perché non ne potevo più di quella vita di stenti in baracca. Offrii in cambio del suo interessamento quanto avevo: 5 “papirosche”, 5 sigarette. Ottenni quanto desideravo ed accompagnato da un milite tedesco con due prigionieri francesi dotati di enormi valigioni colmi di ogni ben di Dio inviati dalla Croce Rossa americana, andammo alla stazione ferroviaria 4 o 5 distante dalla stazione ferroviaria. Per ingraziarmi un poco i francesi mi offrii di portar loro le valigie ma giunto in stazione loro iniziarono una lauta merenda non degnandomi nemmeno d’uno sguardo. Io, famelico, restai esterrefatto a guardarli; fu a quel punto che il milite tedesco, con grande generosità da parte sua e stupore dalla mia, mi offrì la sua colazione: due fette di pane nero spalmate con della margarina e disse: “Prendi italiano la mia colazione che quei brutti francesi non si degnano di darti nulla”. In treno arrivammo nella zona dei laghi Musuri della Prussica Orientale, vicino alla Lituania, in una cittadina grande come Sondrio dove finii in una baracca. Qui incontrai 16 italiani e fummo addetti all’ammasso del grano sotto il vigile controllo di 6 anziani tedeschi con i quali instaurai un amichevole rapporto. L’umanità di questo comandante anziano, civile, ci permise di racimolare qualche patata e qualche rapa per integrare le nostre scarse razioni; ricordo che talvolta ci portava una testa di mucca con la quale, allungando sistematicamente il brodo, in 17 mangiavamo per alcuni giorni. Erano dure giornate lavorative, soprattutto quando si doveva scaricare carbone, ma in qualche modo ci si arrangiava. Di questo periodo voglio citare un fatto che mi capitò: durante il lavoro dell’ammasso del grano, portavo degli zoccoli di legno e poiché durante la ritirata in Russia nell’inverno del 1942/43, rischiai di congelarmi i piedi (specialmente quello destro), questi ultimi con gli zoccoli tendevano a sudare. Un giorno del mese di luglio del 1944, fui mandato con un anziano tedesco sul tetto per ripararlo con del catrame. Col caldo però, poco dopo, cominciò a staccarmisi la pelle dai piedi in modo che non potei più appoggiarli al suolo. Mi sdraiai quindi, in un angolo del capanno all’ombra di un platano con i piedi al sole. Il tetto del capanno restava ad livello più basso dalla strada principale adiacente, e fu così che non ci accorgemmo dell’arrivo di una “camicia bruna” (volontari per l’ordine della città, composti per la maggior parte da invalidi di guerra). Quando spuntò sul tetto cominciai a tremare e come me il vecchio tedesco. Subito mi assalì come una belva e con la pistola in mano mi chiese perché non lavoravo; io feci vedere i miei piedi e col cuore pieno d’angoscia, pronto a morire dissi:” Questo è il riconoscimento che ricevo per aver combattuto con voi?”; lui ribatté:” Non è vero, tu sei un traditore!” Poi continuò chiedendomi dove e con quale divisione avessi combattuto, aggiungendo che se non avessi risposto mi avrebbe ucciso subito. Io risposi di aver combattuto nella Divisione Alpina Tridentina, nel 5^ Reggimento alpini, Battaglione Tirano e continuai elencando le città attraversate, da Novroloska a Podgornoe, da Sagaiewka al Don, da Opyt a Postojalyi a Nikolajevka. Sentite queste parole improvvisamente la “camicia bruna” si calmò, si rimise in tasca la pistola, mi disse di tornare a riposare e che sarebbe tornato fra un’ora. Dopo circa un’ora, infatti, tornò con un fagotto sotto il braccio; con sé aveva delle pezze bianche, un kg. Di borotalco ed un paio di suoi vecchi stivali militari. Aveva portato quella roba per me, per curarmi i piedi; io guardai quei stivali con gli occhi pieni di lacrime, pensando a quanto li avessi desiderati. Mentre mi diede quelle cose mi confidò che anche lui fu ferito a Nikolajevka, che in passato fu autista di un semovente (carro) e che restato senza benzina fu salvato dagli Alpini italiani. Col trascorrere dei giorni a lavorare all’ammasso del grano, cresceva sempre più nell’aria la sensazione che presto sarebbero arrivati i russi, tanto che fummo impiegati anche per scavare camminamenti e opere di difesa. Nonostante questo fu un duro lavoro, io ammonivo i miei compagni che se fossero arrivati i russi, potevamo aspettarci di peggio. Purtroppo, le previsioni fatte si dimostrarono esatte ed i russi arrivarono verso la fine del 1944. Inizialmente si presentò a noi un ufficiale dicendo che presto saremmo tornati a casa, ma poi arrivarono di lì a poco, un ucraino e due siberiani completamente ubriachi; uno dei due mi puntò la pistola alla tempia ma fortunatamente non sparò. L’arrivo delle milizie russe causò devastazione ad ogni paese e violenze ed efferatezze d’ogni genere sulle donne; essi raggrupparono i prigionieri per condurci in un altro campo di concentramento più arretrato. Qui incontrai prigionieri di ogni nazionalità: noi italiani fummo i più malvisti e perseguitati. Ricordo, che l’unica nostra piccola soddisfazione la provammo quando un bolognese stese a terra un russo in un incontro di boxe. Successivamente fummo di nuovo trasferiti in una località sempre più ad est rispetto all’Europa occidentale; 600 italiani fummo adibiti alla custodia di 30000 cavalli sotto la quotidiana minaccia di essere trasferiti in Siberia; un’eventualità alla quale avrei preferito morire. Il comandante russo, acceso antistaliniano, mi interrogò parecchie volte sulle condizioni di vita italiane e benché reticente, instaurai un rapporto un poco confidenziale che mi permise di scoprire all’interno dell’ufficio cartine topografiche ed alcune bussole che riuscii rapidamente ad avere.Saputa approssimativamente la nostra posizione geografica, maturò il proposito della fuga che contò ben presto numerose adesioni. Tuttavia al momento decisivo solo io ed Emilio De Conti di Azzano (PN) tentammo l’avventura, consapevoli di correre un rischio mortale. La notte del 10 giugno 1945, presi due cavalli partimmo. Dopo due giorni di viaggio, una sera, fummo fermati da un drappello di russi ubriachi che dopo ripetute minacce di morte, ci rinchiuse in una vecchia stalla. Il mattino seguente, i nostri carcerieri sembravano più concilianti ma la sera li vedemmo di nuovo ubriachi fradici che ripetevano le loro insolenti minacce prima di sprofondare nel sonno. Approfittammo della situazione quindi, per rimpadronirci dei nostri cavalli e ripartire in un frenetico galoppo durante una chiara notte foriera di una nuova libertà. Dopo parecchi giorni di viaggio, senza nutrizione, se non una pappina ottenuta spremendo dei germogli di segale, giungemmo in Polonia in prossimità di un paesino ai piedi di una collina. Dopo attente osservazioni decidemmo di inoltrarci nel paese, dove però trovammo tutte le porte delle case sbarrate. Dopo aver ripetutamente battuto sull’uscio di una di queste case, apparve un uomo impaurito che dopo aver saputo che eravamo dei militi italiani aprì la porta per farci entrare. Provati da un lungo digiuno, vuotammo d’un fiato una zuppa di verze che il contadino ci offrì, dopodiché ci chiese cosa volessimo fare. Noi insieme rispondemmo:”Vogliamo tornare a casa”. Loro risposero che ciò non era possibile in quel momento perché tutto era fermo, sia i treni che qualsiasi altro mezzo, e che quindi dovevamo aspettare del tempo. Ci fu offerto un alloggio e 250 Sloti (moneta polacca) ciascuno in cambio dei nostri cavalli; ci trattenemmo così due mesi in quel paesino. La famiglia che ci ospitò era composta da una signora anziana (la nonna), la propria nipote ed il marito di quest’ultima. Tutti in paese furono informati della nostra presenza, nonostante ciò nessuno volle denunciarci ai commissari bolscevichi. Noi trascorrevamo le giornate aiutando i padroni di casa nel lavoro dei campi. Durante questo soggiorno fummo muniti di un cartellino rosa che ci permetteva di viaggiare lungo tutta la rete ferroviaria polacca; le linee arrivavano fino a Berlino. Appena avuto questo tesserino, convinti di riuscire di giungere sotto il comando degli americani decidemmo di partire per Berlino. Prima di partire, in segno di riconoscenza verso coloro che ci ospitarono senza denunciarci alle autorità nemiche, chiesi cosa potessi fare per loro se Dio mi avesse concesso la grazia di tornare a casa. La nonna mi rispose:” Mandaci a casa di arance”. Partimmo così verso quella di Berlino per noi simbolo di libertà e dopo un viaggio carico di tensioni e paure, nascosti dentro un vagone merci, approdammo l’indomani in una cittadina devastata dalle furie della guerra ma già in fase di ricostruzione. Purtroppo i nostri propositi non erano esatti, in quanto per arrivare “in mano” agli americani ci consigliarono di spostarci in Baviera; fu così che partimmo, via treno, per Lipsia. Arrivammo quindi, alla famosa “cortina di ferro”: da una parte i russi, dall’altra gli americani. Due Slavi, incontrati in un sottopasso, ci dissero che attendevano da 10 giorni l’occasione per poter passare dall’altra parte, ma le sentinelle russe spietatamente impedivano a raffiche di mitra, ogni tentativo di oltrepassare la cortina. Fortunatamente riuscimmo, tramite un ragazzino, a sapere che ogni giorno, durante il primo pomeriggio, passava una tradotta di prigionieri italiani che rientravano in patria; decidemmo quindi di aspettare quel treno. Arrivò il treno colmo di prigionieri italiani e subito tentammo di salire ma un colonnello italiano ci respinse: dovevamo chiedere l’autorizzazione per salire ai russi. Noi consapevoli che ciò sarebbe significato tornare nei campi di concentramento, continuammo ad insistere senza però alcun successo. Sbirciando nel vagone vidi un Maggiore del 2^ Art. da Montagna del gruppo Bergamo con il Fregio del fronte russo sul cappello. Fu a lui che allora con le lacrime agli occhi, disperato mi appellai, ricordando le sofferenze ed i patimenti vissuti fianco a fianco su quel fronte e se fratellanza ed umanità fossero ancora presenti in lui, questo era il momento di dimostrarlo. Furono momenti di grande pena, il Maggiore consapevole dell’impossibilità di farci salire, ci consigliò di aggirare i vagoni e di salire furtivamente dall’altro lato. Terrorizzati di essere scoperti dagli spietati aguzzini russi, salimmo sul presente fra i due vagoni in compagnia di un ferroviere tedesco che, inizialmente, tememmo potesse farci scoprire. Poco dopo però, scoprimmo che anche quest’ultimo era un milite tedesco travestitosi per fuggire alle milizie russe. Quando la locomotiva con l’ufficiale russo si staccò dai vagoni per tornare indietro, e fummo agganciati da un locomotore in mano ad un ufficiale americano, provammo un brivido di libertà. Fummo portati ad una cinquantina di km. di distanza dalla “cortina di ferro”, dove finalmente ricevemmo una razione alimentare. Ricordo positivamente gli americani, perché ci liberarono, pulirono e sfamarono, penso che proverò nei loro confronti un’immensa gratitudine. Raggiungemmo successivamente l’Austria e dopo una breve sosta rientrammo in Italia, precisamente a Pescantina dove fummo accolti dai preti dell’Opera Pontificia. Fu qui che rivisto l’ufficiale dell’Artiglieria, volli ringraziarlo per quanto ci suggerì; lui da parte sua, seppe dimostrarmi nuovamente la sua generosità offrendomi parte della sua minestra contenuta nella gavetta e destinata ai pochi fortunati giunti per primi alla mensa. Presi il treno per Milano quindi quello diretto a Sondrio; tornai il 14 settembre 1945. Alle nove di sera giunsi a S. Giacomo di Teglio da mio fratello e dopo un paio d’ore tornai da mia madre. Fui imprudente perché sapendola sofferente di cuore avrei dovuto avvisarla del mio rientro, ma il desiderio di riabbracciarla fu così forte che in piena notte fui sotto casa a chiamarla. La poveretta col cuore in gola per la gioia di rivedermi restò un’ora come paralizzata dall’intensa emozione; ci vollero alcuni giorni per farla riprendere. Il mio calvario di guerra era incredibilmente finito, purtroppo subivo le conseguenze di quei terribili anni, tanto che la notte avevo gli incubi causati dalle atrocità viste e vissute; una lunga convalescenza mi permise piano piano un recupero fisico e psicologico. I ricordi di questa incredibile esperienza sono sempre vivi e scolpiti nella mia mente ed è per questo che nel 1982, dopo aver scritto numerose volte senza alcuna risposta, mi misi in contatto con il consolato polacco a Milano per poter rivedere quelle persone che tempo fa mi offrirono ospitalità salvandomi la vita. Purtroppo non ricordando perfettamente il nome del paese, sembrò tutto troppo difficile, quando, un’impiegata (del consolato polacco) mi suggerì di contattare un prete polacco d un paese del quale ricordassi il nome. Così feci e grazie a questo parroco, che dovette fare più di 120 km. per trovare il posto esatto, rintracciai questa famiglia. La nonna morì parecchi anni fa, così purtroppo anche il marito della nipote, la quale era l’unica superstite. Dopo vari contatti tramite lettera, nel 1985 riuscii a fare venire a casa mia la nipote col figlio e li ospitai per circa un mese. Fui molto contento della loro visita, fu un modo per dimostrare la mia gratitudine. Questa è la vicenda vissuta da Bresesti Silvio, un alpino della 49° Compagnia, Battaglione Alpini Tirano, 5° Reggimento Alpini, Divisione Alpina Tridentina – viva la pace, non la guerra.

 

Tenente Ambrogio Gromme (48^ Compagnia - Fronte Russo)

Nevicava con fiocchi grossi come noci. La compagnia, la 48^, era ordinata. Un freddo boia ma sopportabile. Era la fame che ci rodeva. Un alpino scoprì dei recipienti con una mistura che pareva marmellata. Quasi tutti addosso a quei recipienti. La “specie” di marmellata aveva un sapore dolciastro e strano. Ne mando giù due belle manate colme. Non passò nemmeno un quarto d’ora che mi sentii nel ventre un piccolo inferno. Mi sedetti a terra e cercai di vomitare. Niente da fare. Svenni. Quando tornai cosciente, attorno a me era un solo lamento. Mangili di Carvico (BG), il mio attendente, cercò di rimettermi in piedi. Mi sentivo sfinito, la vista era annebbiata. Mi coricai di nuovo a terra. Nel capannone chi gridava, chi piangeva, chi – come me- pensava ormai di chiudere i suoi giorni convinto che i sovietici avessero avvelenato quella specie di marmellata. Intravidi Vita della 46^ che mi osservava con grande tristezza, vidi il comandante della compagnia il buon e valoroso Ten. Piatti che imprecava contro tutto e contro tutti. La sua bella compagnia era stata semidistrutta dalla “marmellata”. “Ma che marmellata, idioti, questo è anticongelante per macchine agricole!” Passò il nostro cappellano Padre Crosara, ci assolse dalle nostre miserie e invocò per ognuno la misericordia di Dio. Poi nel capannone restammo soltanto i più conciati male. Io con Mangili in buona forma e parecchi che rantolavano. Ormai la “marmellata” li stava trasportando nell’aldilà. Pregavo e mi segnavo. A un tratto Mangili mi scosse. La compagnia se ne era andata con il Battaglione. Cercai di mettermi in piedi ma le gambe erano di legno. Fuori il freddo era tremendo. Mangili mi mise due coperte sulle spalle ma dopo pochi passi non ce la facevo più. Le due coperte mi parevano uno zaino pesantissimo. Mi tolse una coperta, se la mise a tracolla sopra il parabellum. Si piegò in ginocchio e mi caricò in spalla. “Si tenga attaccato bene ma non mi strozzi. Mi lasci almeno respirare altrimenti siamo già morti e sepolti tutti e due”.In spalla sul mio attendente. “Apra la bocca …..” E Mangili mi infilò due dita. Vomitai roba verdastra. Avanti nella neve, soli come due veri disperati. Altra vomitata addosso a Mangili. Però qualcosa nel mio fisico cambiava. Provai a camminare. Cadevo nella neve come fossi ubriaco, ma riuscivo a muovere le gambe. Mangili era stremato, non parlava più. Poi riuscimmo a scorgere delle ombre che andavano nella nostra direzione. Uno sforzo sovrumano e li raggiungemmo. Era un gruppo di alpini del Tirano, ma non la nostra compagnia. “Siamo rimasti indietro per recuperare i ritardatari”. Il Ten. Astolfi mi guardò “Come ti senti ?” “Se sono qui lo devo a Mangili” “Ma sai quanti kilometri hai fatto Gromme ?” “No, non so neppure se sono proprio vivo…”. “ Avete fatto più di 50 km : un miracolo”. Giungiamo a Scheliakino quando il 5^ e il 6^ avevano sbaraccato dal paese i sovietici e nella neve c’erano caduti nostri e avversari. Camminiamo e cerchiamo di raggiungere il nostro Battaglione. Era una parola. Tolsi il parabellum a un caduto. Mentre provavo una sventagliata per sincerarmi che l’arma funzionasse, quasi taglio in due Mangili.”Bel ringraziamento, sig. tenente!”. Scoppiai a piangere. Il Sten. Antonoff mi viene vicino e mi abbraccia. “Ho i piedi neri però tu tieni duro, sei il più anziano del nostro reparto e devi farcela”. Per dormire nelle isbe era impossibile trovare posto. Ci sarebbero voluti i nostri esploratori o il sergente Pedrana di Bormio che pigliava la gente per il ….“coppino” e la alzava di peso deponendola qua e là. Ognuno ormai pensava a se stesso e faceva valere il diritto di essere per primo arrivato al caldo. Abbiamo avuto le gran fortuna di un po’ di latte dalle buone donne russe e almeno una decina di volte. Fu la fortuna più grande della mia vita. A Nikitowka sembrava che avessimo ritrovato il Tirano. Ma nella confusione fummo di nuovo travolti e ci ritrovammo mischiati a ungheresi e a Fanti della “Vicenza”. Astolfi prende la decisione di muoversi per conto nostro, soltanto noi del Tirano. Andando nella direzione avremmo trovato la colonna che si apriva la strada verso la salvezza. L’importante era rimanere uniti e trovare armi e munizioni. Eravamo in tutto 150 uomini, tutti conciati male. Arriviamo, dopo un dosso, di fronte ad un abitato. Qualche isba ma anche case. Poco distante, circa uno o due km, svetta un bel campanile con la “cipolla” in cima. Non facciamo neppure a tempo a guardarci in giro allorché veniamo investiti da raffiche di mitraglia. Noi ci buttiamo nella neve a stiamo fermi. “Siamo a Livenka”, disse Astolfi. Sapremo poi che Livenka è un sobborgo di Nikolajewka. Infatti in lontananza si odono scoppi di granata, il rosario continuo e lamentoso delle mitraglie che a tratti sembrano le nostre italiane. A volte si distinguevano chiaramente un’intensa fucileria e colpi di mortai. Intanto un pattuglione di sovietici in camici bianchi viene verso di noi. Piazziamo la mitraglia. Astolfi si alza in piedi e urla “Alpini all’attacco!”. Fu l’assalto delle povere anime disperate. Non so se il pattuglione sovietico incappò nel tiro della nostra mitraglia oppure se le nostre bombe a mano, almeno per una volta, hanno fatto il loro dovere. I russi indietreggiarono sino a una casa. Dalla casa mitragliatori e un cannone facevano fuoco contro di noi. Cadde al mio fianco il Ten. Astolfi, caddero altri poveri alpini. Mi avvicinai allo steccato di legno della casa e lanciai due bombe a mano verso un mitragliatore. Poi saltai avanti mentre due o tre alpini erano entrati nella casa da una finestra laterale. D’un tratto fu silenzio. E intanto il rombo di una battaglia poco distante da noi si faceva più intenso. Quella notte dormimmo al coperto vicino ai morti sovietici dopo aver raccolto e curato in qualche modo una ventina di nostri alpini feriti. Facemmo l’appello e dei 150 alpini presenti al mattino soltanto 60 risposero. Prima di addormentarmi scoppiai a piangere a dirotto e abbracciai con tutte le energie rimastemi il caro e buon Mangili. Il 27 gennaio 1943 al mattino, ci siamo poi riuniti ai resti del Tirano. Finalmente gli ingordi della marmellata avevano ritrovato il loro Battaglione.

 

Tenente Tonino Lupi (46^ Compagnia - Fronte Greco Albanese - 1^Parte)

Seduto a poppa, salutai l’Italia: la vidi svanire avvolta nella foschia di quelle prime giornate novembrine; guardavo la scia che si srotolava dall’elica e sembrava un tappeto spumeggiante che ancora mi univa alla mia terra; il convoglio procedeva a zig-zag sul mare liscio come un olio; presso alla murata rimediato un amo con un chiodo attaccato alla funicella da valanga tre alpini, aspettando pazienti, s’illudevano di riuscire a pescare. “Ora ci siamo, Lupacciot!” disse una voce alle mie spalle, rompendo il silenzio in cui ero avvolto. Valcanover si sedette vicino a me, porgendomi il pacchetto delle sigarette. Caro vecchio amico Sparafucile! Sul fronte occidentale era alle salmerie e ci aveva sofferto tanto di non essere stato con noi, di esser dovuto restare indietro con i suoi muli; a Bari non ne poteva più, aveva rifiutato l’incarico e, dopo molte insistenze, era riuscito a scambiarsi il posto col sottotenente Mapelli. “Faremo grandi cose, Lupacciot! Mi la conosco zà ben Atene!”. Calò la notte, la luna con i suoi raggi inargentò l’acqua, navigammo tranquillamente, in silenzio; poi all’orizzonte apparve la costa albanese, punteggiata da incendi: un ronzio di motori punzecchiò l’oscurità, aumentò gradatamente fino a diventare un rombo; poi, improvvisi, degli scoppi: aerei inglesi stavano bombardando Durazzo. Sbarcammo rapidamente e in fretta attraversammo la città, tra l’intenso cannoneggiare della contraerea; curvi sotto i carichi procedevano quasi di corsa, sfilando ad uno ad uno davanti a grossi depositi di carburante in preda alle fiamme, marciammo nella notte finché non arrivammo all’arido e desolato campo E. Altra incursione sulla città: noi ne eravamo fuori e ci beccammo tutte le schegge dell’antiaerea; un proiettile difettoso venne ad esplodere proprio in mezzo al mio plotone e ferì gravemente Nana alla schiena. Respirava a fatica povero Nana e quando lo caricammo sull’autoambulanza, mi salutò con un sorriso triste ed io mi sentivo stringere il cuore!! Quando dal camion il mulo è sostituito C’è sol speranza di tornar…ferito!! Così dicevano gli alpini, accovacciati negli autocarri giunti in una interminabile autocolonna; caricammo in fretta e furia uomini, armi e munizione, persino qualche mulo. Brutte notizie giungevano dal fronte dove l’Edolo ed il Morbegno già stavano schierati per arginare la rabbiosa avanzata dell’esercito greco, infinitamente superiore di uomini e di mezzi. Partimmo all’imbrunire: gli alpini sgranavano tanto d’occhio alla vista dei primi ambii muletti albanesi e delle prime “Marie” schipetare, alle quali indirizzavano sempliciotti, galanti complimenti. Tirana, Elbassan, Pogradec: costeggiammo il lago e sulla riva opposta si vedevano brillar delle luci, sembrava persino di udire della musica: là era Okrida, là la Jugoslavia. “Dì là la pace,di qua la guerra ! » mormorò il caporale Cola ed in quelle parole vibrava un’infinita tristezza. De Nardo sospirò profondamente. “È naja, amico mio!!”. Sorrise. I camion avanzavano lentamente, sobbalzando di continuo sulla strada accidentata, gli alpini erano bianchi di polvere, sembravano degli spettri! Una barriera di montagne chiudeva l’ampia piana di Coritza: già si sentiva, lassù sulle cime, brontolare il cannone in lontananza, già le prime ambulanze, cariche di feriti e di lamenti, facevano sbiancare il volto imberbe dei più giovani che avevano ancora negli occhi la visione dell’Italia, dei verdi prati di San Vigilio, delle acque chete ed ambrate del Lago Santo. L’autocolonna attraversò la città, poi rallentò la corsa, il lungo serpe di macchine si restrinse, si arrestò; passò di corsa Ossicino gridando di scendere alla svelta, e di prepararsi subito a ripartire a piedi. Sgranchimmo le gambe. Un albanese si avvicinò offrendoci delle magnifiche pelli di volpi azzurre a cento lek l’una, lo scacciai gridandogli che non sapevo che farmene, al fronte, delle sue pelli che fra poco la mia, forse, non ne sarebbe valsa nemmeno tre di quei lek!! La 46 partì di carriera senza nemmeno attendere le mitragliatrici attardatesi per un guasto al camion che le trasportava: il tenente Brenna voleva opporsi, ma la necessità di tamponare una falla aperta dal nemico su q, 1828 era impellente. “Avanti 46” gridò allora “Avanti alpini! Avanti coi fucili e bombe a mano!”. Noi partimmo poco dopo, arrampicandoci lungo un ripido sentiero, mentre a poco a poco si facevano più secchi e distinti gli scoppi laceranti degli sharpnels. In testa il maggiore Loffredo, poi la 49, la compagnia Comando e la 48. La 46 intanto era arrivata in vetta, noi la vedemmo scontrarsi subito col nemico a bombe a mano e con le baionette; sulla quota avvolta da nuvole di fumo si scorgevano nettamente gli uomini che avanzavano di corsa, taluni incespicando, altri procedendo a piccoli balzi, mentre l’aria era tagliata dall’incessante crepitio della mitraglia. Guardai Degano, il mio sergente; saliva a testa bassa, leggermente affaticato, dietro di lui si snodava il mio plotone, il plotone che dovevo comandare in guerra: nessuno fiatava tutti lanciavano occhiate continue alla cima dove la battaglia divampava, dove stavano già morendo i primi alpini di Tirano. Il maggiore s’arrestò: chiamò Marchi: “Secondo e terzo plotone, avanti!” ordinò flemmatico il capitano. Io e Ripamonti, con i nostri uomini, ci staccammo dal reparto, preparandoci a salire a squadre spiegate, lungo l’erta petrosa del monte. Sfilammo davanti al maggiore: al suo fianco era Don Romanin, il cappellano: Ripamonti si fece dare l’assoluzione “ in articolo mortis”; io preferii raccomandare mentalmente la mia anima a Dio, per timor di impressionar troppo i ragazzi. “Non c’è bisogno “ dissi forte “tanto torneremo tutto col telaio intatto!”. Gli alpini mi sorrisero e dal loro sorriso capii che riversavano in me tutta la loro fiducia! Mi sentii tremare le gambe al pensiero di tale responsabilità: in quel momento avrei preferito esser donna, sciancato, paralitico, imboscato! Poi la vista di Toni e di Sparafucile che mi salutavano con la mano mi fece subito riprendere. Lentamente salimmo, i fucili mitragliatori imbracciati, pronti ad entrare in azione; l’erta era ripidissima, sentivo l’ansimare affannoso degli uomini che rampavano affaticati, lo stridere degli scarponi che mordevano la roccia aspra e friabile. Una sventagliata di mitraglia sibilò sulle nostre teste ed era come un soffio che mi gelasse il cuore; Degano mi avvertì che l’alpino Valsecchi era stato colpito alle gambe; lo mandai indietro accompagnato da qualcuno. Il sole era calato da un pezzo e le prime ombre della sera salivano dalla valle; sulla quota il fragore della battaglia andava diminuendo, vi arrivammo che era quasi buio: non vi era nessuno, sul costone opposto, qualche decina di metri più sotto giacevano molti cadaveri. Con Ripamonti disponemmo i plotoni a difensiva, in cerchio, sulla cima, ordinando due vedette ogni quattro uomini, una esterna, avanzata di trenta passi, l’altra sulla linea di schieramento; poi mi sdraiai sui sassi, vicino a Degano; ero stanchissimo, gli occhi mi bruciavano per il sonno eppure non riuscivo ad addormentarmi, guardavo il cielo palpitante di mille e mille stelle, nemmeno una sigaretta potevo accendere! Lontani ta-pum rintronavano nella valle. Poi il sonno mi velò gli occhi; sognavo di essere a Pegli, sdraiato sulla riva del mare, intento a osservare una barca a vela che scivolava sull’acqua. Ad un tratto la barca esplose. Mi svegliai di soprassalto senza riuscire a capire dove mi trovavo. Le vedette gridavano all’armi lanciando bombe a mano. Sparammo nel buio della notte, verso ombre vaganti sul terreno o nella nostra fantasia? Chissà. Con una pattuglia feci il giro della quota senza incontrare anima viva; solo qualche anima morta che giaceva riversa e non potei nemmeno distinguere, nella fitta oscurità se erano greci o alpini italiani; urtai con gli scarponi il corpo di uno di questi caduti, involontariamente, e mi sembrò di aver calpestato il loro sacrificio! Verso le quattro della mattina, sul crinale ad est della nostra posizione, a circa settecento metri, successe il finimondo. L’orizzonte era tutto una vampata, scoppi che si susseguivano ininterrottamente, rabbiose lunghe raffiche di mitragliatrici e, nei brevi intervalli, il crepitio dei fucili e sembrava che questo volesse dar nuova lena a quelle, che riprendevano il loro furioso rosario di colpi. La 44 del Morbegno era stata attaccata all’improvviso e si difendeva accanitamente. All’alba cercammo di collegarci coi reparti a fianco: accovacciato in un anfratto del terreno incontrai il sottotenente Molteni della 46; scriveva frettolosamente un biglietto; era la notizia della morte del tenente Brenna, caduto da eroe mentre guidava all’assalto la sua compagnia, era la notizia che i sottotenenti Galizioli e Cecchi erano gravemente feriti, che altre perdite aveva avuto la Compagnia nel breve giro di pochissime ore. Era incominciata la guerra, per noi, e in che maniera! Pensai al caro tenente Brenna, al suo sorriso semplice, al suo sguardo buono e leale che pioveva dall’alto della erculea statura; il suo corpo giaceva poco più sotto, crivellato di colpi, qualche alpino voleva andare a recuperarlo. Mentre ritornavo sulla quota, tra i miei uomini, vidi Zurla che saliva verso di me, accompagnato dall’attendente; ci stringemmo affettuosamente la mano, si rallegrò di vedermi intatto, poi mi comunicò l’ordine del capitano: rientrare con la massima urgenza. Seguito dal mio plotone mi rotolai lungo la costa rocciosa, quasi allo scoperto, Zurla dall’alto si accingeva a far sgomberare Ripamonti. Percorsi poche centinaia di metri e incontrai il capitano col resto della compagnia; mentre gli trasmettevo le notizie, udimmo, improvviso un baccano d’inferno sulla quota; i greci avevano attaccato Zurla e Ripamonti! Si difesero rabbiosamente i nostri tenendo in scacco il nemico poi li vedemmo scendere, manovrando lentamente ed infine raggiungerci. Un alpino era mancante: l’alpino Cimetti Domenico, fulminato da una pallottola in fronte mentre si batteva al fianco di Zurla. Trascorremmo una settimana su quelle aride cime, spazzate dal vento gelido dell’inverno sopravveniente e dalla mitraglia, acquattati negli anfratti del terreno, tra le rocce che volavano in mille schegge sotto il martellare continuo dei mortai nemici, giorno e notte, giorno e notte, senza riposo. Il nostro reggimento, si diceva, teneva testa a due divisioni greche, che erano di composizione ternaria! Il Btg. Morbegno specialmente era soggetto a continui assalti nemici! Di notte la quota 1828 era divampata, in un continuo tambureggiare di bombe a mano, in un incessante fragore di cannonate, in un esasperante crepitio di mitraglia; lo spettacolo, solo a vederlo, era terrificante! Sembrava di assistere all’eruzione di un vulcano. Ero, con Zurla in una posizione avanzata, con gli uomini acquattati sopra un roccione; ci videro subito e presero a martoriarci con i mortai, costringendoci a stare immobili per ore ed ore, a sparare “lungo” o “corto” il colpo che si abbatteva sulle rocce, preceduto da quel fruscio che alle volte faceva accapponare la pelle; Zurla era di buon umore e finimmo con l’abituarci a quei “festeggiamenti” come prendemmo a chiamarli! Poi il cielo si fece grigio, di quando in quando una spruzzata di pioggia ci infradiciava, avvolti nei teli di tenda la udivamo tintinnare sugli elmetti, inzuppava le nostre gallette, inumidiva il tabacco delle sigarette, faceva rabbrividire le vedette tormentate dal sonno e dalla stanchezza. Ci rendevamo sempre più conto che quella sarebbe stata una guerra lunga, difficile, piena di disagi e di pericoli, in una lotta a forze impari; le notizie invece sembravano confortanti: si parlava dell’arrivo di rinforzi, dell’armata Po che ci avrebbe aiutato a riconquistare il terreno perduto! Tutte balle! Ce ne accorgemmo il 22 novembre quando ci giunse l’ordine di ripiegare, di evacuare la città di Coritza. Attoniti accogliemmo la notizia. Ma non ci restava altro che rincuorarci e rincuorare gli uomini. Il 5° Alpini era di retroguardia alla divisione: il Tirano al reggimento, la 49 al battaglione; il mio plotone ricevette l’ordine di esserlo alla compagnia. A mezzogiorno il capitano Marchi radunò gli uomini ed iniziò la triste via del ripiegamento; io dovevo restare in posizione con i miei alpini fino alle ore 15, poi pistare e rientrare al più presto. Alle 14 notammo davanti a noi movimenti di uomini; erano greci, forse avevano intuito le nostre manovre e stavano preparandosi ad avanzare. Con i mitragliatori facemmo lunghe raffiche, a brevi intervalli, vedemmo gli “ometti” appiattirsi; ogni volta che si muovevano Degano li innaffiava con i nostri cacciafuochi. Io guardavo continuamente l’orologio, gli alpini guardavano continuamente me. Le 14 e 20, otto minuti, mi parvero otto ore! Alle 14,45 ordinai alle squadre di riunirsi al roccione che era il posto migliore sia per la difensiva che per l’inizio del ripiegamento! Le 14,55: Vigano mi avvertì che, cento metri alle nostre spalle, qualcuno avanzava verso di noi: riconobbi subito la sagoma dinoccolata di Valcanover. “Ho chiesto al capitano il permesso di venirti a fare compagnia, Lupacciot! Intanto i miei mitraglieri sono in ritirata e mi trovo disoccupato”!. Caro e vecchio Sparafucile! Lo volevo abbracciare, ma ci stringemmo la mano con forza; non mi accorsi nemmeno che le 15 erano ormai passate! Valcanover in testa, Degano ed io in coda, iniziammo la ritirata! Dopo 500 metri ci trovammo al coperto dentro ad un bosco di castagni camminando su di un tappeto di foglie secche che scricchiolava sotto i nostri passi. In fondo alla valle udimmo dei richiami lamentosi, scorgemmo due bersaglieri con le gambe insanguinate, se ne stavano presso un ruscello a lavarsi le ferite; non potevano più camminare. Li raccogliemmo: “ Tiente saldo, che ghe pensi mì!”. Vigano se ne caricò uno sulle spalle, l’altro lo prese il mio attendente che aveva la stazza di artigliere da montagna. Camminammo a lungo, lentamente, Caratti sbuffava e grondava sudore sotto la mole del bersaglierone ferito, ogni tanto si fermava, se lo aggiustava sulle spalle con un salto appena accennato e poi riprendeva; poi riprendeva; noi, tra armi, cassette, munizioni, zaini, non stavamo certo meglio! Sul limitare della piana di Cortina raggiungemmo la compagnia che si era fermata ad aspettarci: allora facemmo lavorare i portaferiti! Nella piana vi era una confusione indescrivibile: autocarri abbandonati, sussistenze saccheggiate, magazzini bruciati. La tristezza di una ritirata non è tanto al fronte quanto per quello che si vede nelle retrovie deserte e desolate! Gli alpini guardavano muti. Attraversammo la piana, poi la strada si inerpicò nuovamente sulla montagna, lungo ripidi sentieri: camminammo tutta notte nel buio più fitto, camminammo il giorno seguente e l’altro ancora, incominciavano a farsi sentire i primi veri morsi della fame; da un paio di settimane non avevamo mangiato che scatoletta e galletta e qualche genere di conforto, ora chissà se avremmo avuto almeno quelle! Ci eravamo avviati su montagne desolate quasi del tutto disabitate, chissà quanto avremmo dovuto marciare, chissà dove ci saremmo fermati, chissà se saremmo riusciti a resistere! Avanti, sempre avanti! Che poi era indietro, sempre indietro! Mulattiere viscide, sentieri dirupati, sotto le prime raffiche di vento invernale, con lo stomaco vuoto le membra intirizzite e una gran tristezza nel cuore! In una stretta valle, attraversammo un torrente impetuoso: nemmeno il tempo di cercare un passaggio comodo: via, dentro all’acqua fino al ginocchio! Qualcuno sbilanciato dal carico; vi cadde dentro fino al collo; ma si bagnò un po’ di più e un po’ più presto degli altri, che dal cielo plumbeo aveva cominciato a cadere una pioggia finissima, mista nevischio. Stanchi , affranti, affamati raggiungemmo, dopo un’impennata ripidissima, il villaggio di Protopape: desolazione e miseria. Non trovammo che erbe selvatiche e radici; Farinella mi offrì un pezzo di cane cucinato sulla bacchetta del fucile: la carne era amara come il fiele e durissima, sembrava cuoio intriso di petrolio! Nella valle apparvero le prime pattuglie greche; noi salimmo sul costone che sovrastava il villaggio ed attendemmo. Ma i greci non azzardavano a inerpicarsi sino a Protopape; il maggiore Loffredo fece sparare qualche colpo di mortaio poi riprendemmo a ritirarci. Il tempo era cupo, il freddo tagliente, alla pioggia era subentrata la neve che cadeva sfarfallando in grossi fiocchi, imbiancando il terreno; camminavamo soffermandoci ogni quando, riposandoci dove capitava, dormendo dove si poteva e quando si poteva; la marcia, il servizio di vedetta, quello di pattuglia, la guardia anti-gelo delle armi ci costringevano ad alternarci senza riposo, eppure gli Alpini compivano dei veri e propri miracoli di resistenza. Ci trovammo in breve nel centro dell’aspro sistema montuoso albanese; cime spazzate dal vento impetuoso che ululava sinistramente nei valloni aridi e desolati, macchie d’arbusti impietriti dal gelo, nere pietraie semiaffogate nella neve; unico nostro riparo: il telo tenda; unico nostro vitto: mezza razione di scatoletta e galletta al giorno, quando c’era! L’inverno come la guerra mieteva le sue vittime! Incominciarono i primi casi di congelamento; non sapevamo dove inoltrare i colpiti: si parlava di 4 gironi di marcia prima di arrivare alla prima sezione di sanità! Sopra al villaggio di Dushar quattro case disabitate e diroccate presso ad un roccione battute dal vento il capitano Marchi mi ordinò di prendere posizione. Dovevo proteggere un’azione d’attacco della 46 e, se comandato, intervenire in appoggio. Cadeva una neve durissima che picchiettava sugli elmetti facendoli risuonare come pentole; la 46 uscì allo scoperto, si dispose a ventaglio; dall’alto della mia posizione vidi gli uomini avanzare strisciando nella neve e nel fango; arrivarono vicinissimi alle case, i mitragliatori con raffiche violente e precise, incominciarono a cantare. Vedemmo i greci retrocedere, abbandonare Dushar; improvvisamente una lunga serie di colpi in partenza e poco dopo un’ondata di scoppi avvolse la compagnia! I mortai nemici erano intervenuti con efficacia e prendevano a martellare i poveri alpini. Questi furono costretti a desistere prima, o poi a ripiegare, arrivarono fin sotto al mio roccione; feci sparare lunghe raffiche di mitragliatore su un gruppetto di greci che aveva preso ad avanzare; si dileguarono subito, correndo indietro, verso le case. Arrivò la 46. Il tenente Melon, nuovo comandante, era lacero, infangato; come lui i suoi alpini, molti feriti! Il sottotenente Righi era sorretto dall’attendente; aveva la mano destra spappolata, le bende intrise di sangue che gocciolava arrossando la neve fradicia; si avviò lentamente in direzione di quelle che presumevano esser le nostre retrovie; chissà, povero Righi, quanto avrà ancora sofferto prima di arrivare ad un ospedaletto da campo! Da quel giorno ci scontrammo più volte col nemico; altre perdite, altri caduti; camminavamo sparecchiando, gli ultimi di noi contro i primi di loro; ci collegavamo ogni tanto con i battaglioni fratelli, l’Edolo ed il Morbegno, pur loro impegnati in una terribile, estenuante lotta contro gli uomini, contro la natura, contro la fame! Il reggimento era praticamente sperduto su quelle montagne, il colonnello cercava disperatamente di collegarsi con le retrovie, ma
ancora inutilmente. L’aviazione cercò di venirci in soccorso: un aereo lanciò qualche sacco di viveri: tre caddero sui greci, uno lo trovarono gli zappatori; masticammo tristemente le poche briciole fraternamente divise che non fecero che aumentare i morsi della fame! Poi venne una giornata di sole: la prima da che eravamo in terra albanese! La neve scintillava con bagliori accecanti, i greci avevano allentato la loro pressione. Dalle nostre posizioni osservavo le montagne ammantate di bianco, tutto attorno era silenzio; una coturna frusciò librandosi nell’azzurro; la seguii con lo sguardo; istintivamente, per un attimo, dimenticai il presente e corsi col pensiero alla mia casa lontana. Gli alpini, sdraiati sulla roccia, cantavano e nelle loro menti apparve la dolce visione dell’innamorata lontana, della famiglia, del focolare, della Valtellina ubertosa. Gli alpini cantavano e ricordavano, cantavano e dimenticavano, dimenticavano persino i pidocchi che non davan tregua! Scese la notte; le vedette rabbrividirono nel loro mantello gualcito e lacero, vigilarono attente, ricacciando il demone della nostalgia che, ora a cavalcioni di una stella, ora sulle ali del vento, ora avvolto in un raggio di luna, cercava di assalirle! Il mio plotone si era assottigliato a causa delle perdite, ma era sempre unito; Degano era instancabile e con lui i capi-squadra e gli alpini tutti. Le divise erano a brandelli, gli scarponi facevano acqua da mille buchi; avevamo una sola coperta e con questa ed il telo trascorrevamo le notti all’addiaccio, vicini l’un l’altro per riscaldarci; e quando il tepore incominciava a sciogliere le membra intorpidite, ecco il supplizio dei pidocchi che prendevano a muoversi e a morsicare. Ma la stanchezza aveva il sopravvento, e gli occhi si chiudevano in un sonno pesante, rotto soltanto dal richiamo delle vedette che sollecitavano il cambio. Indietro, sempre indietro; marciavamo lentamente nel fango, nella neve, sul ghiaccio; osservavo i miei ragazzi: barbe ispide che annerivano il volto, capelli irsuti, occhi infossati per la stanchezza che avvelenava il corpo, mani annerite dalla sporcizia, screpolate dal gelo; Essi mi guardavano con fiducia e dalla loro fiducia io traevo le forze per vincere quelle tremende fatiche che, in altre occasioni, forse mi avrebbero schiantato. Dalla loro semplicità io avevo imparato ad essere semplice, dalla loro franchezza ad essere franco. Si erano affezionati a me, i miei alpini, e lo manifestavano con semplici, commoventi atti: offrendomi il posto migliore in mezzo a loro, porgendomi la borraccia dell’acqua, prestandosi spontaneamente in tante piccole attenzioni. Io cercavo di tenerli allegri ed essi sorridevano bonariamente e forse dimenticavano per un istante la tragica situazione di quel momento. Il capitano Marchi aveva preso l’abitudine di mandar sempre il mio plotone nei posti più disagiati; al mio comando: “Secondo avanti!” i ragazzi mi seguivano mugugnando, bofonchiando, ma sempre prontamente, arrancando con fatica sugli aspri pendii, zompando nella neve, infilandosi tra gli sterpi, ognuno al suo posto dietro al proprio compagno che era anche il pais! Due squadre di valtellinesi e una di bergamaschi, Degano ed io genovesi: quando parlavamo il nostro dialetto ci guardavano meravigliati: “Par ingles, sicur tenent”! Ci attestammo su di un crinale sovrastante una ampia zona coperta di cespugli affogati nella neve ; in lontananza i greci avanzavano guardinghi, erano in molti e procedevano su numerose colonne ; scomparvero alle nostre viste infilandosi in una stretta valle. Io e De Nardo distribuimmo gli uomini lungo una linea di difesa, nascondendoli in mezzo agli arbusti ammantati di bianco, piazzammo i mitragliatori. Il cielo era plumbeo, prese a nevicare fitto. Restammo accovacciati nella neve rabbrividendo per il freddo intenso; il piccolo termometro infilato sul risvolto della giacca a vento segnava meno 20°. Ogni tanto qualcuno era costretto a massaggiarsi le mani strofinandole con neve. Poi a breve distanza appari il nemico; indirizzammo contro di esso i tiri delle nostre armi. Al principio si incepparono, il solito olio anticongelante che era congelato! Poi man mano si scaldarono ed i colpi sgranarono rapidi e secchi, con rumore metallico che si ripercuoteva nella rigida atmosfera. I greci si arrestarono sulle nostre teste, sibilando rabbiosamente. Li vedemmo aprirsi, tentare di circondarci. Ci ritirammo lentamente, con calma. Offredi sparava tranquillo, strisciando, come fosse stato al tiro a segno. Percorremmo gli ultimi metri di scoperto seguiti da un’interminabile raffica di mitraglia che fece zampillare la neve tutto intorno. Incontrai Zurla con una pattuglia, diretto verso di noi; anche il resto della compagnia era stato attaccato e si stava ritirando oltre il crinale; mi gridò di far presto. Ci mettemmo a correre; ansimavo ed il freddo mi entrava nella gola e mi gelava il cuore. D’improvviso cadde la notte; a poco a poco il fuoco della fuciliera si spense, si levò un forte vento, violenti raffiche ci investirono, la neve turbinava vertiginosamente attorno a noi, acuti spilli ci pungevano il volto, potevamo tener gli occhi aperti solo schermandoli con le mani. Non un riparo, non una roccia contro cui addossarci, nulla! Solo una bianca distesa di neve immersa nel buio impenetrabile, spazzata dalla tormenta che soffiava con violenza sempre maggiore. Ci stringemmo l’uno accanto all’altro, in un enorme amplesso, facendo a turno per star dentro al groviglio. Trascorsero le ore lente, interminabili! Ogni tanto, con Degano, uscivo dal gruppo per ispezionare i dintorni: nulla: i greci erano anche loro alle prese con la bufera ed avevano, come noi, un bel da fare a sbrigarsela! Ma non potevano resistere più a lungo senza rimaner assiderati! Ordinai agli uomini di seguirmi e presi a girare il costone; la Provvidenza ci fece incontrare, dopo pochi passi, una capanna semi sfondata, certo un vecchio rifugio di pastori da tempo abbandonato. Entrammo: la porta era sconquassata, l’interno ricoperto di neve che entrava sospinta dal vento attraverso innumerevoli fessure. Stendemmo dei teli per terra, due vedette alla porta incappucciate nei loro fradici stracci, nell’angolo un misero fuocherello riempì la capanna di un fumo denso ed acre che mozzava il respiro, che faceva lacrimare gli occhi. Al mattino mandai tre uomini in cerca del capitano; ritornarono con l’ordine di rimanere sul posto e di vigilare attentamente tutto attorno. La bufera non accennava a diminuire; le pareti di paglia della capanna si piegavano sotto l’infuriare del vento e sembrava ad ogni momento che dovessero venir spazzate via, tutto il giorno e tutta la notte rimanemmo uno vicino all’altro intirizziti, gli occhi gonfi di stanchezza, arrossati dal fumo, lo stomaco vuoto. Qualcuno intonò il santo Rosario; io uscii con una pattuglia. Avevo appena oltrepassato il limitare della capanna quando udii una vedetta gridare il “chi va la” cui fece eco un grido di aiuto. Ci precipitammo e vedemmo venirci incontro dei fantasmi bianchi, il primo di essi avanzava barcollando, lo sostenemmo, oltrepassò la porticina del rifugio e cadde pesantemente a terra. Era Toni Zurla, dietro a lui Giudicatti, e il caporale maggiore Cusini ed altri. Erano letteralmente ricoperti di neve e di ghiaccio, semi assiderati. Mormoravano parole incomprensibili, erano stremati. Sfilammo loro immediatamente scarponi e calze, facemmo delle rabbiose fregagioni con neve ai piedi che avevano il candore ed il gelo del marmo. A poco a poco la circolazione si riattivò. Toni si lamentava per i massaggi fin troppo ruvidi ma gli badavo; mi urlò di smetterla ma io ripresi con maggior lena e continuai finché non vidi la pelle colorata di rosa; solo allora mi arrestai! Era bagnato fradicio, arso di sete; bevve da una gavetta un po’ di acqua di neve sciolta al fuoco: non gli potevo offrire altro che quello, povero Toni! Chiese dei suoi alpini, chiamò Giudicatti, chiamò Cusini, volle sapere se Pelacchi e Lissidini erano arrivati; si ricordò di averli trascinati a lungo scendendo il costone del Varr ë Lamit; erano feriti e assiderati, se ne era attaccato uno al cinturone e lo aveva rimorchiato per un pezzo; poi non ricordava altro! Era salito, la sera innanzi, per collegarsi col Bgt. Edolo, in vetta al Varr ë Lamit; avevano attaccato ma erano stati messi in fuga; li aveva inseguiti, il Toni, insieme con la compagnia del ten. Pasini e li aveva visti fuggire a rotta di collo giù per le pendici nevose del monte; poi la tormenta li aveva sorpresi e solo con un sovrumano sforzo di volontà era riuscito a rintracciare la pista buona. Arrivò un esploratore con l’ordine di retrocedere; fuori la tormenta era quasi cessata, una fitta nebbia fasciava ogni cosa, un gelo umido ci agghiacciò le membra. Procedemmo affondando nella neve fresca fino a ginocchio; ogni passo era un supplizio, ma questo movimento ci riscaldava: mi accorsi che stavo sudando. Trovammo il capitano sotto lo spuntone di una roccia, fumava una sigaretta messa insieme con la polvere di tabacco ed un pezzetto di giornale. Attorno a lui parecchi congelati, i più ai piedi, qualcuno alle mani: Camozzini aveva un orecchio bluastro, quasi nero piccolo piccolo , e si lamentava per il fitto dolore che gli provocava. Non potevamo nemmeno inviarli indietro; anche loro, nelle loro misere condizioni, dovevano trascinarsi con noi, ancora per quanto, fino a dove? Venne nuovamente buio; accovacciati nella neve cercavamo di forare con lo sguardo la fitta oscurità che ci circondava. Con le gambe avvolte in un telo e le spalle coperte dalla mantellina, pensavo a quello che sarebbe stato di noi! La voce di Martinelli mi risvegliò dai miei pensieri: “Sicur tenent, amò Naja!“. Dovevo salire subito al Varr ë Lamit, in rinforzo al battaglione Edolo; all’alba avremmo attaccato: la 48 e la 49 dal basso, noi dall’alto. “Secondo plotone; armi in spalla!”. La mia voce riecheggiò crudele e penetrante nel gelo oscuro della notte; mi avviai zompando nella neve seguito dai miei uomini: la fame, il freddo, le fatiche, i congelamenti li avevano resi simili a spettri e come spettri si muovevano, mi seguivano fedelmente, inarcando la schiena nello sforzo dell’ascesa, sempre più rapida, sempre più faticosa. Il vento aveva spazzato le nubi e di quando in quando una luna gelida tagliava l’azzurro del cielo. Martinelli era una guida eccezionale! Aveva compiuto una sola volta quel percorso, nella tormenta, eppure tirava avanti sicuro, il mento affogato nel bavero della mantella che svolazzava schioccando come una frusta. Camminammo così non ricordo per quanto, finalmente ecco la vetta ed in vetta il ten. Col. Rivoir che ci aspettava impaziente. Mi strinse affettuosamente la mano invitandomi a sistemare gli uomini in un trincerone di neve, accanto ai suoi, in attesa dell’alba, ormai poco lontana. Eravamo stanchi, affamati, gli occhi bruciavano per il sonno che ci assaliva con prepotenza; ma il freddo intensissimo non ci permetteva di dormire e dovevamo continuamente massaggiarci le mani e battere i piedi per non congelare. Qualche alpino fece per appisolarsi; lo scossi bruscamente, quasi con malagrazia; cedere al sonno significava addormentarsi sì ma per sempre!

 

Tenente Tonino Lupi (46^ Compagnia - Fronte Greco Albanese - 2^Parte)

I minuti trascorrevano lenti come ore, le ore sembravano un’eternità! L’alba sorse gelida e bianca ad imbiancare il già candido paesaggio; con i sottotenenti Cavalletti e Casali mi avviai a riconoscere il terreno per l’azione imminente, stavamo su di uno spiazzo allo scoperto, davanti ad una postazione di mitragliatrici, la visibilità era pessima a causa della nebbia che saliva dalla valle. Sbinoccolammo a lungo cercando di fissare dei punti di riferimento e di ficcarceli bene in testa. Casali aveva del tabacco e con della carta “per via aerea” arrotolammo una sigaretta; le mani congelate rendevano l’operazione alquanto difficile, ma una sigaretta era pur sempre una sigaretta e finalmente, panciuta e storta, ce la ficcammo tra le labbra screpolate. Casali accese per primo, poi io mi curvai sul suo pugno semiaperto dove brillava la fiamma del cerino; dopo di me Cavalletti. Non aveva ancora assaporato la prima boccata che una secca scarica di mitraglia ruppe il silenzio: sibili acutissimi ci sfiorarono passandoci tra le gambe, a brevi passi da noi la neve si sollevò in piccoli zampilli. Udii un colpo sordo, come un colpo su di un tamburo: Cavalletti cadde riverso con un lamento! Lo trascinammo precipitosamente nella postazione; disse sorridendo: “Mi ha preso alla panza! Abbiamo acceso in tre!”. Un sudore freddo gli imperlava la fronte; soffriva molto, povero John, e capiva che non v’era più niente da fare. Altri colpi, altre grida: poi un rosario incessante di raffiche! I greci ci avevano prevenuto e ci stavano attaccando in forze. Li vedevamo avanzare pesantemente sulla neve; erano molti e gridavano a squarciagola, gesticolando e sparando. Io sono certo che era una brigata internazionale perché udimmo distintamente voci di varie lingue. L’accento francese di un omone che guidava un gruppo nemico l’ho ancora negli occhi! Inginocchiando nella postazione imbracciai il fucile mitragliatore; quel maledetto si inceppava continuamente; Degano e Vigano lo smontarono con mani febbrili. Il nemico era a poche decine di metri da noi, i miei alpini sparavano incessantemente, calmi e veloci. In brevissimo spazio cinque di essi caddero riversi, colpiti al petto! Il mitragliatore riprese a funzionare: Degano sgranava caricatori su caricatori sulla massa che avanzava investendola in pieno. Un’ennesima ventata di pallottole ci sibilò attorno; mentre rialzavo il capo per riprendere il fuoco vidi a pochi passi da me, ritto in piedi, calmo ed impassibili il ten. Col. Rivoir! Gli gridai di entrare nella buca, di ripararsi! Egli mi sorrise tranquillizzandomi con un cenno della mano e proseguì lungo la linea, sempre in piedi, sempre ritto, rincuorando ed esortando con le parole e con l’esempio i suoi alpini. Dopo pochi metri lo vidi accasciarsi, colpito in pieno petto! I greci avevano guadagnato terreno: un gruppo di essi era a pochissimi metri da noi, lanciammo le bombe a mano ma sulla neve abbondante e soffice quasi nessuna esplose. Concentrammo tutto il fuoco delle nostre armi su quel gruppo: ad uno ad uno caddero, un elmetto ruzzolò ai piedi della nostra piazzola. L’aria era satura di colpi, di grida, di lamenti dei feriti; l’ardore della battaglia era tale che nessuno si rendeva più conto di cosa poteva essere la paura! Un’altra ondata nemica arrivò di rincalzo alle prime; la situazione divenne insostenibile! La nostra linea era rotta in piparti e già i pochi superstiti dell’Edolo incominciarono ad abbandonare le posizioni, ritirandosi nel bosco sottostante. Il ten. Pasini mi urlò di ripiegare immediatamente. C’era un tratto da attraversare allo scoperto. Prima di giungere ai più vicini ripari tra gli alberi; ordinai il movimento ai miei uomini. I primi che partirono furono colpiti subito, ai primi loro passi, qualcuno riuscì a farcela. Eravamo rimasti io e Degano; gli ordinai di partire, non voleva lasciarmi, decidemmo di muovere assieme. Facemmo una lunga raffica, rabbiosa, poi un’altra ancora e via tutti e due. Degano era leggermente più avanti: ricorderò sempre il suo calzettone grigioverde sbrindellato, che danzava davanti ai miei occhi, scompariva nella neve, riaffiorava, scompariva nuovamente! Il cuore mi balzava in gola, ero affranto, sudato e gelato, la neve mi penetrava attraverso il colletto e mi stillava lungo la schiena facendomi rabbrividire; il nemico ci aveva preso di mira e ci scaraventava addosso raffiche interminabili di pallottole! Arrivammo finalmente nel bosco e ci precipitammo lungo la china, tra gli alberi. Mi girai indietro: il nemico aveva occupato la nostra posizione: vidi un folto gruppo di uomini che gesticolava, buttando in aria gli elmetti, urlando di gioia! Qualcosa mi prese alla gola: avrei voluto piangere ma non vi riuscivo e non volevo! Ripresi la corsa seguito dal fido Degano. Raggiungemmo un gruppetto di alpini: in mezzo a loro adagiato su di una barella, rantolava il ten. Col. Rivoir. Aiutammo a trasportare il ferito: la china era ripida e ad ogni momento inciampavamo, allora la barella si sbilanciava e trascinava nella caduta tutti i portatori. Mi chinai sul col. Rivoir: il suo volto era terreo, la borsa portacarte era ancora a tracolla, adagiata sul petto; la vidi alzarsi ed abbassarsi lentamente; respirava ancora! Degano gli disse: “Coraggio, signor colonnello!”. Un sorriso sbocciò su quelle labbra ceree e tosto si tramutò in una smorfia di dolore! Riprendemmo a scendere a precipizio, due e tre ad ogni sbarra, affondando nella neve alta, sorpassando feriti morenti che chiedevano aiuto. Ma non si poteva raccogliere tutti! Il Cappellano aveva una parola di conforto per quei poveri ragazzi che eravamo costretti ad abbandonare, una preghiera per quelli che giacevano ormai immobili avvolti nel gelo della morte. Il bosco diradò. Vi era un tratto scoperto e su questo i greci, dall’alto, battevano incessantemente con una mitragliatrice. Ci addossammo sul limitare della radura; ad uno ad uno tentammo di passare, in una corsa affannosa, qualcuno riuscì, qualcuno cadde. Poi fu la volta della barella: aspettammo la fine della scarica, il tempo di cambiare il nastro, raccogliemmo tutte le nostre forze e via! Qualche fucilata sibilò sulle nostre riprese ad urlare, avanti, un ultimo sforzo e ci trovammo al riparo! Non ne potevo più! La testa mi girava, le gambe mi tremavano. Chiesi il cambio ad un alpino dell’Edolo. La stanchezza mi aveva reso le membra di piombo. Mi ripresi. Giù ancora per una china,scivolando, cadendo, rialzandoci! Il colonnello sembrava morto, non respirava quasi più. Trovammo una pista battuta, la seguimmo ed arrivammo presso un roccione. Incontrammo il capitano Covi con una ventina di alpini, poi l’aiutante maggiore del reggimento; da questi ricevetti l’ordine di rientrare appena possibile al mio reparto. Radunai il mio plotone: c’erano Cola, Vigano, Bradanini, Gosti, Pozzi, Canalini e Sala; sette in tutto, otto con Degano. Degli altri notizie vaghe: chi era stato visto cadere, chi era stato ferito, chi congelato! Degano gridò: “Quarantanove, adunata!”. Trovai ancora Berbenni che non aveva mollato il suo mitragliatore. L’aiutante maggiore mi salutò paternamente, salutò i miei uomini, indicandoci la pista da seguire per arrivare al comando del Quinto; di lì chi avrebbero inoltrato alla nostra compagnia. Marciammo lenti, silenziosi. Unico rumore: la neve della pista battuta che scricchiolava sotto i nostri passi; le ombre della sera stavano salendo sulla montagna che aveva visto il sacrificio di tanti alpini! Arrivammo al comando del 5° che annottava; il colonnello Fassi mi ricevette in una tenda piccola e squallida, ascoltò attentamente la mia relazione, mi diede del latte condensato e delle pagnotte per i miei uomini, e mi ordinò di rientrare subito alla mia compagnia, subito, anche con l’oscurità della notte. Mi avviai seguito dagli alpini che sgranocchiavano il pane duro e gelato; l’oscurità era fitta, procedevamo lentissimi per la stanchezza; quel poco di pane e quella poltiglia di latte succhiato dalla scatola ci dettero ancora un po’ di vigore, al resto supplirono i nervi! Salivamo lentamente fra cespugli affogati nella neve e imperlati di ghiaccio, un leggero vento li faceva ondeggiare e tintinnare come fossero stati di cristallo. Camminando, riandavo col pensiero agli avvenimenti della giornata, pensavo ai miei ragazzi caduti, pensavo che dovevo presentarmi solo con otto uomini, dei trentasei affidatemi, rivedevo i greci urlanti sulla cima del Varr ë Lamit, le loro grida di vittoria, ogni grido un ferito, un caduto e le grida erano tante! In vetta vidi delle ombre che si muovevano. “Chi va là!”: “Quarantanove!”. “Avanti, quarantanove!”. La vedetta mi condusse dal capitano Marchi. Era sotto una tenda tenuta in piedi da una piccozza, bisognava strisciare nella neve per entrarvi. Dentro un buio pesto. Presi un mozzicone di candela che trovai nelle tasche. L’accesi. C’erano il capitano, il suo attendente, il ten. Zurla e il medico. Mi sdraiai sulle loro gambe: non v’era altro posto! Zurla brancolò nella semi oscurità cercando di abbracciarmi. Con le lacrime agli occhi mi annunziò la morte del povero Valcanover. Ascoltavo ed un nodo mi saliva alla gola e sentivo quasi un dolore fisico al cuore! Dalle testimonianze del caporal maggiore Pini, del caporale Cusini e di qualche altro alpino reduce da quel combattimento ho potuto ricostruire l’episodio. Alle sette e trenta del 15 Dicembre, mentre io mi trovavo sul Varr ë Lamit, i rimanenti plotoni della 49 comandati dai tenenti Zurla e Valcanover, rinforzati da uno della 48 comandato dal ten. Zipper, uscirono all’attacco sui fianchi del Varr ë Lamit. Gli uomini avanzavano affondando nella neve fresca, pesantemente, lentamente, incessantemente. La sorte era con loro e li proteggeva con una spessa coltre di nebbia, nascondendoli alla vista del nemico. Avanzavano gli alpini del Tirano, trattenendo il fiato, quand’ecco che la nebbia, spazzata da una ventata, incominciò a diradarsi. Si trovarono allo scoperto, ma avanzarono ancora con la speranza di riuscire a sorprendere il nemico che era ormai a poche decine di metri. Nel cielo che si schiariva l’ultima stella ammirava attonita il procedere di quei coraggiosi; ma un colpo di vento, più gelido, più crudele, tolse l’ultimo velo allo scenario: gli alpini, giunti in mezzo ad una valletta, si trovarono faccia a faccia coi greci che subito li investirono da ogni lato col fuoco delle mitragliatrici. La neve ribolliva tutto intorno e già s’arrossava, il ten. Bruno Valcanover, colpito in fronte da una pallottola, s’accasciò fulminato mentre dirigeva con indomito ardire l’azione dei suoi uomini: caddero altri alpini, mentre i superstiti con la neve ai fianchi, condotti dal ten. Zurla e dal ten. Zipper si battevano da leoni. Ovunque eran grida, lamenti, in un continuo urlio di mitraglia, tra sibili taglienti nella mattinata gelida. Essi tentarono disperatamente di far fronte a quella bufera di acciaio. Mentre Zipper si batteva da leone, Zurla osò l’impossibile per trascinare seco il corpo inerte dell’amico caduto. Con pochi valorosi si difese manovrando febbrilmente il piccolo “Brixia” fra le ginocchia, che vomitava granate su granate. Una sventagliata di mitraglia spezzò l’arma, lasciandolo miracolosamente illeso, con le mani strette ancora sulla manovella del congegno di scatto. L’incalzare del nemico si fece sempre più stringente; gli alpini erano quasi accerchiati, ma l’esempio meraviglioso dei due ufficiali servì loro da sprone e, sparando rabbiosamente e lanciando bombe a mano, riuscirono a svincolarsi ed a ripiegare sulle posizioni! Così l’eroico sacrificio del ten. Bruno Valcanover da Cavalese ed il coraggio dei sottotenenti Toni Zurla da Crema e Sigfrido Zipper da Catania servì ad arrestare il nemico sulle pendici della montagna maledetta! Nella tenda sballottata dal vento, Zurla si disperava per non essere riuscito a dar degna sepoltura all’amico; voleva uscir nella notte per andarlo a rintracciare. Era un’impresa impossibile perché i greci avevano occupato quella zona. Faticammo un poco per convincerlo a desistere, povero Toni, ed il sergente Bracchi fu costretto ad entrare anche lui nella tenda ed a trattenerlo a viva forza. Finalmente s’acquetò, povero Toni! Udivo il suo singhiozzo soffocato. Uscii dalla tenda con gli occhi umidi di lacrime! Fuori gli alpini giacevano sulla neve avvolti nei teli; parecchi erano congelati alle mani ed ai piedi! Era una notte terribile, nera e gelida! Il vento aveva ripreso a fischiare, folate di tormenta mozzavano il respiro; era cessata la battaglia contro gli uomini, riprendeva quella non meno aspra, non meno cruenta contro le forze della natura. Gli alpini si difendevano come potevano, ma potevano ben poco! Sui loro corpi intirizziti dal gelo, avvelenati dalla fatica s’ammassava la neve in un turbinio spettrale. Stretti l’uno all’altro in piccoli gruppi, pais con pais, attendevamo, con pazienza santa e con la meravigliosa resistenza del montanaro, che terminasse quella notte d’inferno! Albeggiò. Nel chiarore lattiginoso del primo mattino gli uomini si alzarono scotendosi la neve di dosso e sembrava che sorgessero da un sepolcro. Quella notte, dei superstiti, oltre il 40% restò congelato! Ci dirigemmo verso Cuka e Bonfies. Gli uomini camminavano come automi. Barbe ispide, incrostate di ghiaccio, volti lividi, occhiaie profonde, mani rattrappite sui fucili, bluastre, orecchie paonazze e tumefatte. Zaffate di cancrena putrida riempivano le narici lasciando in esse un odor dolciastro e nauseante. Marciavo in coda alla Compagnia; guardavo col cuore stretto i superstiti scendere barcollanti, qualcuno si voleva fermare, lo convinsi a camminare, a star unito ai compagni. Con Pasini dovetti usare modi bruschi: mi guardò come per dirmi : “Anche tu ti ci metti?”. Gli spiegai che per il suo bene, che se si fermava eravamo costretti a lasciarlo. Si fece forza e si alzò. Martinelli pistava avanti a me; il suo passo era sicuro, le forze non lo avevano tradito; un contrabbandiere, lui, abituato a queste vite! Abituato ad essere sorpreso dalla tormenta sulle cime, a trascinar la “ bricolla” magari con una pallottola in corpo come gli era già capitato! Si affiancò a me e mi disse: “Poer tenent Valcanover!” Ambedue ci soffermammo qualche istante, ci girammo a dare un ultimo saluto ai nostri caduti che dormivano là sulla montagna. Martinelli era sull’attenti! Riprese a nevicare fitto, tanto fitto che non si vedeva a due metri di distanza; risalimmo verso un ennesimo Cuka, folate di vento impetuoso turbinavano tutto intorno, sempre più taglienti, sempre più gelide. Sotto al passo la bufera urlava con mille frastuoni che rintronavano negli orecchi: appena ci si riusciva a capire, gridando a squarciagola, a mezzo metro di distanza! Avvolti nelle mantelline logore sbattute dal vento, procedevamo chini, quasi ad angolo retto, alle volte rimanevo col passo a mezz’aria senza poter riuscire a posare il piede per fare l’altro; più di un alpino venne gettato a terra dalla rabbia delle folate. Passammo sul colle strisciando per vincere l’ostacolo delle bufera, camminammo nella notte maledetta, reagendo con la stessa rabbia del vento finché questo non si placò in poco; in una valletta, stretta ed incassata trovammo un misero riparo. Finalmente degli alberi, finalmente della legna! Subito un fuoco, a costo di essere visti dai greci. Mi sedetti su di un sasso, vicino alla fiamma; vicino a me Zurla e Bracchi guardavamo fissamente la brace, senza parlare. Il calore era violento, i nostri volti arrossati; la spalle, invece, gelate. Ci rigirammo ogni quando per distribuire il calore a tutto il corpo: Col caldo i pidocchi incominciavano a muoversi: cacciai la mano sotto il maglione, così alla cieca, e ne afferrai uno. Lo misi su di un sasso, nella brace. Diventò bianco, sempre più bianco poi scoppiò. Bracchi disse: “Sono camerati anche loro!” . Una fame sorda, cronica mi attanagliava lo stomaco. Degano parlava di un camion di trenette al pesto e di un testo di farinata grande come Piazza De Ferrari! Il capitano Marchi mi chiamò a gran voce per riprendere la marcia. Mi alzai adagio: le ginocchia scricchiolavano, mi sembrava di avere le reni spezzate! “Povero telaio arrugginito!” pensai. Nuovamente in cammino, ancora buio, vento e freddo, ancora un susseguirsi di passi strascicati, in un silenzio fatto di tristezza rotto soltanto dai lamenti dei congelati. Finalmente delle voci, poi la figura del maggiore Loffredo ci scivolò accanto; udii dire: “Più della matà del mio battaglione se né andata!” e la sua voce era rotta dall’emozione. Guazzammo nella neve fangosa di un ripido sentiero, il vento riprese a soffiare, violento, rabbioso, martoriante. Sostammo ancora: gli alpini si strinsero, acquattandosi nella neve, l’uno accanto all’altro; mentre stavo sistemando le vedette, sentii un terribile gelo invadermi le membra, non potevo muovere le mani; provai a sfregarle sulla neve senza ottenere alcun risultato. Bracchi e Bessenghini se ne accorsero me le afferrarono e iniziarono a strofinarmele violentemente. La forza del massaggio era tale che sentivo la palle screpolarsi; le braccia dei due alpini sembravano quattro stantuffi: a poco a poco la destra prese a colorarsi di rosa; Bessenghini cadde in ginocchio affranto, Bacchi continuò ma la mano era sempre insensibile. Corsi in cerca del dottore, chiamandolo nella notte. Ad un tratto un secondo brivido gelato mi intorpidì tutto il corpo; cercai di reagire ma non riuscii. Vacillai e caddi. Mi risvegliai: una striscia di fuoco mi attraversava lo stomaco; dalle mie labbra si staccò una borraccia, in bocca sentivo un forte gusto di cognac. Intorno a me i volti di Zurla, del maggiore Loffredo, di Ossicino; un sonno pesante mi gravava sulle palpebre. Quante notti che non dormivo? Tre, cinque, dieci? Volevo dormire, solo dormire, anche in mezzo alla neve, ma dormire! Zurla mi schiaffeggiava: sentivo le sue mani calde sulle guance ispide: “Hai avuto un principio di assideramento! Coraggio! Ormai siamo collegati con le retrovie! Ti passerà presto!” MI sorressero, mi issarono su di un mulo incominciai a camminare, quel dondolio mi conciliava il sonno. Mi addormentai. Un sobbalzo mi risvegliò; vedevo le orecchie del mulo che oscillavano ritmicamente, il conducente mi avvolse una corda attorno alla mantella perché non svolazzasse e stessi più riparato. La mano sinistra mi doleva, i piedi erano trafitti da mille aghi; lentamente sfilai la calza che funzionava da guanto: la mano era gonfia fino al polso. Ero coricato sul mulo come un sacco di mangime, il fianco sinistro premeva continuamente contro il basto e mi procurava un acuto indolenzimento, ma non me ne curavo: stavo bene nel dormiveglia, col fiato riscaldavo un lembo di mantella, poi aderivo il lembo tiepido alla faccia. Incrociai un reparto che saliva: era il battaglione Mondovì; gli alpini avevano ancora il pitocco e gli scarponi gialli fiammanti, mi gettavano sguardi curiosi. Riconobbi il ten. Gerbolini, vecchio compagno di Bassano: volevo chiamarlo ma non riuscivo ad emettere alcun suono. Corsi col desiderio alla mia 49! Tentai di scendere, di ritornare fra i miei alpini. Il conducente mi sorresse in tempo per non lasciarmi cadere pesantemente. “Ferm, sciur tenent!”. Avevo le membra grevi, intorpidite, insonnolite. Lo strano era che ero lucidissimo di mente ma nello stesso tempo non mi riusciva di comandare il corpo. Il suono di una voce cupa e penetrate mi svegliò. Dov’ero? Quanto avevo dormito? Non so! Certo ero avvolto tra coperte calde: ne sentivo il tepore e tutto quel gelo che avevo dentro andava man mano sciogliendosi. La tenda dell’ospedaletto da campo, dove mi trovavo, si muoveva di quando in quando gonfiata dal vento. Un medico si chinò sopra di me, mi tolse le coperte, mi visitò; battevo i denti per il freddo ma l’altro non se ne dava per inteso. La mano sinistra mi doleva sempre, allentai il cinghietto dell’orologio che mi stringeva maledettamente, per il gonfiore. L’Ufficiale medico disse: “Te la sei cavata bene!” MI ordinò di tenere la mano in acqua tiepida e se ne andò. Gli gridai che avevo fame, fame, che volevo mangiare, che era quasi due mesi che non inghiottivo altro che saliva! Mi fece portare una gavetta di latte condensato, caldo bollente. Santo cielo che delizia! Girai gli occhi intorno; la tenda era piena di feriti e di congelati; parecchi stavano immobili, silenziosi, qualcuno si lamentava. Un sottotenente dei bersaglieri, con una gamba ingessata per una scheggia che gli aveva rotto il femore, lanciava ogni tanto delle urla: oltre al dolore della ferita soffriva per i pidocchi che si erano infilati nell’ingessatura e se li sentiva passeggiare sulla pelle senza potersi grattare! Verso sera mi caricarono su un’ambulanza e mi trasportarono a Tirana. Vi rimasi 5 giorni al termine dei quali la mia mano are tornata quasi normale; trascorsi quei giorni mangiando e dormendo, dormendo e mangiando; il vitto che riuscii a procurarmi in più, spendendo lek a profusione, mi ridonò le forze. In ospedale incontrai un genovese, il sergente alpino Cuneo, vecchio rivale nelle gare di sci di un tempo; anche lui congelato, e malamente, come mille e mille altri. La mattina del sesto giorno il maggiore medico mi disse che ero guarito ma che, essendo la vigilia di Natale, mi avrebbe dimesso il 26 dicembre. Esitai un poco, ma poi pensai che avrei per forza dovuto trascorrere quella solennità in qualche comando tappa, pungola strada del fronte. Tra i due mali scelsi il meno peggio e ringraziai il maggiore della sua proposta. Natale triste in ospedale: fuori nevicava fitto. Ricevemmo le solite visite dei soliti gerarchi più preoccupati di sembrare che di essere. Alla sera, con due bersaglieri, tagliai la corda –in barba a tutte le sentinelle ed a tutti i piantoni –ed all “Bella Venezia” mi rimpinzai di tagliatelle fino a scoppiare. Rientrando mi ficcai nella cappella dell’ospedale: fisso, in muta contemplazione davanti al presepe, sentii un’improvvisa, dolcissima pace scendermi nel cuore. La casa non mi sembrava più così lontana, mi sembrava d’aver vicino mia madre, tutta la mia famiglia. Un soffio d’aria violento e gelido mi fece cercare riparo: ed il mio sogno lentamente svanì. Rientrai in corsia ed a tentoni mi infilai nella brandina. Strinsi le cinghie di uno zaino nuovo fiammante; vi ficcai una coperta soffiata in magazzino ed un paio di calze ricevute in regalo il giorno di Natale. Donati mi aiutava, sfottendo, a fare i “rotolini”; qualcuno mi guardò come se fossi andato al patibolo. Salutai i compagni di ospedale. “ Buona fortuna alpino” mi gridavano i ricoverati mentre passavo innanzi a loro. Attraversai la città soffermandomi ad ogni vetrina; con gli ultimi lek feci qualche acquisto. Nella “ toilette” di un bar fumoso ed affollato lasciai la vecchia e sudicia biancheria puzzolente di disinfettante e mi infilai la pulita. L’interno era a posto, l’esterno era quello che era, rabberciato alla meglio da una ampia suora dell’ospedale. Al comando tappa mi fecero salire su di un camion; mi accovacciai tra due sacchi di farina ed attesi con pazienza il trascorrere delle ore: Filammo lisci sulla strada tutto il pomeriggio e la notte; ci fermavamo ogni tanto e poi via. A poco a poco la strada si riempì di buche; la macchina procedeva traballando su di uno strato fangoso che risaltava tristemente col resto del terreno ricoperto di neve; accanto il Devoli scorreva spumeggiando tra i sassi; a volte il fiume lambiva la strada ricoprendola di un sottile strato d’acqua dentro alla quale il camion entrava facendola schizzare lontana in mille spruzzi. Poi la valle si asperse e sui contorni di essa si profilarono, improvvise, le montagne. Più avanti incontrai le salmerie del Tirano dove appresi che il battaglione –avuto il cambio dal 1^ Alpini- era sceso a valle per ricostituirsi. Zaino in spalla, mi inerpicai, su per il sentiero, salivo di buon passo, poi accelerai ancora, poi mi misi a correre e finalmente capitai tra le tende dell 49 ed il capitano Marchi si rallegrò nel vedermi rientrare così presto. Cercai subito Zurla, non lo trovai; appresi che era stato colpito da violenti febbri intestinali ed aveva dovuto essere sgombrato di urgenza. Appresi che la compagnia aveva preso ancora delle brutte spazzolate: altri morti, altri feriti, altri congelati. Dei vecchi ufficiali partiti da Prato Stelvio era rimasto solo il capitano Marchi ed in condizioni molto precarie. Degli alpini solo 42 avevano resistito a quel martirio e fra essi i vecchi e cari Degano e Bracchi che riabbracciai con infinito piacere. I nuovi ufficiali mi accolsero con fraterno affetto. Fu allora che conobbi il ten. Lorenzo Nicola, da Torino: aveva uno sguardo buono e con Bini mi strinse la mano con calore. Del mio vecchio plotone: Degano, Pasini, Canclini, Offredi, Rota e Bradanini; gli altri tutti richiamati arrivati coi complementi la vigilia di Natale. Trascorremmo qualche giorno ad Annan, in un mare di fango, tra pioggia e neve che cadevano incessantemente. A poche decine di metri dalle nostre tende, sul costone opposto, sparava una batteria da 149; i colpi di partenza erano assordanti; il lucignolo, nell’interno della tenda, oscillava per lo spostamento d’aria. Arrivarono altri complementi, e poi armi e munizioni e corredo ed a poco a poco ci assestammo. Poi finalmente, la posta! Fui inondato di lettere, di cartoline, di biglietti. Chiuso in tenda leggevo e rileggevo quando un fruscio ruppe il silenzio fatto di incantesimo che mi avvolgeva; poi Carmelino, il furiere, mi si parò dinnanzi e, con uno sguardo interrogativo, mi mostrò la posta indirizzata ai caduti. “ Tienila” dissi “ Non respingerla per ora!” Mi sembrava disumano rimandarla ai mittenti: pensai che chi l’aveva scritta doveva avere almeno il conforto di sperare che quelle parole di affetto potessero essere arrivate almeno in tempo a consolare, ad essere lette! Carmelino aveva le lacrime agli occhi; uscì in silenzio, come era entrato; udii i suoi passi che spiaccicavano il fango mentre si allontanava. Improvviso giunse l’ordine di ritornare in linea; ce lo aspettavamo, anzi eravamo meravigliati come non fosse ancora arrivato! Demmo un addio al morbido giaciglio di foglie secche, alle nostre poche comodità, comodità che solo il soldato sa crearsi dal nulla. Salimmo lenti, il cammino era lungo, il sentiero ripido; Degano diceva che –a sentire “radio-scarpa”-il nuovo fronte sembrava relativamente tranquillo: vita da trincea, a quota 1400, ideale per le truppe alpine, dove il rancio sarebbe arrivato tutto i giorni caldo, dove avremmo avuto paletti e picchetti, filo spinato e gabbioni. Salivamo e speravamo: ogni passo che si faceva avanti era una fitta al cuore! Pozzi borbottò che andar a riposo era un male, perché poi ci si abitua e allora sono dolori. La pista si inerpicò tra boschi di larice chiazzati di neve; il sole e la fatica ci scaldavano le membra, il ronzio d’un aereo, altissimo, si ripercosse nel vallone, sordamente, monotono e insistente. “ Bella fadiga a far l’aviatur!” L’aereo scomparve tra le nuvole ed il silenzio della montagna era rotto solo – ogni quando – dal brontolio del cannone che annunciava che la linea non era lontana. Dopo un’ultima impennata del sentiero ci apparve il Fuska Pappalazit, una dorsale di roccioni snodatesi fino a lambire i fianchi di una alta montagna che ammantata di neve immacolata, sovrastava la zona: il Gur e Topit! La quota massima, la 2120, dominava le posizioni italiane e greche, non era in mano a nessuno. Presidiava quei costoni un reparto di camicie nere alle quali, in una notte di vento e di nevischio, demmo il cambio. La linea era in condizioni distorse: capisaldi appena accennati, armi allo scoperto, i camminamenti nemmeno a parlarne; quei poveri militi non avevano potuto fare di più data l’esigua forza schierata in troppo lungo tratto. I soliti battibecchi tra alpini e camicie nere, ma senza guasti; queste erano troppo contente di scendere a valle, anche a loro avevano passato brutti momenti, e rispondevano con frasi cameratesche, senza adombrarsi, ai frizzi dei miei uomini. Al momento del commiato vi furono anche parecchie strette di mano. Passammo il resto della notte con le vedette raddoppiate. Poi arrivarono i reticolati; di giorno scavavamo nella neve e nel terreno, di notte tutta la compagnia era fuori a piantar e a tirar filo spinato. Era un lavoro duro portare i gabbioni a spalla, scioglierli, stenderli, picconare, vangare, incessantemente. Tutti gli uomini erano mobilitati e lavoravamo sodo, pungendoci, graffiandoci, bestemmiandoci sopra e facendoci magari anche qualche risata. Dopo una settimana si comincia a vedere una certa organicità nella linea, con trincee solide, armi piazzate al coperto, camminamenti profondi attraverso i quali potevamo spostarci per lunghi tratti. Le lunghe corvées dei conducenti ci portavano ogni sera legname, paletti, tronchi d’albero, sacchetti, sci munizioni; costruimmo anche il comando di compagnia, un baracchino proprio sotto alla prima squadra mitraglieri, con la sua stufa e la brava canna fumaria fatta di scatola di carne, vuote, ben s’intende. Ogni giorno che passava era un passo avanti che si compiva nella sistemazione difensiva; i greci erano distanti un trecento metri e cominciavano a molestarci, quotidianamente, quasi a ore fisse, coi loro mortai. Appena sentivamo i colpi di partenza ci rintanavamo sotto le rocce ed aspettavamo: i proiettili arrivavano con un fruscio sempre più distinto sino a diventare un fischi che ritornava nelle nostre orecchie: le granate esplodevano qua e là a grappoli. Per fortuna il costone era stretto e queste, se lo scavalcavano, andavano a scoppiare qualche decina di metri distante da noi, sollevando fontane di neve e di fango. Riprendemmo subito famigliarità con questi concerti, l’orecchio era abituato e comprendevamo subito quando la pillola stava arrivando, se era lunga o corta; se, invece, era centrata, allora pancia a terra, giù il testone e speravamo nel buon Dio! Alla notte uscivamo con le pattuglie puntando verso Grabova, occupata dal nemico, e bisognava battere il terreno fuori dei reticolati, zompando nella neve alta, silenziosi ed attenti. Il Marchi si ammalò; era già sofferente e malandato ma poi saltò fuori una forte febbre intestinale che gli dava il capogiro e lo costringeva a star coricato nel suo baracchino. A sostituirlo arrivò il tenente Gianni Alessandria: dal battaglione Exilles, nel quale comandava una compagnia in Valle d’Arc, zona francese di occupazione; aveva chiesto di essere trasferito in zona di operazioni e, appena giunto in Albania, lo destinarono subito alla 49. Ci radunò per fare la nostra conoscenza e per farci salutare il capitano Marchi che scendeva a valle. Marchi mi strinse forte la mano e mi augurò buona fortuna; l’osservai scendere lungo la pista sorretto dai portaferiti e seguito dal suo attendente. Riprendemmo la nostra vita di trincea. Alessandria si dimostrò subito un ottimo superiore e camerata nello stesso tempo; era alla sua prima esperienza, in fatto di guerra, ma se la cavò subito egregiamente; instancabile nel controllare le postazioni, nell’ispezionare le vedette, nell’organizzare la vita di trincea. Ci familiarizzammo anche col servizio di pattuglia; certo che nelle notti di luna era un pasticcio, perché si vedeva, si era anche visti, e così bisognava andare cauti se si voleva arrivare fino al fondo valle. Uscii una sera con una pattuglia di volontari: eran tutti cucinieri, mensieri, portaferiti, persino il furiere; in un momento di slancio avevano aderito alla proposta di Bracchi. Uscimmo silenziosi dai reticolati; la neve era alta ma sfruttavamo in principio le piste della pattuglia dei giorni innanzi. La luna era coperta da un banco di nuvole che si rincorrevano nel cielo. Scendemmo cauti, soffermandoci di tanto in tanto dietro qualche arbusto; arrivati a fondo valle, avanzammo qualche decina di metri ancora: il buio era fitto, ma a breve distanza ci si poteva vedere a causa del candore della neve che si stendeva gelatinoso nella fredda notte di gennaio; eravamo vicinissimi a Grabova. Bracchi mi mormorò qualche cosa all’orecchio, gli chiesi se era matto ma poi annuii con entusiasmo e subito ci metteremmo ad ammucchiar neve. In breve il fantoccio fu terminato; la fretta ci impedì i lavori di rifinitura, comunque il suo bravo rametto sulla testa c’era e le parvenze di un alpino apparivano evidenti! Ritornammo sui nostri passi per un breve tratto, poi, spiegati, descrivendo un’ampia curva, riprendemmo la via del costone. Improvvisamente sentii un vociare sommesso, ma distinto, verso Grabova. Nello stesso tempo un colpo di vento fugò le nuvole ed una luna chiara e scintillante apparve nello squarcio del cielo trapunto di stelle, illuminando la valle. Ci gettammo bocconi nella neve togliendo la sicurezza alle armi ed aprendo con mossa istintiva i tascapani, pronti a dar di piglio alle bombe a mano. Ad una cinquantina di metri alcune ombre si addossavano ad una macchia di cespugli. Tutto ad un tratto si levò una sparatoria accanitissima che 0umentava sempre più: ai ta-pum iniziali facevano eco le armi automatiche. Una ventata di mitraglia passò sopra alle nostre teste sibilando nella fredda aria notturna. A metà costone delle ombre stavano avanzando ed allora anche noi aprimmo il fuoco; i miei uomini sparavano calmi, dai loro moschetti uscivano delle lunghe vampate; una pallottola si tuffò nella neve tra me e catelotti. Ci ritirammo a ridosso dei reticolati, poi mandai Gerna ai varchi raccomandandogli di urlar bene la parola d’ordine; sentii gridare “ Verona! Verona!” poi, finalmente dalle postazioni: “ Vincenzo” . rientrammo davanti alla piazzola di Pini; con lui c’erano anche Alessandria e Bini i quali, sapendo che la pattuglia era fuori, scorazzavano per tutta la linea raccomandando di sparare solo…..ai greci! L’inverno rincrudì; frequenti nevicate seppellirono le tende ed i ricoveri, bisognava continuamente spalar neve per tener libero l’accesso alle postazioni; il freddo era intenso ma per fortuna potevamo accender fuochi al coperto; il fumo ci asfissiava e ci faceva lacrimare gli occhi come fontanelle, ma almeno si sentiva un po’ di calore. Avevamo tutti gli occhi arrossati e parecchi alpini tra il fumo e il riverbero diurno della neve soffrivano di disturbi oftalmici. Nei casi più acuti diventavano addirittura ciechi per qualche ora. Il medico aveva il suo da fare e si difendeva egregiamente con una certa soluzione preparata in una gavetta; raccomandava solamente di non berla, il buon dottore Braghi, e riprendeva a scrivere le sue interminabili lettere che immancabilmente, tutte, incominciavano con il solito: Anna mia adorata! Una sera, mentre appena ero entrato sotto la tenda e cominciavo a scaldarmi sepolto da una montagna di coperte, il ten. Alessandria mi mandò a chiamare: la 46 aveva bisogno urgente di un ufficiale per sostituire il tenente Molteni, sceso all’ospedaletto per mal di denti acuto.

 

Tenente Tonino Lupi (46^ Compagnia - Fronte Greco Albanese - 3^Parte)

La 46 era alla nostra sinistra a poche centinaia di metri, e mi presentai al capitano Scaramellini; eravamo ancora nel baracchino del comando di compagnia quando udimmo degli spari e delle grida di “ All’armi!”. Ci precipitammo fuori: era una notte buia, la nebbia lattiginosa e gelida si stendeva su tutta la montagna, qualche bioccolo di neve sfarfallava nel cielo: più che vederlo,lo sentivo quando si posava sulle guance e sul naso gelato. Ritornò il silenzio, ma gli alpini erano nervosi; anch’io “ sentivo” che vicino ai reticolati doveva esserci qualcosa. Le vedette avanzate erano rientrate, tutti gli uomini erano in linea, le armi puntate, gli sguardi fissi in avanti, alle feritoie. Udii distintamente un fruscio nel rientrante del reticolato, a pochi metri dalla mia postazione: un alpino, vicino a me, non seppe trattenersi e lanciò una bomba a mano: successe il finimondo; l’intero fronte aperse il fuoco! Mitragliatori, mitragliatrici, fucili, bombe a mano iniziarono un baccano d’inferno. Dall’esterno dei reticolati partirono delle raffiche. Poi entrarono il sottotenente Ronconi mi gridò di aver udito distintamente lo squillo di una tromba, come se si suonasse la carica. Poco dopo anch’io udii delle note acute ed incalzante. Sparammo a fuochi incrociati, sparammo nel buio della notte, poi il capitano Scaramellini fece rallentare il fuoco. Il problema arduo era convincere gli uomini a non sparare più, ma poco a poco il silenzio ritornò, rotto solo di quando in quando dai sordi ta-pum di qualche vedetta lontana che cercava di farsi coraggio. Trascorremmo il resto delle notte in stato di allarme, coi rincalzi, pronti. Due giorni dopo Molteni ritornò, con qualche dente di meno; arrotolai nuovamente il sacco a pelo e rientrai alla mia 49: Alessandria per festeggiarmi tagliò il collo ad una bottiglia di cognac di gran marca. Un mattino davanti alla postazione del sergente Bordoni, vedemmo un cane lupo attraversare i reticolati, diretto verso di noi: al collare aveva una piccola borsa. Lo chiamammo fischiando; il cane si fermò ci guardò, fece per spiccare un ultimo veloce come un razzo, volando sulla neve. Mitta gli sparò una fucilata, niente, un’altra, nemmeno, era un bersaglio troppo difficile! Doveva essere un cane-porta-ordini dell’esercito greco, che aveva smarrito la strada. I greci cominciavano a fare i lavativi col cecchinaggio, specie poi alla postazione di Pini che era proprio per fessi: il caporal maggiore Visini incocciò addirittura mulo e conducente che scendevano da quota Cavallo, proprio davanti allo Skalles. Ci eravamo abituati ormai a quella vita: pattuglie di notte; di giorno, ad ore fisse, le solite annaffiature di mortaiate, qualche colpo di artiglieria, un po’ di cecchinaggio: quest’ultimo nostro malgrado. A mezzogiorno ci radunavamo alla mensa ufficiali nel baracchino di Alessandria; conversammo, cantavamo e stavamo allegri.prendevamo con filosofia la naja, la guerra, i greci, le pattuglie e le corvèes. Eravamo veramente affrattellati uno con l’altro. Nei momenti di mortale in ribasso, Nicola attaccava il suo cavallo di battaglia: Tornerà, tornerà, presto il sole Torneran le cicale a cantar, Torneranno a fiorire le viole E gli alpini nei prati a giocar! Tutto torna, le stelle, la luna, Torna il vento, rivien la fortuna, Tutto va, tutto viene il ben, Van le nuvole, torna il seren! La cantava con tale accoramento, con tale convincimento che era impossibile non lasciarsi trasportare, e l’allegria ritornava, rumorosa e preoccupante….. per Alessandria che, a malincuore ma spinto dal senso della responsabilità, ci cacciava via dal baracchino e ci ordinava di rientrare ai nostri plotoni. Un bel giorno rientrò Toni Zurla e fu trattenuto presso il comando di battaglione a disposizione; mi veniva a trovare tutti i giorni e con lui trascorrevo lunghe ore su e giù per i camminamenti. Povero Toni! Aveva sul volto, marcatissimi, i segni della violenta febbre che lo aveva smagrito! In linea cominciavano anche ad arrivare ispezioni; ora il Capo di Stato maggiore della divisione, ora qualche capitano dell’ufficio propaganda con le solite cianfrusaglie del mestiere. Finalmente –a coronamento di tutto quel viavai -arrivò anche il generale Santovito, il comandante della Tridentina. Zompava abbastanza svelto nel fango e nella neve, seguito da un piccolo gruppetto di ufficiali. La comitiva si appostò davanti ad una postazione del II plotone; il caporale Foppoli era di vedetta; il generale lo interrogò, gli chiese come si chiamava, cosa faceva da borghese e tante altre cose. Foppoli rispondeva, impalato sull’attenti. “ Saresti contento di ritornare in Italia?” “ Madona Signor!” “ Che strada faresti per ritornarvi?”. Foppoli con un gesto della mano, indicò le retrovie, accennò al Mar Ionio ed in un momento arrivò in Val Brembana. Il generale sembrava contrariato; Foppoli, dal canto suo ne era meravigliato. Un capitano biancovestito del seguito intervenne: “ La strada è questa” accennò alle linee greche “Inseguire il nemico conquistare Atene! Allora, poi, la via dell’Italia”. Foppoli lo guardò con due occhi furbi, poi scoppiò : “ Marca giò!”. Il generale rise e Foppoli fumò Africa per una settimana! Venne un’infilata di giornate nevose: la neve fresca cancellò le buche delle granate, gli aloni scuri dei colpi in arrivo: il paesaggio riprese il naturale il naturale candore immacolato, ci donò un certo senso di pace e di dolcezza. Ma per poco; altri colpi contaminarono la bianca coltre, altro sangue arrossò il nuovo biancore: un colpo di mortaio, stramaledettamente perfetto, infilò in pieno una postazione di mitragliatrice della 48, che era stata piazzata di rinforzo al plotone del sottotenente Moroni; un caporale e due alpini giacquero con le carni stracciate dalle grosse schegge. Quel pomeriggio lo passai tutto presso il fucile mitragliatore di Manzoni: ad ogni piccolo movimento annaffiavo il nemico di proiettili. Il primo a rimetterci le penne fu un greco che, uscito da un camminamento, si dirigeva verso un pagliaio. L’uomo era distante 300 metri ed il tratto allo scoperto era brevissimo; Manzoni gli avventò una raffica che sollevò ai suoi piedi una bianca nuvola di neve polverosa; l’altro si mise a correre, ma Manzoni era implacabile: una seconda sventagliata, ancor più vicina, poi il tempo di cambiar caricatore, di riprendere il tiro, di aggiustarlo; il greco era a terra, forse ferito, forse ansimava vedevo distintamente attraverso i binocoli: si curvò ripartì: Fuoco! Ancora! Stramazzò vicino al pagliaio. Il mitragliatore taque. Dalla canna a tromboncino uscì un sottile filo di fumo: l’eco ripeté gli ultimi colpi della raffica e quel triste suono si ripercosse lugubremente nella valle! Il greco giaceva a terra, ma si muoveva. “ Basta, Santo Iddio! Speriamo di averlo ferito!” gridai. Quando ritornai, dopo qualche ora, Manzoni mi disse di averlo visto strisciare dietro al pagliaio: “ G’ho minga sparà, sciur Tenent! Se quel maligno l’va in licenza de cunvalescenza, l’ha da dir grazie al vecio!”. Arrivò l’ordine di costruire, in seno al battaglione, un plotone di arditi. Della 49 se ne andarono Degano, Cusini, Offredi, Villa, Pozzi e Pasiini; mi stupii di quest’ultimo non eccessivamente noto per il suo coraggioi! Pasini mi spiegò “ Il dis che i dan doppia raziù de touc e mi preferissi murir cun la pancia piena!”. Il plotone arditi si sistemò al roccione del comando di battaglione, a pochi metri dalla linea. Degano mi veniva spesso a trovare e ci scambiavamo le notizie che ricevevamo dalla nostra Genova. Eravamo gli unici due genovesi del “ Tirano” e quando parlavamo il diletto gli alpini ci guardavano meravigliati perché non capivano nulla o quasi di quello che dicevamo. Davanti ad un esile fuoco stridente e scoppiettante sedevamo accovacciati, in silenzio; gli occhi lacrimavano per il fumo che, non potendo trovare sfogo naturale a causa della copertura necessaria a non svelare il bagliore della fiamma, invadeva il ristretto spazio avvolgendoci nella sua acre carezza; sulla parte ghiacciata del camminamento le nostre ombre si stagliavano immobili; assumendo figure strane e fantastiche: la testa di Giudicatti appariva enorme, il mio collo sottile, il naso di Canalini esagerato. Allungai la mano e, nell’ombra, le mie dita sfiorarono la barba di Bracchi, si perdettero allungandosi smisuratamente sul telo. I rami, umidi, ardendo, stridevano e fischiavano, dalle estremità uscivano bollicine schiumose che dapprima resistevano, poi, friggendo, cadevano alla fiamma dissolvendosi in una densa colonnina di fumo. Corpi immobili, chini ad assorbire il calore del fuoco, mani crepate dall’arsura protese su di esso, quasi ad accarezzarlo, capelli irsuti, ruvidi come la stoppa, barbe ispide illuminate dalla fiamma. Fumo ed odore acre grasso, di olio di mitragliatrice, odor di terra fradicia; se v’era il fumo, v’era il caldo, se non v’era, il freddo attanagliava le membra, penetrava nelle ossa, faceva rabbrividire. Stanchezza, freddo e fame: ecco i più crudeli nemici del soldato al fronte! Poi vengono la sporcizia, i pidocchi e la nostalgia della casa lontana. Stemmo immobili in silenzio non so quanto tempo. Il fumo prendeva alla gola, tossivo, gli occhi bruciavano maledettamente; un velo di lacrime mi annebbiò la vista. Non resistetti più e uscii allo scoperto. L’aria gelida mi investì, il fiato si condensò, dalla bocca usciva fumo come se avessi avuto una sigaretta fra le labbra. Il cielo era trapunto da un’infinità di stelle, le montagne spiccavano candide nell’oscurità della notte avvolte dall’argenteo mantello della luna. Ho imparato molte cose dagli alpini: cose a cui non avevo mai pensato: accendere un fuoco: fiutar l’acqua, saper vedere a distanza, ho imparato a conoscere le fasi della luna; finché la luna non sorge l’oscurità è fonda; quando appare si incomincia a vedere a buona distanza ed allora lo sguardo delle vedette è più spaziato, l’attenzione è meno spasmodica. Salii alla postazione della quarta squadra: c’era Locatelli, con le gambe avvolte in una coperta e sembrava avesse una sottana. “ Che ura l’è, sciur tenent?”. “Sono le dieci, quando smonti?!” “Fra mezz’ora! Fa frecc, sciur Tenent!”. Mi chinai ad accendere una sigaretta; gliela passai accesa. Tirava delle boccate che non finivano più tenendola coperta con la mano protetta dal guanto sgualcito. “Novità?” “Nessuna!”. “La ricordi la parola d’ordine?”. “Signorsì: Olga”. “E la controparola?”. “Taranto!”. “No! È Otranto!”. “De bù! L’ho ben dicc” Era un pò difficile far capire che Taranto non era Otranto, ma Locatelli era in gamba lo stesso e poi mi sembrava di avvilirlo dimostrandogli che Otranto e Taranto, pur essendo vicine, non erano la stessa cosa. Gli detti una manata sulla spalla! Lo udii ripetere, mentre mi allontanavo zigzagando per il camminamento: “Otranto! Otranto! Madona Signur!”. Gli arditi dovevano effettuare un colpo di mano uscendo nella notte per catturare armi e prigionieri a quota 1429, a brevissima distanza da noi. I pezzi da 149 dovevano proteggere il loro ripiegamento. In trincea ci fu il solito andirivieni di ufficiali di artiglieria e dei comandi per i soliti rilevamenti. Qualcuno faceva anche l’eroe dei cinque minuti sporgendosi petto in fuori ed uscendo addirittura verso i reticolati. Con Bini e Maroni acchiappammo per il colletto un sottotenentino e gli facemmo osservare che tutte quelle bravate non avevano altro risultato che attirare sulle nostre zucche i colpi di mortaio, una volta che lui se ne sarebbe andato. Si scusò mortificato e riprese a sbinoccolare attraverso le feritoie della Breda. Sembra impossibile! Chi non è abituato a stare in prima linea e vi arriva solo per rimanervi pochi minuti, si sente il dovere di dimostrare che lui non “fifa”; deve compiere in breve spazio tutti quei gesti che lo convinceranno in seguito di aver meritato gagliardamente la decorazione strappata mediante i buoni uffici di qualche compiacente superiore più imboscato di lui. Tutto questo naturalmente finchè non sente miagolare vicinissima una pallottola o ronzare nei pressi una mortaiata. Allora si appiattisce e tutta quelle baldanza si dissolve per incanto ed appena può se la batte con grande sollievo suo e di chi resta. Solo chi resta ha il sacrosanto diritto di aver paura! Il colpo di mano fu fissato per la notte sul 3 febbraio. Ordinai a Caratti di svegliarmi alle due. Alla 1,45-era forse mezz’ora che dormivo-un portaordini mandatomi da Alessandria mi annunziò che l’azione era stata rimandata all’indomani. Lo strano fu che stavo sognando proprio la stessa cosa! Accolsi perciò la notizia come fosse stata la conclusione logica di quel sogno. E dormii come un angioletto! La giornata trascorse tranquilla, qualche colpo di mortaio sballatissimo. Grosse nuvole erravano nel cielo. Mi coricai, cercai di ripetere tutti i movimenti della sera prima, sperando di risognare il contrordine ed ancor più sperando di ricecerlo nella realtà. Non sognai un bel niente! Alle due la voce di Caratti mi svegliò : “Sciur tenent! L’è l’ura!”. Innsonnolito e intirizzito sbucai fuori dalla mia tana; in breve tempo tutti gli uomini furono in piedi. Aspettammo. Gli arditi uscirono dalle postazioni della 46; lo disse Bracchi passando lungo tutta la linea. Trascorsero i minuti, lenti, interminabili; dieci, venti, mezz’ora. Tutto era silenzio ed oscurità; nessuna parlava, nessuno si muoveva. Parlare o muoversi significava tradire i compagni impegnati in quella difficilissima azione. Il freddo mi penetrava nelle ossa, sentivo il tic-tac dell’orologio da polso. Quanto tempo passò? Improvvisamente, una vampata, in direzione di quota 1429, poi lo scoppio di una bomba a mano, poi cinque, venti,e cento colpi di fucile e raffiche di mitraglia. Ritornò per qualche attimo il silenzio, poi il rosario interminabile di una mitragliatrice che sgranava caricatori su caricatori. Infine un razzo solcò il buio della notte. Era il segnale che gli arditi si erano sganciati dal nemico, che si stavano ritirando e che dovevano esser protetti. Pochi istanti dopo ecco la prima salva dei colpi in partenza; i proiettili passarono a pochi centimetri dalle nostre teste, appena il necessario per screstare. Il loro poderoso miagolio ci ritornò nelle orecchie; poi i colpi in arrivo, assordanti, terrificanti. I 149 sparavano da Ann, la loro traiettoria era di circa 12 chilometri, il tiro era perfetto; nessun colpo cascò al di qua delle nostre postazioni; tutti screstarono esplodendo nella valle di Grabova e sulle pendici di quota 1429. i greci risposero a mortaiate; per capirsi bisognava urlare in mezzo a quel frastuono! Alle feritoie, nelle piazzuole, nei camminamenti gli alpini attendevano curvi, immobili. Parecchi colpi arrivarono a pochi metri dai reticolati, volarono fango, neve, roccia, pietre; per fortuna nessun ferito, solo qualche graffiatura e infine inzaccherate: Papis sputacchiò asciugandosi la faccia sporca di fanghiglia. Bracchi ripassò di corsa la notizia che gli arditi erano rientrati con armi e prigionieri, mi disse che avevano visto il ten. Cicchelli, Residori, Degano, Muffatti, Cusini trascinare nelle nostre linee alcuni greci ancora esterefatti, mi disse che, arrivati nei camminamenti, aveva visto Cicchelli e Degano stendere la mano, amichevolmente, ad un sottufficiale degli “euzones”. A poco a poco le artiglierie rallentarono il loro ritmo; ritornò la calma rotta solo dai soliti ta-pum che si ripercuotevano lugubremente nella notte. Ritirai gli uomini lasciando vedette rinforzate; mi distesi nel mio buco; Caratti mi aveva organizzato un caffè caldo e prima di sdraiarmi intinsi pane nel gavettone che mi scaldava le ginocchia gelate! Noi ci aspettavamo continuamente che i greci ci restituissero il colpo di mano fatto dai nostri arditi, ed aumentammo naturalmente la vigilanza, specie di notte, rafforzammo maggiormente la difensiva. Le nostre vedette dal canto loro aumentarono la fifa ed almeno una volta ogni notte lanciavano l’allarme e bisognava correre alle posizioni col cuore in gola. Per la verità, i greci stavano di certo preparando qualche cosa: vedevamo aumentare d’intensità le loro corvèes, che dalle quote Cavallo e Cane scendevano su Grabova: puntolini neri viste; erano molto distanti ed il tiro delle armi non poteva arrivare efficace fin là; ci accontentammo di tenerli sotto il fuoco......dei binoccoli. Anche i colpi di mortaio arrivavano più frequenti, un pò ad ogni momento della giornata: il ten. Pezzarossa rispondeva sistematicamente coi suoi pezzi da 81 ed eseguiva degli splendidi tiri. Con Maroni, Bini e Nicola, dall’alto delle nostre postazioni, seguivamo quelle sparate e ci congratulavamo col vacchio Pez! Lui, professore in belle lettere, alle prese con le tavole di tiro! Ma dimostrava che con poca teoria e molta pratica si potevano fare cose veramente eccellenti. Aveva tutto un sistema di traguardi e di paline dove ci capivano solo lui ed i suoi alpini. Più sopra c’era anche Tognù coi mortai dell’Edolo; egli pure usava con successo questo sistema: per lui non esistevano angoli di tiro, misurazioni, gradi, decimi, calcoli;diceva che bisognava farci l’occhio, che era come giocare a bocce e che coi suoi puntatori si sentiva di prendere un biglietto da cinquecento lire a due chilometri di distanza! Riprese a nevicare, ricomparve il vento che rese ancor più gelido il già freddo clima. Scendemmo a parecchi gradi sotto zero; il servizio di vedetta divenne faticoso anche di giorno. Ma nel baracchino di Alessandria si stava bene e quando andavamo a visitarlo non ce ne volevamo più andar via. Maroni si attaccava alla stufetta, Nicola ed io nell’angolino del telefono, Bini sul giaciglio di Alessandria, Fermi e Alex sul panchetto, vicino al finestrino. Il baracchino era piccolissimo ed in pochi minuti, col fumo della stufa e quello delle sigarette, restavamo avvolti in una nuvola grigia ed a mala pena riuscivamo a vederci l’un con l’altro! Poi Fermi – che non sapeva fumare – si metteva a tossire e scappava fuori preferendo il freddo a quell’inferno che gli faceva lacrimare gli occhi. Noi allora lo guardavamo con commiserazione e finché il buon Alex non ci buttava fuori restavamo a cantare, a ridere, a scherzare. Tanto per tenerci su il morale! Un arrivo in grande stile di pacchi ci fece radunare per festeggiare insieme la solennità; facemmo fuori tutto, subito, e sembravamo tanti bambini a Natale; distribuimmo a piene mani agli alpini. Poi ancora pacchi del fronte interno, pacchi confezionati da quelle pietose signore dei comitati che riempiono le calze di scaldaranci che non bruciano, che sferruzzano certe paia di mutande multicolori, pesantissime, enormi che si possono infilare alla condizione di rinunciare ai pantaloni, che si preoccupano di aggiungere l’immancabile libricino sulla vita dei santi o dei martiri il quale_ pur essendo un pregevolissimo trattato religioso-letterario _ non è affatto indicato alla lettura da parte di chi è già santificato per la paziente, modesta obbedienza a certi ordini superiori spaventosamente insulsi, da parte di chi viene quotidianamente martirizzato dal freddo, dal vento, dalla tormenta, dal sonno, dai pidocchi, dalla paura, che a volte assale prepotente, di non dover più portare a casa il telaio! E i pacchi del fascio! Quelli poi erano capolavori! Qualche indumento di cotone, delle pezze da piedi generalmente in numero dispari, tre fogli di carta da lettera, ed al centro_ quasi fosse il sacraio o l’incantesimo_ il ritratto del Duce, in rotocalco, a colori, col rosso delle labbra spostato_ dal maldestro camerata-tipografo_ sotto il naso e le frasi piene di volitivo, virile incitamento, unite agli auguri di questo o quel federale il quale aveva preferito servire la Patria facendo la guardia ad un bidone di benzina! Il maggiore Loffredo mi mandò a chiamare; mi disse che dovevo scendere ad Ann a ritirare delle nuove armi. “Così potrai fare un bagno e spidocchiarti”. Partii coi muli della spesa viveri. Ad Irmati proseguii da solo saltabeccando lungo il sentiero che, man mano che discendeva, diveneva sempre più fangoso. Pistai ore ed ore nell’umido del sottobosco, incrociando colonne di salmerie cariche di munizioni. I muli, in certi punti, affondavano nalla melma fino alla pancia; così impegolati non riuscivano più a muoversi e allora i conducenti dovevano scaricarli e frustarli navigando anche loro nel fango. Un caporale ci lasciò dentro uno scarpone e dovette procedere col piede scalzo. Arrivai in fondo alla discesa che era già buio; pestando fango appiccicoso e guazzando nella neve fradicia, attraversai un accampamento di salmerie, in cerca del Comando PAM della divisione. Vagolai nella notte oscura inciampando e bestemmiando finchè non incontrai una sentinella che mi gridò il chi va là! Il capo posto mi condusse da un tenente colonnello; costui affiorò la zucca pelata dal saccopelo e mi disse di presentarmi l’indomani mattina. Gli chiesi se avessi dovuto rimanere lì ad aspettarlo fino all’indomani e gli feci presente che dovevo ancora mangiare. L’uomo capì l’antifona e diede ordine di chiamare l’ufficiale di servizio. Io credevo di mangiare alla mensa! Mi trovai invece dentro al cappello del formaggio, una lista di marmellata ed una pagnotta che mi riempiva il grembo di briciole. E poi un giaciglio nel magazzino del casermaggio in mezzo a cento e cento coperte. Ma mi potei spogliare completamente e mi addormentai senza dovermi grattare! La mattina dopo mi consegnarono: 4 fucili mitragliatori, un mortaio Brixia, un mulo per caricarveli e un conducente per condurre il mulo. Ebbi appena il tempo di lavarmi le meni nella benzina, e consumare un pezzo di sapone per i lavacri e via di nuovo in mezzo al fango, verso il sentiero del bosco mentre in cielo “Vorrei volare” volteggiava facendo telare parecchi baldi difensori delle retrovie. “Vorrei volare” era uno scassatissimo aereo greco che quasi ogni giorno attraversava le nostre linee e scendeva planando nel vallone di Ann. Quando screstava sul Pappalazit, alle volte, era così basso che riuscivamo a vedere chiaramente il pilota e l’osservatore;gli avevamo sparato coi fucili un sacco di volte ma non gli avevamo mai fatto niente. Ad Ann gli tiravano con le mitragliere da venti ma furbo arrivava sempre di sorpresa, planando, col motore al minimo, cosicchè quando se ne accorgevano, lui aveva fotografato e pistava via. Una volta aveva anche sganciato accoppando qualche mulo e v’era chi giurava di aver visto l’osservatore lasciar cadere con le sue mani le bombe di piccolo calibro! Quando dalle retrovie si ritorna in linea si provano dei sentimenti strani. Si vuole rientrare e nello stesso tempo si invidia quelli che scendono, anche i feriti! Si allunga il passo per far presto, poi qualsiasi motivo per fermarsi è buono. Si considera imboscato il soldato delle retrovie che esce dalla tenda con l’asciugamano al collo e si pensa:” Beato te!”. E il primo colpo di artiglieria riempie l’animo di turbamento, sembra di non poterne nemmeno sopportare il rumore. Man mano che ci si avvicina il cuore batte più forte; poi quando si incontra la prima tenda del battaglione tutto scompare per incanto e quasi ci si vergogna di aver covato simili sentimenti. E si conclude che lasciare la linea per poi subito tornarci non è cosa che valga la pena! Al comando del Tirano, mentre scaricavo le armi, una mano mi battè sulle spalle:” Menerello!”. Erano i Toni e i Barbieri, spaventosamente barbuti, che mi invitarono nella loro tana a far fuori un gavettino di cognac. Dalle retrovie io non portavo che stanchezza e le solite notizie che era meglio non riferire subito, talmente erano sconfortanti! Nella mia buca, affogata nella neve, dormivo un sonno inquieto. Ad un tratto ebbi un sussulto. Nella tenue luce dell’alba intravidi Caratti che origliava all’apertura del telo. Un rombo incessante si ripercuoteva sinistramente sulle montagne. Sul Gur e Topit cadevano senza posa, ininterrottamente, colpi su colpi. Mortai, artiglierie di piccolo e medio calibro vomitavano tutto il loro fuoco sulla vetta e sui fianchi del monte. Il bianco manto a poco a poco si scurì. I greci attaccavano per impadronirsi della cima su cui erano saliti da pochi giorni gli sciatori del Val Leogra. Scoppi, esplosioni squarciavano la montagna, lacerando il silenzio mattutino; sventagliate di mitraglia ci dicevano che il combattimento stava ravvicinandosi. Assistemmo dalle nostre linee, in lontananza allo svolgersi degli avvenimenti. La 48 partì in fretta e furia in rincalzo al Val Leogra. Restammo immobili, ore e ore. Fino a sera il Gur e Topit fu avvolto da quell’uragano di ferro e fuoco. Con la notte ritornò il silenzio ma per poco. Il combattimento si riaccese più rabbioso che mai e durò fino al mattino del giorno seguente. I greci attaccavano in forze ed insistevano profondendovi tutti i loro mezzi ; gli alpini di Val Leogra e del Vestone si difendevano accanitamente. Nicola mi disse :” Gur e Topit significa “Cima delle pecore!”. E pensare che lassù si battono da leoni”. Quelle vetta divenne il nostro incubo; il nemico so ostinava su quella montagna con una cocciutaggine sbalorditiva; era divenuta oramai una posizione_chiave; dall’alto si dominavano le due vallate e quasi tutta l’Albania: a S.O. la vallata del Tomorreza fino ad Elbassan ed oltre, a N.E. i costoni degradanti fino al lago di Okrida; tutto intorno le vette circostanti la pianura lontana. Dopo attacchi su attacchi, i greci si impadronirono di quota 2120, la più alta. Il battaglione Tirano venne tolto dalla linea; ci fecero salire verso il bosco sottostante alla 2110. l’anticima del Gur e Topit. Al nostro posto si distesero una compagnia del Val Leogra e la 54 del Verona. Raccogliemmo le nostre robe e salimmo lenti e silenziosi verso le nuove posizioni dove ci accampammo sopra al comando del reggimento, con i compiti di rincalzo. Per quindici giorni vi rimanemmo; per quindici giorni non facemmo che trasportare gabbioni, reticolati, munizioni dal comando di reggimento, al battaglione Morbegno. Il tempo si rimise al brutto; nevicava incessantemente, gli alpini lavoravano come muli sotto le raffiche di neve, avevano una resistenza meravigliosa. Cornali si portava sulle spalle un gabbione ed una cassetta di cartucce, saranno stati cinquanta chili e le spine del gabbione erano maledettamente aguzze! Alla sera ci coricavamo stanchi morti e fradici e ci addormentavamo all’istante senza nemmeno sentire i pidocchi che -col caldo- facevano le solite esercitazioni sul ventre e sotto le ascelle. I greci avevano installato dei 105 e tiravano ogni giorno incessantemente; pilloloni arrivavano nel bosco ed eran ancor più pericolosi perchè –urtando tra i rami- esplodevano in alto e diventavano veri e propri shrapnels. Uno arrivò proprio sul comando di battaglione e fece un macello fra gli arditi. Tra i feriti ci furono, purtroppo, anche il ten. Cicchelli, molto gravemente, e Degano il quale ebbe una scapola spaccata da una scheggia che gli rimase conficcata internamente. Appresi la notizia con vero dolore e corsi per visitarlo, ma quando arrivai al comando battaglione lo avevano già trasportato all’ospedaletto perchè le sue condizioni erano assai gravi. Ora Degano se l’è cavata, perchè è una pelle dura, ma vive con un piccolo frammento di scheggia nel cuore. Dice che la tiene come “un caro ricordo di quelle piacevoli giornate!”. Il morbegno era abbarbicato intorno al Gur e Topit; noi lo rifornivamo quotidianamente inerpicandoci sulle piste nevose, soffermandoci a prender fiato presso i radi spuntoni di roccia su cui posavamo volentieri lo sguardo abbagliato da quell’immenso biancore. Il capitano Auguardi mi salutava spesso con effusione, quando arrivavao alla 44 e sempre mi invitava a bere un goccio nel suo ricovero; io, quando entravo, dovevo far attenzione a non posare il cappello alpino sul suo giaciglio: era fortemente superstizioso, il capitano Auguardi, e non prmetteva simile oltraggio! Era un fegataccio e, quando i greci avevano occupato la 2120 non si era dato più pace! Continuava a guardare quella quota ed a studiare il modo di riconquistarla. Ed in unìoscura notte di marzo decise a mettere in pratica il suo piano. Sfruttando con intelligenza ad un coraggio senza pari alcuni passaggi poco vigilati dai greci, riuscì ad occupare di sorpresa la posizione, catturando armi e prigionieri e mettendo in fuga precipitosa i restanti difensori, attoniti di fronte a tale audacia. Vi si piantò, la 44, sulla quota con la stessa baldanza con cui l’aveva conquistata, si annidò in caverne di neve, visse in tane di ghiaccio. I greci si accanivano e scagliavano lassù, initerrottamente. Colpi di artiglieria e di mortaio, tentarono di farla sloggiare, ma tutti i loro sforzi furono inutili. Un mattino dei primi d’aprile iniziarono un fuoco di grossi calibri, potente, impetuoso; per ore ed ore la 44 resistette a quell’uragano, spavaldamente, eroicamente, poi uscirono le truppe da montagna e si scagliarono sù verso la 2120, ondate incessanti, dieci, venti volte superiori. La 44 si difese con le unghi e con i denti, ma a poco a poco venne sopraffatta; scesero gli alpini superstiti recando la triste notizia della morte eroica del capitano Auguadri, del tenente Battisti, nipote dell’Eroe, del sergente Ratti, di molti e molti altri valorosi del Morbegno. Partì allora un piccolo reparto del battaglione Edolo. Quello che io vidi aveva del meraviglioso! Gli alpini arrivarono sotto alla vetta, strisciarono, avanzarono, vidi il ten. Locatelli, il sottotenente Insenghi trascinare i loro uomini in uno slancio disperato, eppure quasi elegante, direi sportivo, ed a bombe a mano gettar lo scompiglio tra il nemico e riconquistare la vetta! Ma la loro meravigliosa azione fu inutile: altri greci, molto superiori in forze, si gettarono impetuosamente al contrattacco; l’Edolo resistette fino all’ultimo, disperatamente, poi vidi ad uno ad uno gli alpini scivolar lungo il nevaio, ritirandosi. Per arginar l’attacco nemico la mia compagnia ricevette l’ordine di appostarsi sulle rocce sottostanti la cima. Salimmo di notte fasciati da una nebbia gelida e fitta, trattenendo il respiro; ci schierammo sotto alla vetta, al riparo di alcuni roccioni. La posizione più integrata toccò a Nicola, Bini e Moroni; dalle piazzuole costruite affrettatamente nella notte sentivano i greci parlare tra loro, a brevissima distanza, pochi metri sopra le lror teste. A Nicola arrivò addosso, una mattina, una scatoletta vuota, lanciata dalla vedetta nemica, poi una bomba a mano andò a esplodere in mezzo al 3^ plotone. Di giorno stavamo fermi immobili; solo con l’oscurità della notte ci si poteva spostare per i rifornimenti. Sapevamo di essere sotto il tiro delle loro armi, a portata di bomba a mano: quando compievo quei tratti, “sentivo” le armi puntate addosso, sentivo un occhio invisibile che scrutava nell’oscurità per cercare di distinguermi, mi sembrava di camminare tra le fauci aperte di una balena! Il tempo, pessimo, questa volta ci venne in aiuto: nevicate fitte ed incessanti avvolsero la montagna rendendo scarsissima la visibilità; i greci immobili sulla cima, noi immobili sotto di essi e tutti affogati nella neve che cadeva lenta, senza posa, che riempiva i camminamenti, che si accumulava sui teli fino a sfondarli. Giornate fatte di immobilità assoluta, di una staticità pari a quella montagna sulla quale vivevano così annidati, quasi a far parte integrante di essa! Attendevano l’ordine di muovere all’attacco; l’ordine era imminente ma non giunse! Giunse invece la notizia che le divisioni tedesche, conquistata la Jugoslavia, erano penetrate in Grecia ed avanzavano a rompicollo verso Atene. Con Moroni e Bini pregavamo:” Sant’Adolfo, proteggici tu!”. L’alba del 13 aprile sorse limpida e radiosa: sotto il cielo azzurro il Gur e Topit scintillava al sole, il bagliore della neve era accecante! Moroni ricevette l’ordine di dirigersi con una parruglia sulla 2120; la pattuglia partì, subito fu allo scoperto: silenzio, non un colpo, non un grido; avanzò rapida, inerpicandosi a formazione spiegata: silenzio. Saltò nelle trincee nemiche: nessuno. Maroni ne era meravigliato! Aveva sentito, due ore prima dell’alba, il solito bisbiglio, i soliti passi, i soliti rumori del cambio delle vedette: era certissimo di trovarle ancora. Si sbracciò per dare la notizia: noi uscimmo nel sole. I greci si erano ritirati, l’incubo del nemico sovrastante era cessato, come per incanto! Partimmo subito, scavalcammo il Gur e Topit, scavalcammo molte e molte altre montagne, scendemmo al piano, risalimmo sempre dietro al nemico in fuga. Ad Erseke ci caricarono sui camion per un breve tratto, poi riprendemmo a camminare su petrose ed aride montagne. Le retroguardie greche ci scagliavano addosso qualche colpo di artiglieria, qualche raffica di mitraglia ci arrestava per brevi istanti, poi la marcia riprendeva in quelle lande desolate senza una casa, senza un filo d’erba, senza una goccia d’acqua. Screstammo sull’alto di un costone: ai nostri occhi si aperse la stretta valle bagnata dal Sandaraporos, là in fondo il Ponte di Perati, semidistrutto, accanto ad una pesante passerella rigurgitante di uomini! Una tromba squillò e l’eco si perse nella valle:” Cessate il fuoco! Armistizio! Armistizio!”. Scendemmo veloci lungo i fianchi scoscesi del monte, arrivammo nel polverone della strada. Moroni disse: “Sant’Adolfo ci ha protetto!”. Ma la sua voce aveva un accento strano, velato di tristezza. Calò la sera: attorno ai fuochi gli alpini cantavano: SUL PONTE DI PERATI, BANDIERA NERA, E’ IL LUTTO DELLA JULIA CHE FA LA GUERRA! Questo cantavano gli alpini della Tridentina! Per noi della Tridentina la guerra si era fermata al Gur e Topit!

 

Sottotenente Antonio Marzotto Caotorta Comandante il 3^ Plotone della 48^ Compagnia (Fronte Greco-Albanese - 1^ Parte)

Brindisi – 10 novembre 1940 Oggi è il primo giorno della guerra che combatto anch’io. La mattina siamo stati fermi a S.Vito dei Normanni qualche ora, perché la stazione di Brindisi si era ingorgata. Gli alpini sono riusciti a fregare 4 damigiane di cognac da un vagone. Ricerca vana o quasi dei colpevoli e come conseguenza si bevve dell’ottimo cognac. A Brindisi si arriva a mezzogiorno. Si vede l’effetto di una bomba caduta il giorno prima mentre scaricava l’Edolo. È il primo segno di guerra, che si riduce però solo a della terra su dei vagoni. Alle 4 si scende dal treno e si va a 7 km a piantar tende lungo la via Appia sotto degli ulivi. La sera si va in città a mangiare noi ufficiali con un’autocarretta. C’è l’atmosfera di guerra. Molta calma e naturalezza però. La guerra combattuta è la ragione e il pensiero dominante. Al ristorante parlo con un sottotenente pilota dei S.A.S. E’ lui che trasporta il Morbegno e l’Edolo con degli apparecchi a Tirana, da dove proseguono in camion per Coriza. Mi dice che nel settore di Coriza i greci hanno sfondato e sono entrati in Albania per una profondità di 30 km circa. Noi si attaccò con tutte le forze a sud e loro vennero a nord, dove poi c’erano gli Albanesi a difendere il confine. Dice che fu una cosa condotta con la solita leggerezza, contando troppo sull’inferiorità greca: “ Sennò non si sarebbe italiani, si è sempre fatto così”, aggiunge. È simpatico. Purtroppo ha ragione. Si parla, ci si trova d’accordo nel constatare quanto poco sia sentita questa guerra in paese : “e dopo ci dovrà essere un altro dopoguerra, come l’altra volta.” – “ Peggio ancora- dice lui- Ma ci saremo noi che si è combattuto, a dire e a fare qualcosa”. Me ne vado dicendo che ho sempre moltissima fiducia negli italiani. Certo è avvilente sapere che le abbiamo prese dai greci, che sono dei soldati che non valgono nulla, dicono, che scappano.....Averle prese così per stupidaggine, dopo aver fatto i gradassi e in una campagna che doveva essere preparata da molto tempo.era una notizia questa che già mi ero immaginato dai comunicati e che avevo sentito da altri nella giornata e per questo mandano d’urgenza gli alpini, senza nemmeno i muli. I greci sono stati infatti fermati solo tra ieri e oggi. 11 novembre. Stanno caricando i muli e il materiale. Gli alpini attorno al boccaporto si divertono a vedere i muli appesi come salami calati nella stiva. Sono buoni buoni e piegano un po’ le gambe in aria. Da stamani dunque si susseguono gli ordini e i contrordini. Prima dovevamo partire tutti domani in aereo. Io ne ero felice! Poi dopo mezzogiorno venne la notizia che ci imbarcavano. Oggi dunque si sono fatti un po’ di preparativi, tra cui lo zaino. Ma soprattutto si è preso il sole. Mi sono lavato nudo tra le viti presso una cisterna (anche per togliermi i pidocchi che mi sono preso in treno stando con gli alpini), godendomi il clima del sud, del mediterraneo. Alle 4 si spiantò e si partì alle 5 e mezzo. Gli alpini ridendo parlavano molto di morte. La guerra, la guerra vera che si avvicinava. Erano allegri però. Si camminò fino al porto. La penna e la picozza contro il tramonto sulla via Appia. Il vociare degli alpini per le vie di Brindisi. Al porto per fortuna la luna illuminava molto bene. Scaricare il materiale dai muli e dalle carrette. Appena finito, allarme. Ognuno al suo posto: “ Zaini alla mano!” si va in una stradetta laterale per allontanarsi un po’ dal porto. Intanto mangio una scatoletta. Tutti gli altri se ne fregano abbastanza degli aerei, che poi non vengono nemmeno. Dopo un po’ si torna e ci si imbarca sistemo i miei in coperta. Io sono in una cabina. Chissà come raggiungeremo il fronte e quando. I nostri muli verranno solo domani. Speriamo di andar presto a far qualcosa. Sono così contento. Sento la mia vita così piena. Faccio, facciamo qualcosa. E ogni minuto lo viviamo direttamente, curiosi di quello che accadrà dopo – ignoto. Honey! Ti voglio tanto bene! Ora torno fuori in coperta con gli uomini, che sono come dei ragazzi in viaggio. È buffa: in fondo anche la guerra è come un gran giuoco fatto sul serio. Ma seri sono solo i colonnelli e compagni. –Buona notte Honey! 12 novembre- ore 12. Quella notte poi non finì lì la cosa. Ci fu un secondo allarme e subito si accesero delle luci sul ponte; allora ne spiccai 2 con un pugno e 2 con un fucile. Poi inchiesta: “ come mai?” ma non mi persuadeva la cosa e notai che il personale di bordo parlottava. Li seguii allora, notando qualcosa di sospetto, finché il Maggiore mi disse di non impicciarmi dei fatti che non mi riguardavano. E così me ne andai a letto. Verso le 3, finito l’allarme, mi alzai. Continuava il carico del materiale, i corridoi bui, ingombri di corpi di alpini che dormivano. Me ne tornai a letto. Ci fu un terzo allarme con sparatoria antiaerea, durante il quale mi addormentai. Ho notato che durante gli allarmi si sentono ufficiali che raccomandano la calma con voce alterata e punto calma. Si partì stamani alle 10, non si sa perché cos’ tardi, forse per caricare tutti i piroscafi del convoglio. Siamo 3: il resto del Tirano e il gruppo Bergamo. Ci scortano un paio di caccia e di torpediniere. Il tempo è bellissimo. Molti aeroplani nostri son passati, belli. Mi piace il monumento al marinaio d’Italia. Ora tutti sono con la cintura di salvataggio e le scarpe slacciate, ordine del Colonnello....sono state poi piazzate 2 mitragliatrici antiaeree in plancia. Gli alpini son tutti lì, curiosi, un po’ si divertono alle buffe novità, un po’ brontolano. Tutto è molto buffo, sembra di fare uno scherzo. I soliti ufficiali si fanno fare le solite fotografie “da crociera”. Stanotte, dicono, è Taranto che hanno bombardato.... 13 novembre, sotto la tenda, a 15 km da Durazzo su di una collina tra i cespugli. La traversata di ieri continuò bene, non si ebbe alcun incidente, ma imperversò la naia del salvagente. Io, di servizio, dovevo dare le novità ogni ora e badare che non si slacciassero il salvagente. Si navigava a zig-zag. Finalmente si arrivò in vista del porto a sera. Si passò vicino a un piroscafo mezzo affondato. Si seppe poi che era stato silurato e poi rimorchiato verso Durazzo. Già da lontano si notò il fuoco di un grande incendio, da un’estremità del porto. L’incendio era grande ed attirava benissimo gli aerei. Arrivando non si sapeva nulla, se si sbarcava o no. Appena arrivati ordine di scendere subito tutti per andare ad accamparci a 4 km. Non si era ancora cominciato che suonò un allarme. Tutti fermi, al buio, stanchi e assonnati. Dopo un pezzo cessò l’allarme e si cominciò a scendere, lasciando tutto il materiale a bordo. Andai avanti al colonnello Lavizzari (comandante del reggimento) per vedere dove bisognava andare. Un capitano di fanteria imbranato disse che è a 10 km. Il colonnello s’incazzò. Intanto arrivarono le compagnie. Il colonnello Lavizzari se ne andò a cercare un albergo e noi ci incamminammo con la compagni comando. Ci avvicinammo all’incendio: era un serbatoio di benzina colpito dagli inglesi la notte prima, l’ombra degli alpini, illuminati dai bagliori dell’incendio, con la palude a destra e sinistra della strada. Questa poi era seminata da carabinieri che, stracarichi dei loro bagagli, si trascinavano sulla strada, alcuni con una cariola. Era uno spettacolo penoso, demoralizzante, con degli ufficiali stupidi, in stivali. Uno aveva un canino al guinzaglio perfino! I soldati erano stanchi, avevano fame perché il pane del giorno dopo non era stato distribuito (per fortuna sennò oggi si stava senza). Dopo un po’ si passò davanti all’incendio: era impressionante, ma lo spettacolo non era rinfrancante per gli uomini. Dei getti d’acqua su di un serbatoio ancora salvo, illuminati in rosso, erano molto belli e mi rammentavano le fontane luminose dei grandi alberghi.... Dopo un pò ci raggiunse il colonnello: urlava arrabbiato perché non si osserva la disciplina di marcia! Dei soldati risero: “ Da magnà! Altro che storie!”. Ci dissero “Ancora poco”, ma non si arrivava mai, con sempre quei carabinieri ridicoli tra i piedi. Pieno di autocarri intorno, per i cantieri frequenti. Lasciammo la spiaggia ed entrammo tra le colline, ma ancora non eravamo arrivati. Mi sentivo furioso per i soldati il cui morale veniva scosso per forza! Si sentirono un po’ di proteste e bestemmie, ma infondo erano ammirevoli, nessuno restava indietro. Si arrivò a mezzanotte e mezza e dopo tre ore di marcia. Il mio zaino pesava troppo. Dopo una sosta ci fecero andare in uno spiazzo libero tra i cespugli spinosissimi su di un dosso esposto al vento. Feci andare avanti gli uomini ad arrangiarsi per la notte dove volevano. I magazzinieri e i cucinieri vennero fatti ritornare fino alla nave!....perché ci sarebbe stato bisogno di loro laggiù il giorno dopo. Dormii nel sacco a pelo in terra dietro una siepe. L’attendente me lo allacciò sulla testa. Dormivo bene, di colpo. Tanto sodo che, unico tra tutti, non mi accorsi che nella notte vennero per 3 volte gli apparecchi inglesi. Poi mi dissero che ci fu un infernale fuoco antiaereo, tutto il cielo era stato illuminato, un baccano del diavolo, tanto che gli inglesi non poterono raggiungere il porto. Una scheggia di antiaereo ferì gravemente ad un polmone uno della 49^. Al mattino vidi due indigeni che stavano nella casetta accanto. Erano i primi albanesi : begli uomini, ma patiti, con qualcosa di rosso ai piedi e al collo. Guardavano, sorridevano. La casa era fetta di fango secco. Miseria. Subito venne fatta l’adunata di compagnia: si dovevano piantare le tende. Destinai il posto al mio plotone. Poi si sarebbe andati a prendere le armi a bordo. Poco dopo contrordine: zaino affardellato e via. Era il susseguirsi di contrordini che scassava il morale, c’era la sensazione che chi comandava non sapeva cosa fare e quindi vi era completa sfiducia. Intanto cinghia! Ogni tanto mangiavo dei biscotti che mia mamma mi mise nello zaino. Non si sapeva dove andare. Il colonnello non si vedeva. L’aiutante maggiore in prima cercava il nuovo posto per il campo, il maggiore cercava l’aiutante maggiore. Lo spettacolo era penoso: vedere questi comandanti vagare per le colline come dei fessi, mentre la truppa stanca e affamata aspettava in mezzo alla strada. Nessuno sapeva nulla, intanto pioveva. Finalmente si riuscì a sapere, per caso, il posto: era vicino, abbastanza buono, cespugli alti, spine sempre, l’acqua abbastanza vicina. Intanto arrivarono i viveri con l’autocarretta: facemmo preparare subito il rancio e postare le 2 Breda antiaeree. Cominciò ad arrivare il materiale coi camion. Era un lavoro far lavorare gli uomini con una fame tremenda, come me del resto. Finalmente distribuii il pane, era circa mezzogiorno e anch’io potei mangiare qualcosa: formaggini, marmellata, cioccolata, pane. Poi presi il rancio anch’io. Verso le 4 finalmente, con lo stomaco pieno e il materiale a posto, potemmo riposare.ricevevo qualche lettera vecchia.ci attardavamo attorno alle cassette, alle nostre tende, chiacchierando con gli attendenti. Erano quasi le 6: “E’ pronto il caffè”, preso quello mi sarei messo a dormire. Probabilmente l‘indomani saremmo partiti in autocarro. Avevamo saputo poi che sul fronte di Coriza un battaglione, a difesa di un certo tratto, tradì e passò al nemico e così fu accerchiata la divisione Julia, che pur resistendo dovette ritirarsi. Non fu dunque un errore militare e di questo fui contento, fu un errore politico, certo ben deplorevole. E così è la guerra: disorganizzazione, cinghia, errori su errori. Certo poi era preoccupante essere nelle mani di un disgraziato come il colonnello Fassi, che non sapeva fare il suo mestiere e pensava solo a se stesso o a pignolerie e non al più importante. In quel momento avrebbe dovuto essere con gli altri 2 battaglioni e non lì a rompere le scatole. Tutti lo disprezzavano ed era davvero un peccato avere un simile comandante. Tutto ciò mi dispiaceva più che altro per gli uomini e per l’andamento della guerra. Non per me, io ero sicuro e sereno che tutto sarebbe andato bene. Deploravo soltanto e mi dispiaceva per il morale degli uomini, il quale dipendeva quasi tutto dallo stomaco: avevamo mangiato e dunque tutto andava bene. Addio Honey! 14 NOVEMBRE Ieri sera mi sono messo nudo nel sacco a pelo alle 6 e mezzo. Verso le 9 ci fu un allarme con un pò di fuoco antiaereo, ma roba da poco. Oggi ho saputo quelle che sembra finalmente la verità sul fronte Coriza. Un battaglione albanese si è ammutinato, ma non sul fronte e del tutto indipendentemente dal fronte. La Julia era stata accerchiata perché una divisione di fanteria sul suo fianco non avanzò abbastanza e lasciò quindi il fianco scoperto alla Julia che era penetrata in Grecia; questa si difese eroicamente e dopo 3 giorni riuscì a ritirarsi. Pare che i greci siano entrati solo per 2 o 3 km. oggi sono stato tutto il giorno qui a prendere il sole mezzo nudo o a dormire. Ho letto “Rivoluzione del 5 ottobre”. Prepararsi a dormire spiritualmente domani. E’ un gruppo che veramente ha capito qual’è la responsabilità di oggi, come prepararsi e specialmente di domani, come primato spirituale. Non basta la forza. Siamo italiani e vogliamo essere completi, quindi anche intelligenti. Discussione con Servino e Zipper (l’ufficiale che comanda il secondo plotone), che sostengono che ora non è il caso di parlar di spirito e di cultura e che vuol essere naia e basta. Naturalmente è perché non capiscono nulla. Nel pomeriggio viene un apparecchio inglese in ricognizione. Allarme, elmetto, si alza la caccia, ma l’inglese se ne torna via indisturbato. Alle 6 viene la notizia di partire immediatamente. Ordine di Soddu, che comanda tutte le operazioni in Albania. Ora c’è la luna piena, magnifica, alla cui luce scrivo. Ancora l’ordine di partire non è venuto. Gli uomini hanno spiantato (le tende) e aspettano. 15 NOVEMBRE, (sul camion dopo Elbasan, al chiaro di luna). Si doveva partire stamani alle 9, siamo partiti alle 2 del pomeriggio, dopo aver stipato il materiale in 2 autocarri e gli uomini su 4 (50 per uno) accatastati. Autocarri belli nuovi, Alfa Romeo da 65 Qli. Io sono davanti con un autista di Pistoia,contento di parlare un po’ toscano con me. Faccio colazione con una scatoletta e una pagnotta. La strada è molto buona. Si passa da Tirana. Baraccamenti di truppe, confusione di catapecchie e di costruzioni arrangiate. Una bella moschea antica. Militari per le vie, qualche donna italiana. Starace (gerarca fascista) ci saluta. Il passaggio è allegro. La città è un agglomerato improvvisato e basta; piccola poi. Si sale dopo per le montagne. Brulle squallide montagne a perdita d’occhio. Paese poverissimo, desolato, pittoresco però. Si vedono moltissimi albanesi con i loro ciuchini piccolissimi, stracarichi. Sono tutti in costume albanese, impassibili. La piana di Elbasan acquitrinosa, malarica. Si vedono alcune donne coi pantaloni musulmani, coperte di cenci che scappano. Elbasan grosso villaggio coloniale, sporco, catapecchie, bottegucce. Bimbi che urlano e offrono merce. Ci fermiamo 10 km dopo, con incertezza, per fare il rancio. Son le 6 passate.nessuno da ordini di cosa si deve fare con gli uomini. Vanno con un camion a prendere acqua a Elbasan. Venendo in qua abbiamo incrociato 4 camion di feriti. Sto pensando che stiamo andando al fronte, ma nessuno sembra rendersene conto. Gli alpini dicono:”Si va al macello”, ma con loro solito tono (ironico). Tutti se ne fregano un po’ di tutto. Io sono curioso e mi interesso. Questa notte dormiremo all’addiaccio. Una gavetta di rancio è ora la mia aspirazione. Buonanotte Honey! 16 NOVEMBRE. Stanotte ho dormito sotto gli ulivi, alla luna. Si doveva partire alle 4 e mezza, e invece alla una,ordine improvviso di partire. Colonna di autocarri coi fari accesi e la luna tra i monti. All’alba al lago di Ocride, bellissimo, aurora sul lago. Distanziamo le macchine, perché la colonna precedente era stata spezzonata. Si vede un apparecchio greco abbattuto vicino alla strada. A Coriza ci danno 2 pagnotte e 2 scatolette (a testa). Si passa oltre, un villaggio solito. Dopo una decina di km alt: scendere subito. Si sente il cannone, è mezzogiorno,la valletta è brulla, il sole picchia. Vengono distribuite le bombe a mano, 4 a ognuno, elmetto in testa. Ci si incammina, non si sa dove, non si sa nulla. Gli uomini sono taciturni. A un certo punto tutti si mettono lungo i muretti. Subito dopo li faccio proseguire. Io sono il plotone di coda. In aria girano dei bombardieri, sono nemici. Ci fermiamo e distanziamo i plotoni. Faccio sporcare di fango gli elmetti. Vado avanti a sentire cosa si fa. Trovo Mazzali (comandante del mio battaglione), Decobelli (comandante della mia compagnia) è avanti col Maggiore. Mazzali mi dice che la situazione è gravissima: i greci continuano ad avanzare, hanno molta artiglieria e noi no. Hanno molte divisioni. L’Edolo e il Morbegno hanno avuto forti perdite. Depositiamo le valigette e spediamo su in tutta fretta con dei muli i fucili mitragliatori e le munizioni. La posizione chiave al centro dei due battaglioni, tenuta dalla fanteria, sta cedendo la 46 (compagnia) è già partita a rinforzare coi soli fucili 91, eroicamente. I soldati ancora non sanno esattamente la cosa, ma a poco a poco la intuiscono. Uno giovane, Pesenti, ha paura e fa una faccina di bimbo spaurito: gli sorrido e mi sorride. Prendiamo le nostre munizioni, ma mi mancano 5 uomini e il sergente, rimasti indietro con un altro camion. I mitraglieri non sono ancora arrivati, il loro camion si è rotto. Si sente ogni tanto il colpo del cannone. I soldati dicono “La se gira...”, ma sono allegri. Sono le 14 e mezzo, aspettiamo l’ordine di andare in linea. La 49 è già partita. Ore 16, siamo andati avanti un km, sono arrivati i mitraglieri. La situazione pare non sia disperata poi. Siamo arrivati a un gruppo di case, aspettando l’ordine del maggiore di andare avanti. Ho comperato delle uova da un indigeno. È finito il primo periodo di agitazione dovuto alla sorpresa. Tutti ostentano allegria e indifferenza; anch’io. Ora però comincia ad essere vera.

 

Sottotenente Antonio Marzotto Caotorta Comandante il 3^ Plotone della 48^ Compagnia (Fronte Greco-Albanese - 2^ Parte)

17 NOVEMBRE-ore nove, tra i ginepri. Alle 4 e mezza ieri siamo partiti dalle case. Si va in linea, in fila indiana. È una certa emozione. Si sale per circa un’ora, in una valle brulla. Dopo circa un’ora ci si ferma. Decobelli raccoglie le compagnie e raccomanda di stare in gamba! Si risale ancora la valle. Viene notte. Si trova la 49^ e la comando, che tornano indietro dicendo che erano troppo esposti. Ciò ha un effetto deleterio sul morale degli uomini. Noi proseguiamo un po’ e poi pieghiamo a sinistra. Si traversa il ruscello e ci si addossa a un costone. Lasciamo gli uomini e noi ufficiali proseguiamo a riconoscere il costone. Al buio e un vento maledetto. Decobelli segnala con la pila al comando di battaglione e subito si sentono fischiare due pallottole. Proseguiamo. Dobbiamo sistemare a difesa il costone. Questo è arretrato rispetto alla testata della valle. Sulla cresta davanti, che è lo spartiacque, pare ci siano nostri e loro. Mi viene assegnato il tratto del 3^ (il mio plotone), circa 100 metri. Vado a prendere il plotone. Cerco le 3 postazioni per le armi (le mitragliatrici) gettandomi a terra. È difficile perché la curva del costone è dolce e non si vede bene il campo di tiro. Infatti Decobelli, che passa subito dopo, me le fa avanzare un po’. Bisogna far presto, prima sorga la luna. Gli uomini ubbidiscono a ogni parola: bisogna pensare bene ognuna che si dice. Disposti gli occhi, cioè gli uomini (le opere di fortificazione son già abbozzate), mi metto in terra tra 2 cespugli con Pedra (il mio attendente Pedrazzini). Finalmente! Son stanco morto. Ci copriamo con un telo. Bisogna che mi riposi prima di poter mangiare, scatolette e pagnotta. Sono le 8 e mezzo e mi addormento. Dopo 2 ore mi svegliano dal comando. Decobelli è morto di stanchezza e viene dal Maggiore: il nemico è sulla cresta davanti, alla nostra sinistra c’è l’Edolo, a destra il Morbegno e la 46. Dobbiamo difendere ad oltranza questo costone. Domani aspettiamo un attacco e un tiro potente. Dobbiamo tenere la posizione a costo di restarci tutti. Fare opere difensive formidabili. Vado a dare gli ordini ai miei. Li sveglio. Trovo uomini a 2 o 3 sotto un telo, nascosi tra i ginepri sotto la luna. Poi mi metto in una fossa con Pedra. Fa freddo. Sento i colpi di piccone degli uomini che scavano le postazioni. Il vento è forte. Pedra dorme e dormo anch’io con lui, svegliandomi ogni tanto tremando dal freddo. È da ieri sera che abbiamo la sensazione di aver la morte davanti. Alle 6 e mezzo mi alzo e ispeziono le armi. Sono arrivati i 5 uomini rimasti indietro. Viene l’ordine che alle 7 e mezzo l’Edolo e il Morbegno con la 46 avrebbero attaccato con la poca artiglieria nostra e l’aviazione. Noi in difensiva al centro. A destra in fondo alla valletta c’è la Comando e sul monte più a destra la 49. La situazione è già più rosea. Preparare i teli rossi da esporre. Stare fermi ognuno nel suo buco e non sparare che quando il nemico fosse arrivato sotto. Dopo un po’ si comincia a sentire colpi, mentre durante la notte c’era stato silenzio quasi sempre. Ci sono mortai da 81 dei greci, che fischiano e scoppiano sotto la cresta. Noi stiamo lì fermi. Passano apparecchi nostri che vanno in là. Spunta il sole poi: è una bellissima giornata e ci riscaldiamo. Gli uomini col giorno sono rinfrancati e stanno lì sereni. La 46 attacca sulla cresta di destra e le sparano addosso un mucchio di colpi. Si vedono uomini correre sulla cresta. Nuvole di fumo. Un fuoco fortissimo: i fucili mitragliatori e le (mitragliatrici) Breda non stanno quasi mai zitte. I greci sparano un mucchio di artiglieria, ma i nostri sono avanzati da destra e ora mi pare anche da sinistra. Si sentono tanti colpi è difficile dire di chi sono e da dove vengono. I discorsi di tutti sono su questo punto. Ore 17. è tutto il giorno che siamo qui, tutto il giorno che sparano. La 46 è dovuta tornare indietro dalla cima che aveva preso. Brenna (un ufficiale) è morto. Gallizzoli e Cecchi sono feriti. I greci stanno scendendo in massa dalla stessa cima, ma un magnifico tiro delle nostra artiglieria dal fondo valle li ha fatti tornare indietro. Apparecchi nostri continuano a passare, ma non hanno fatto nulla. Gli uomini è difficile tenerli fermi e bassi. Ancora a noi non hanno sparato però. La 49 è andata di rincalzo della 46 a sinistra. L’Edolo a destra avanti a noi pare sia avanzato un po’, ma è fermo. C’è lì pure un’altra batteria che ha piantato le tende. Ancora i greci non sono scesi dalla cresta, però l’occupano tutta ancora. Meleri, che avevo mandato ieri a collegarsi con la 46 assieme ad un altro, è arrivato poco fa, dopo aver girato quasi tutto il fronte. Ha incontrato un sottotenente greco, prigioniero dell’Edolo con un sergente e dei soldati. Sono in kaki, ben vestiti, con la bustina. Gli ha dato due dracme, era allegro e ha detto: “Perché non sparare voi?”. È tutta qui la questione in fondo: che i combattenti non vedono lo scopo di questa guerra qui con i greci. A me fa dispiacere per il fatto in sé. Qui la Julia era entrata (in Grecia) per 30 km e ora loro son quasi entrati in Albania. Il confine l’ hanno già passato e ora, se riescono a passare dove siamo noi, vanno a Durazzo. È proprio questo che noi sentiamo: l’importanza decisiva della nostra posizione. La 48 è l’unica che ancora non ha sparato. (Facciamo un’urlata agli uomini, che stiano a terra.) aspettiamo Decobelli che ritorni indietro il Maggiore, dove è ora. Ho mandato Pedra a prendere il mio sacco a pelo (ho scoperto infatti due grossi pidocchi in una mia manica, che ho preso questa notte dormendo con lui nello stesso sacco per tenerci caldo) e il piccone, che avevo lasciato in magazzino, e anche da mangiare. Si va avanti con la pagnotta e la scatoletta (che però viene terribilmente a noia). La borraccia è ormai quasi vuota, ma a buio la riempiremo al ruscello sotto. La situazione è buffa: abbarbicati in questo costone tra i ginepri e la terra tutta una giornata. Spettatori di combattimenti, con la coscienza che andiamo maluccio. L’unica cosa che rinfranca e dà la sensazione di non esser proprio soli è il tiro preciso delle nostre artiglierie. Ora poi è entrata in azione una terza batteria dietro a noi. Ma il fuoco da un po’ di tempo langue: hanno l’aria di essere stanchi. 18 NOVEMBRE, ORE 9. Ieri sera la situazione era la seguente (come ho potuto ricostruire dai racconti di Residori e di Pedra). La 46 aveva occupato fin da ieri la cima di monte Cucco. Ieri mattina con la nebbia (di nuvole) Brenna andò avanti per un pianoro oltre la vetta. Sparita la nebbia si trovarono completamente allo scoperto. Brenna cadde per una scarica di mitra nello stomaco. Chiamò tre volte mamma e morì subito. Era già stato ferito un po’ al viso la sera prima. La cima fu poi tenuta ma con una sola Breda (prestata dal Morbegno, che teneva sempre e tiene tuttora sulla cima di destra). Poi la Breda s’inceppò. Residori provò a farla andare; niente; allora la disfò disperdendo i pezzi perché non restasse a loro. Si difesero ancora con bombe a mano. Meninghetti fu ferito sotto una spalla nel lanciarla. Morirono altri due nostri esploratori. Essi erano stati mandati su a rinforzare la 46, che era rimasta con un solo ufficiale, Rigli. Residori dice che comandò lui gran parte della compagnia. Pare che 3 volte presero la cima e poi la ripresero. Ora la 46 è ridotta a 2 plotoni con Rigli e Molteni ed è aggregata al Morbegno. Loro (i greci) poi tentarono di scendere dal monte, ma furono fermati dal tiro precisissimo della nostra artiglieria divisionale. Dice che vengono avanti a masse, in piedi urlando. Hanno avuto cataste di cadaveri. (Un pidocchio mi sta passeggiando su una coscia). Sulla sinistra la 52 dell’Edolo era penetrata per qualche chilometro. Poi si trovò accerchiata. Così rimase un giorno e una notte, poi riuscì a ritirarsi sotto il fuoco incrociato nemico e ieri sera se ne tornò sbandata e dispersa fino alle retrovie. Le altre 2 compagnie tengono ancora ma con gravi perdite. Ieri sera dice che c’era una gran confusione giù. Arrivò la nostra sanità, ma non ce la fecero a trasportare tutti i feriti e soprattutto non volevano andar su a prenderli. L’atmosfera poi era da funerale, da disfatta. Bisognava sentire il sergente Residori come era entusiasmato dal combattimento, si sentiva che ne aveva provato l’ebbrezza. Dice che era pieno di materiale lì, ognuno aveva gettato tutto. Si combatteva in piedi, corpo a corpo! Ieri sera è arrivato anche il gruppo Bergamo. Ora abbiamo parecchia artiglieria per fortuna. Verso le otto dunque ieri sera arriva Decobelli: “La situazione la conosci?”- “Si, ho sentito parlare un po’”. : “Dunque: tragica”. Zipper col secondo plotone viene mandato giù a sinistra a tenere il fondo della valletta. Davanti abbiamo solo il nemico che sta scendendo dalla cresta. Siamo pochissimi uomini su un vasto fronte, che dobbiamo tenere a tutti i costi perché sennò è la rotta. Sveglio gli uomini, faccio caricare i fucili (ho sentito fischiare una pallottola) faccio rinforzare le postazioni, tutti gli uomini a posto. Con poche parole spiego loro la situazione. (Alcuni ancora stamani credevano di essere in seconda linea). Porto l’ottava (squadra) a sinistra, dov’era il II^ (plotone) (mi rimane la settima in alto con Freri e la nona al centro). Fortifichiamo la piazzola. Mi ci metto anch’io. Montano subito 2 sentinelle per plotone con turni di un’ora. Mi metto il telo con Manzoni. Vorrei stare sveglio, perché mi aspetto il nemico da un momento all’altro. La situazione è peggiore delle notte prima. Invece anche stanotte nulla. Il vento fortissimo, i pidocchi, i sassi nelle costole, le gambe che se le stendevo si gelavano e se le piegavo mi dolevano le ginocchia. Dormii poco assai. All’alba vado a controllare gli uomini di nuovo. Pedra è arrivato ieri sera tardi. Il sacco a pelo non lo ha trovato, ha preso qualcosa da mangiare. Lo faccio venire nella postazione accanto all’arma dell’ottava con me. Do un pedatone a Bettinelli che si è messo a discutere un ordine. Fin dal mattino l’artiglieria nostra picchia sodo con le mitragliatrici che subito vengono fatte tacere dalla nostra artiglieria. Zipper viene mandato in esplorazione con 3 uomini fino al centro della valle. Vede molti greci su una crestina, circa 600 metri al di qua dalla cresta. Perché non ci sparano sopra coi nostri (cannoni) 81? Io cerco di insistere perché Decobelli avvisi il Maggiore per farci sparare. Dice che è inutile, che il Maggiore sa benissimo che lì c’è gente, ma non vuol sparare! Per non farsi scoprire. È il colmo, perché una decina di bombe metterebbe per lo meno lo scompiglio. Ora sono le 13. Cannonate come se piovesse, da tutte le parti. Fischi in aria di proiettili! Spariamo anche su un colle a meno di un km da noi a sinistra, dove ieri c’era una batteria nostra. Stanotte alle 3 mi svegliano perché gli uomini vadano a prendere i viveri, anche vino e formaggio. Questa è stata una bellissima notizia, ora tutti hanno da mangiare abbastanza. Poi il fuoco della nostra artiglieria e il fatto che i greci non abbiano attaccato stanotte rialza il morale degli uomini. Si aspetta però che venga il 6 (reggimento), con impazienza, perché noi da soli si fa ben poco. La 48 tiene un fronte di un paio di km e lo stesso la 49 e avanti c’è moltissima gente che può venire avanti da un momento all’altro, mentre dietro a noi c’è la valle di Coriza indifesa. Ore 14,30, la situazione già comincia a rovesciarsi finalmente. Cagnoli si è messo a sparare con l’81, lì dove Zipper ha visto gli uomini. (Decobelli ha poi comunicato la cosa al Maggiore). E poi si è visto uomini nostri occupare di nuovo il monte Cucco. Pare sia il (battaglione) Vestono finalmente arrivato. Ora poi il gran fuoco di mitra verso la cresta. Prima si è visto chiamare con la bandiera lampo da sinistra, vicino dove era la batteria e dove piovevano nostri colpi. Sono andato da Decobelli, abbiamo risposto un po’, ma poi smesso perché ci vedeva il nemico. C’erano dei muli sotto la cresta. Temo sia stata la nostra artiglieria che ha avuto dei colpi nostri molto vicini. Un gruppo disperso della 52, che era venuto da noi dopo la ritirata, è stato ora rimandato alla sua compagnia, che è ancora sulla nostra sinistra. Pedra mi ha allungato la buca e messo delle felci secche sotto, ora sto più comodo. È strano come si mangi poco in fondo: due bocconi di roba saziano subito. Però non abbiamo fiato per correre. Ore 18. Per tutto il pomeriggio hanno combattuto come leoni sul monte Cucco. I nostri sono stati respinti una volta. Si è visto un tremendo lancio di bombe a mano. Poi sono ritornati all’assalto, magnifici, a colpi di bombe a mano, appoggiati dalla nostra artiglieria che picchiava proprio davanti a loro. La cima son così riusciti a tenerla, ma combattendo ancora. Alle 16 è arrivato il cognac e le sigarette: 13 per uno e una borraccia per plotone. Io ho preso la roba per il mio plotone e, cominciando dall’alto, a uno a uno li ho visitati tutti. Sembravo un papà: un sorriso a testa e poi raccomandazioni, ordini spiegazioni sulla situazione, tutti mi chiedevano come andava, chi era sul monte Cucco. Poi mi son rimasti 9 uomini senza cognac e allora ho dato loro il mio; io ne avevo già bevuto un po’. Ho poi una borraccia di caffè e del vino. Ora cominciamo ad organizzarci, ho anche 3 scatole di marmellata. Tra poco ci sembrerà di essere a casa nostra qui. Ho interrogato degli altri uomini dispersi della 52, capitati ancora dal comando. Mi hanno raccontato la loro storia: erano davanti a noi in mezzo alla valle, lì hanno tenuto finché avevano munizioni, solo 2 morti. I greci come le mosche. Abbiamo i visi pieni di terra. Ogni arma mia ha 1800 colpi. Scrivo al buio. Buona notte Honey. 19 NOVEMBRE, MARTEDI’ Stanotte ho dormito meglio. Notte calmissima. I greci non ci sono più in mezzo alla valle. Residori è stato ieri sera in esplorazione. Gli 81 nostri han fatto qualcosa! Stamani mi sono lavato viso e mani al ruscello dietro, che piacere! Sono arrivati altri 2 pacchetti di sigarette per uno, marmellata, caffè. Io poi ho il lardo anche. Ma è strano non si ha fame e a camminare non si ha forza. Ci vorrebbe un piatto di pastasciutta. Che sogno! Sono le 16. Ho dormito un po’. E’ tutto il pomeriggio che sparano artiglieria da tutte le parti. Un apparecchio ha anche gettato bombe incendiarie in mezzo alla valle davanti a noi, ieri. Hanno bombardato nella piana per prendere le nostre batterie divisionali, ma senza risultato. Son stufo, è il terzo giorno che siamo qui, sempre la stessa musica. Ma sono stufo perché non andiamo bene. Il monte Cucco ripreso ieri dal Morbegno e dai Bersaglieri (non dal Vestone, che però pare sia arrivato anche lui) è stato ripreso stamani, poi pare siamo tornati, ma è diventato leggendario! L’Edolo, che era sempre avanti a noi sui colli in mezzo alla valle a sinistra, ha avuto l’ordine di ritirarsi ed ora si è messo al nostro fianco e continua sulla sinistra l’unica linea di difesa a oltranza. Pare che si siano infiltrati sulla sinistra oltre l’Edolo sulla via di Coriza. Sono stato a parlare con Fogliaresi, che è l’ultimo plotone della 52. Mi ha raccontato i suoi combattimenti, era sul monte Cucco con la 46. Ebbe solo 3 morti e qualche ferito. Anche lui deplora la leggerezza con cui sono state condotte le cose qui. Soprattutto per i soldati. Infatti questo fa l’effetto di: “Altro che le balle dei giornali, questa è la realtà.” E ancora noi non si è provato il fuoco! Ho guardato la fotografia di Giulia con la mia fotografia in mano. Mi sembra una felicità inaudita, al di là dell’immaginazione. Ho mandato giù della posta per mezzo di Pedra. Non ho ancora ricevuto nulla. 20 NOVEMBRE, MATTINA. Stanotte guardia di 4 col sergente nel vallone sotto di noi e sulla costa davanti. Io ho dormito finalmente un po’ bene nel sacco a pelo. Ieri sera i greci erano avanzati a sinistra e avevano preso la cima del monte a sinistra nostra, dove c’era la 52 che ha tagliato la corda. Crivelli dice che Pasini, che comanda la 52, era pieno di paura e non voleva tenere la prima posizione. Dice poi che anche lui ha avuto fifa. Tutti svegli lassù con le bombe a mano pronte. (Anch’io ne avevo una sotto la testa). Poi stamani prima dell’alba un plotone del 6 (reggimento) ha ripreso la cima con 2 bombe a mano e ora la 52 è tornata al suo posto. Crivelli si è fortificato ancora più con una squadra della 52. Ieri sera Pedra mi ha portato buone notizie dal basso. Dice che il 18 parlò il Duce, dichiarò la guerra alla Grecia e disse che in 15 giorni sarebbe finita e che aveva mandato 50 apparecchi da bombardamento per aiutarci qui. Certo la cosa più imprecisa qui sono le notizie. Nessuno sa nulla e circolano le voci più strane continuamente. Di solito sono voci allarmistiche. Di certo è che la pressione greca si è fatta più forte a sinistra. Ma la 46, per esempio, ha avuto solo una quindicina di morti, pare. Le bombe cadute ieri qui davanti erano nostre. Ore 16,30: che noia! Nulla di nuovo, passano solo moltissimi apparecchi nostri verso la Grecia. Speriamo facciano qualcosa. Io sono già stufo di stare tutto il giorno dietro questi sassi, sdraiato, a sentir fischiare il vento nei ginepri messi a mascherare. L’unico diversivo è andare a lavarsi al ruscello o andare al comando a sentire le novità che ci sono. Non mi riesce poi più di mangiare. Il lardo ora mi manca. Per fortuna stanotte mi hanno svegliato per darmi del brodo caldo. L’unica cosa che si apprezza qui sono i liquori, se ne sente quasi la necessità.

 

Sottotenente Antonio Marzotto Caotorta Comandante il 3^ Plotone della 48^ Compagnia (Fronte Greco-Albanese - 3^ Parte)

21 NOVEMBRE, ORE 14. Ieri sera al tramonto han cominciato a tirare con l’81 sul costone dietro a noi e poi a sinistra e destra. Gli uomini han cominciato a pensare, ma a me non ha fatto impressione. Verso le 8 si è visto e sentito un combattimento accanito sulla sinistra con bombe a mano. Una luce fortissima. Ho saputo oggi che hanno attaccato il Vestone e che sono stati respinti. La nostra artiglieria e i mortai dell’Edolo hanno sparato moltissimo. Si seguivano tutti gli scoppi nel buio. Stamani viene un ordine del Maggiore di non muoversi sulle linee e di fortificarsi moltissimo. Io sono stato un pezzo a chiacchierare con i rifornitori. Tutti intorno al vino, al cognac, alla marmellata, alle sigarette. Arriva Decobelli che se la piglia col mio plotone, che è quello che si muove di più. È perché è il più sott’occhio e viene notato di più, ma tutti si muovono. E’ piuttosto agitato, si capisce: “ Stanotte ci si deve ritirare”. Quando son tutti riuniti gli ufficiali, annuncia la cosa e legge gli ordini del Maggiore. Io, che l’avevo saputo prima che loro arrivassero, li guardo in faccia per vedere che effetto fa loro la notizia. Restano tutti impassibili. Gli ordini sono ordini. Ci si deve ritirare oltre Coriza. Intanto arrivano degli schrapnels sopra di noi: nessun ferito. Non mi fanno effetto. Anche colpi di mortai dietro a noi. Non so con quale fortuna non hanno ancora colpito il nostro costone. Dei colpi greci arrivano già in fondo valle. La nostra artiglieria non risponde più perché è già partita. La 48 sarà di retroguardia e il mio plotone il terz’ultimo. Zipper in coda con Decobelli. Si farà adunata dei plotoni a buio. Non dire nulla agli uomini. Servino deve far gettare nel ruscello le munizioni in più che ha. La cosa ci dispiace per il lato morale, per la figura che fa l’Italia a cui vogliamo così bene. Decobelli dice è peggio di Caporetto. Materialmente esagera, ma se si pensa alla spavalderia nostra ha ragione nel senso morale. Zipper dice che un suo alpino ha trovato su un vecchio pezzo di giornale : “Le panzane di Radio Londra”...e son tutte le verità sul nostro conto. Tutte verità che purtroppo conosciamo. Noi stiamo facendo un gioco di faccia tosta, l’unico possibile, ma pericoloso. Come potremo nascondere la perdita di Coriza? A noi poi dispiace, in un certo senso, esserci ritirati senza nemmeno sparare un colpo. E in fondo tutto il 5 (reggimento) non ha avuto che 12 morti (di cui 6 alla 46), le altre son balle! Sono le 14,00: hanno cominciato l’attacco, sparano su tutta la linea e vengono avanti. Ore 14,30: arriva un mucchio di posta per me finalmente. Non posso leggere, perché arriva l’ordine di prepararsi subito. 22 NOVEMBRE, ORE 13. Ho letto finalmente la posta. Giulia! Giulia mia, che mi dice tutto il bello della mia andata in guerra, che mi parla di quello che io “do ai soldati”. Mamma, Franco (mio fratello maggiore) che è grande (sentire che gli pesa il comodo!...). Franco finisce la sua lettera: “Viva l’Italia! (e so quanto è sentito!) E io ieri sera l’ho sentita maledire l’Italia! Di proposito; e maledire tante altre cose! Ieri 21 novembre 1940 è stato indimenticabile. È stata la ritirata di Coriza! “Ritirata strategica” come ci disse Decobelli. E quando sentii queste 2 parole ieri a mezzogiorno pensai con vergogna a quanto avevamo sfottuto gli inglesi per essa. Ecco dunque la cronaca. Alle 14,45 aduno il plotone sul rovescio del costone. C’è del nervosismo, distribuisco 2 casse di bombe a mano, ce le mettiamo dappertutto. Si scende. Io in coda al plotone. Vedo uno dell’Edolo che sta per abbandonare una cassetta di munizioni per la Breda. Gliela faccio gettare nel ruscello. È il mio atto di distruzione per il nemico. Il plotone comando mitraglieri e il mio si prosegue e appostiamo le armi su un promontorio ad un km, che domina il sentiero e il nostro costone. Crivelli mi dice di andare con gli altri uomini dietro, mi metto a posto, intanto è arrivato Decobelli e Zipper e noi spariamo. I greci erano arrivati sul nostro costone, mi dicono, perché io non li ho nemmeno potuti vedere, con mio dispiacere. Perché subito il 1 e il 2 (plotone) proseguono. Fa caldo. Lo zaino mi pesa terribilmente col cappottone sopra, non so come ce la farò. (E ce la farò fino alle 6 del mattino!). Passiamo dal paese, gli abitanti sono sulle porte a guardarci. Li guardo male: se restano sono d’accordo coi greci! Dicono a dei soldati: “Bona Italia, no greci”, e la sera li avranno accolti. Più in là incontriamo un bersagliere ferito portato dai compagni, lo prendono i nostri portaferiti. All’imbrunire passiamo dal nostro magazzino: qui ho la sensazione della disfatta! Sacchi di pane, a cui tutti attingono, anch’io prendo una pagnotta, che poi darò a un alpino perché mi ingombra. Ma l’ho presa più che altro per l’istinto di portar via roba al nemico. Casse in disordine, sventrate, un po’ di roba dappertutto. Ho il dispiacere di pensare che si lasciava tutto quello al nemico. Ci sono molte casse di munizioni aperte. Zipper passando poi per ultimo le butterà tutte nel torrente per fortuna. Trovo mezza cassa di cipolle e ne prendo 2 con gioia; formeranno la consolazione del mio palato. Ci fermiamo poco oltre lungo la strada maestra ad aspettare tutta la compagnia. Arrivano subito. Hanno sparato ben poco in fondo. Pare che il Tirano sia stato il primo a ritirarsi, mentre gli altri 2 battaglioni hanno combattuto e hanno lasciato lì anche i feriti. Trovo sulla strada un bersagliere motociclista toscano. Mi chiede perché ci siamo ritirati. “Gli ordini sono ordini” rispondono e gli chiedo dove è il fronte ora, ma non sa nulla, naturalmente. Il Maggiore è già partito. Partiamo in fila dietro una guida attraverso la pianura silenziosa. Camminiamo per delle ore stanchissimi, passando non so quanti fossi e ruscelli a guado, dove i soldati si fermano sempre a bere. Arriviamo finalmente a delle case, delle alture, si trovano alpini di sentinella. Il colonnello su una strada parla con uno: “....hanno attaccato dalla parte dell’Edolo e allora...”. troviamo alpini e altri soldati lungo la strada. Ci fermiamo anche noi, non ne posso più dalla stanchezza; ormai penso siamo arrivati. Sono le undici. Si riparte subito e vengo a sapere che ci sono altri 10 km! sono molto giù! Come ce la farò? E ora la strada sale! Mi disfo della maschera con le bombe a mano che c’erano dentro, un bel peso e un impaccio di meno! La strada sale per una vallata squallida, come tutta l’Albania. Sorge una mezza luna gialla, che odio. Comincia una sorta di ritirata di Russia. Continuamente fermi lungo la strada, di tutte le compagnie. Si cammina così come automi, come un branco, sotto la luna. Tutti sparsi, mescolate le compagnie. Ogni tanto un alt: mi getto a terra e quasi mi addormento. Si vede un passo, sarà lì? Si raggiunge, si continua sempre, un altopiano. Finalmente un biancheggiare lontano, è un paese. Ci siamo: lì si trovano i muli. Ci si ferma a un incrocio. Son le 3,15; 12 ore di marcia quasi. Ma ancora non si è arrivati. Decobelli va a prender ordini. Gli uomini, che non ne possono più, si stendono nei teli per dormire. Alle 4 li svegliamo: dobbiamo andare a “prendere posizione”. Diamo i viveri. Decobelli annuncia che dovremo marciare per 5 giorni e che i viveri sono per 2. Poi ci muoviamo e continuiamo a salire per mulattiera. Io sono esasperato! Ora si esagera. Mi sfogo con Zipper. Gli uomini sono muti, sbalorditi. E poi quando si arriva a brontolare noi loro tacciono di solito. Alle 6 ci fermiamo all’inizio di una cresta. Decobelli ci chiama e dice: “Ora, altro che portare le armi! Andate lì nelle piante coi vostri plotoni e dormiamo!” vado subito: è un pendio scosceso e sassoso con qualche pino. Finalmente trovo un posto meno peggio, un paio di metri piani a monte di un pino, stendo il sacco a pelo e mi addormento. Son le 6 e mezzo. Mi sono svegliato stamani alle 11. oggi si è rimasti qui tutto il tempo. Alle 5 ordine di prepararsi; e poi invece di aspettare, che devono sfilare prima gli altri battaglioni. La meta ultima è Elbasan! Lontanissima, malarica. Questa è stata la nostra ritirata! La ragione ancora non si conosce. Non si sa nulla di cosa sia successo intorno a noi sentiamo solo rombare il cannone verso Coriza. Ebbene, il morale dei nostri uomini è stato scosso. É l’individualismo italiano che li ha salvati. Non si abbattono per lo scacco, in fondo i soldati se ne fregano, secca loro di dover camminare tanto, ma in fondo hanno il solito buon umore. Non si dice loro nulla e loro non ci pensano troppo. Un po’ si però e discutono tra loro su come avrebbero dovuto fare. E poi ironizzano: “Gli alpini conquistano la Grecia -diranno i nostri giornali!-La grande avanzata degli italiani”. E allora per forza l’Italia ufficiale, che non sente loro come purtroppo tutto il popolo, scade ai loro occhi di molto. Ma sono buoni ragazzi, ai quali puoi chiedere tutto e anche di più, sempre. 25 NOVEMBRE. Mentre si aspettava di partire dai pressi di Voscopeion venne naturalmente il contrordine che dovevamo lasciar sfilare prima il Morbegno e l’Edolo. Ci si accomodò allora per dormire alla meglio e solo a mezzanotte e mezzo si partì. Buio pesto, sentiero difficile, sassi continuamente. Si inciampava, pieni di sonno, freddo e fame. Ogni tanto delle vomitate degli altri 2 battaglioni, che avevano distribuito tutto il cognac e l’anice per non lasciarlo ai greci ed erano mezzi ubriachi. (Alle autocarrette fu levato il magnete e qualche altro pezzo essenziale). Si trovavano poi spesso casse di bombe da 45 e munizioni lungo il sentiero. Io ero riuscito a ridurre il mio sacco leggerissimo. Si camminò fino alle 8 circa sulla cresta dei monti arrivando in vista di due vallate che si univano. Ci si fermò un’oretta a mangiare e poi si scese in fondo fino al torrente. É strano come qui il fondo valle sia unicamente costituito dal letto del torrente, da cui salgono montagne scoscese, argillose, con pochi cespugli e molti calanchi, come quelli dove siamo noi. Ginepri sempre. Qui saremo a 1200 metri, si vede la neve vicino e fa freddo. Si risalì poi la montagna da questa parte, eravamo molto stanchi e si arrivò al paese (3 case, in muratura però) di Protopapa. Pioveva. Arrivati, si ebbe la notizia che bisognava sistemarsi qui a difesa. Elbasan ancora a un centinaio di km. la strada arriva a 10 km indietro. Il Maggiore fissa i settori alle compagnie. Noi sulla destra a un quarto d’ora dal paese, tra i calanchi. Zipper viene mandato ancora più a destra su una punta isolata, con 2 fucili mitragliatori e 1 mitragliatrice. Mazzali posta le 3 armi e la compagnia con me, ma un po’ sopra. Si piantano le tende, mascherate dai cespugli. E si comincia a tirar la cinghia. Il giorno dopo io vado in paese. Mi danno al comando un po’ di sale e di farina gialla. Riesco a trovare delle cipolle e compro un po’ di pollastro per 25 leck (30 lire), la sera altri 2 per un paio di scarpe nuove piccole, che non vanno a nessuno. Qui le scarpe le guardano ammiratissimi, perché hanno solo delle specie di ciabatte rotte. Qui bisogna barattare perché denari non ne vogliono. Il mangiare diventa preoccupazione dominante. Già alcuni alpini sono andati a prendere delle pecore. (Ci sono molti greggi qui nella valle). La razione degli uomini è mezza scatoletta e mezza pagnotta piccola al giorno. (Bisognava vedere ieri come mi pregavano per avere un pugno delle briciole rimaste in fondo al sacco). Da 3 giorni si sente solo parlare di mangiare desiderato. Pensa una polentina con gli uccelli!...Io stesso mi
sorprendo a pensare intensamente a pranzi e la notte sogno sontuose abitazioni e pranzi. Il pollo col suo brodo e la polenta (integrale) è stata la nostra consolazione e lo è tuttora. Ma un pollo al giorno in 5 è poco! Rimedio con un po’ di scatoletta e con la cipolla, che è la mia frutta e verdura. È un fatto che mi ha messo finalmente a posto lo stomaco e l’intestino. 26 NOVEMBRE. Ieri si è sposata Giuliona! E non ho nemmeno potuto mandarle il telegramma. L’avevo fatto il 21, ma il 21 ci fu la ritirata. Ieri pomeriggio sono venuto col plotone a dare il cambio a Mazzali. Dormo in una tendina con Pedra. Postazioni, pattuglia, vedette, ecc. da stamani è cominciato qualche colpo di fucile e di fucile-mitragliatore e anche i “ta-pum” dei greci, sulla sinistra: pare ci sia il 6 (reggimento) laggiù. Ho sentito anche arrivare una pallottola a pochi metri da me, ma deve essere roba di pattuglia. “Ta-pum ta-pum”. In ogni modo questa è la linea che dobbiamo difendere e siamo pochi uomini con poche munizioni (non sono state reintegrate), affamati e quindi deboli, su un fronte vasto, senza rifornimenti o quasi. Hanno potuto segnalare con l’aereo dal posto a terra e un po’ di viveri sono arrivati. Credo per la strada e poi coi muli, ma è una via scarsa. A sinistra c’è l’Edolo, ma non si sa dove. Crivelli, che è andato a cercarlo, non ha dato notizie per 48 ore. Così non sappiamo nulla dell’andamento della guerra nemmeno attorno a noi. Sappiamo solo che qui non potremo avere un attacco in forze, perché anche i greci non hanno che quei pochi sentieri. Ma ho l’impressione che qui siamo i paria della guerra. La dovranno vincere gli altri e solo allora noi ce ne potremo andare. È passato ora un pastore col gregge, aveva un bel pastorale ed era contento. Gli ho chiesto del latte, ma non ne aveva. Ha tirato fuori da una bisaccia un pezzo del loro pane azimo e lo ha spezzato tra me e Saronni con gesto antico. Poi ha mostrato un altro pezzo, facendo capire che non lo poteva dare, perché era per lui e suo figlio. Non ha voluto soldi e ci siamo lasciati da amici sorridendo. 27 NOVEMBRE. Ieri sera si è raggiunto il parossismo, non certo l’ultimo però, non c’è limite ormai. Alle una ordine di partire. Si sale il monte per 400 metri (io ero stanchissimo, senza forza). Ci si ferma, freddo cane, c’è la neve poco sopra. Dopo attesa ci mettono in postazione. Mi danno un fronte di mezzo km. cerco le 3 postazioni per i fucili-mitragliatori. Destino il posto per le tende. Ci arrangiamo Pedra ed io sotto un albero. Ceno con un po’ di galletta e di cipolla. Gran fame. Vado su da Decobelli, bevo un sorso di caffè. Viene l’ordine di partire. Si fa alzare gli uomini appena messi giù, son già le 7. Al buio non ci si ritrova e finalmente, ruzzolando tra sassi e sterpi, si arriva al comando di battaglione. Lì si aspetta in terra al freddo. Dopo poco contrordine: si resta qui. Si torna su, ci si mette a dormire all’addiaccio. Freddo cane, la brina stamani addosso. Per fortuna è sereno e c’è il sole. Aspetto Decobelli e poi dispongo per tutte le postazioni del plotone. Verso mezzogiorno ordine di tenersi pronti a partire. E qui siamo ad aspettare da qualche ora. Intanto fame, fame, fame. Mangiamo una scatola di 400 grammi di tonno in 5 e il solito pollo in 6, più mezza pagnotta. Decobelli s’incazza con me perché avevo aperto il tonno. Ma ne abbiamo altre 2 scatole, cioè la razione di oggi, più 2 scatolette di carne. Non bisogna esagerare con la prudenza, quando non si sta in piedi dalla fame. Ora per esempio ho di nuovo fame, che farei un pranzo. Ma quello che mi fa rabbia davvero è aver sentito che il Maggiore va facendosi bello, dicendo ai superiori che il battaglione sta benissimo e non ha bisogno di nulla e che ha i viveri a sufficienza e ne dà agli altri battaglioni. E loro al comando son pieni di polli, acquistati col sale che è di tutto il battaglione e che non danno che a pugnetti per misericordia. Oggi poi hanno dato, oltre la mezza pagnotta e un quarto di scatola di tonno, una pecora di 20 kg per tutta la compagnia (200 uomini). Ho assistito alla spartizione e portato i miei pezzetti per il plotone, che ho diviso tra le squadre. Diviso per ogni uomo è toccato un boccone-dico un boccone- per me, che hanno arrostito su uno stecco, brontolando figurati come. E per di più, nel distribuire gli undici pezzi (che, stando seduti, avevo allineati sul mio ginocchio perché ognuno prendesse il suo) uno è mancato e il caposquadra si è dovuto rosicchiare l’osso. E tutti dicevano: “Chi è quel disgraziato che ne ha preso due?” ed era uno di loro. La fame! Oggi poi ho avuto notizie scoraggianti: intanto che ai nostri lati ci sono altre truppe (fanteria, ecc..) che stanno peggio di noi, come viveri e condizioni. E poi che anche il resto del fronte si son dovuti ritirare. Ci stiamo facendo una bella figura! E chissà quando potremo rifarci! Si sperava venissero truppe fresche a sostituirci ma non mi pare impianto. Ma basterebbe che, con po’ di buona volontà, facessero arrivare viveri sufficienti (ora la strada è qui dietro) e un po’ di vino, cioccolato, ecc.., munizioni e il reggimento sarebbe efficientissimo. Invece contano sulla proverbiale sobrietà e resistenza del soldato italiano e ci troviamo nel 1940 in queste condizioni. 28 NOVEMBRE. Sto patendo la classica fame, i cui sintomi sono questi: senso di fiacchezza, testa vuota e ogni tanto indolenzimenti allo stomaco e alla pancia. E un perenne senso di vuoto allo stomaco che piega in 2. Ieri sera dunque si rimase tutto il giorno ad aspettare e alle 5 e mezzo si seppe che si rimaneva qui; si piantò le tende. Da ieri a mezzogiorno dopo quella poca roba non ho preso altro. Stamani un po’ di latte condensato appena. Stiamo aspettando con ansia la spesa. Sto tutto il giorno o al sole o attorno al fuoco con la 9 squadra. Parlando poco; se si parla è di mangiare. Ieri morì un mulo di stenti: l’avevamo trovato fermo l’altro giorno venendo su. Il Maggiore voleva un esame medico, ma il medico non se ne intendeva. Il fatto è che ieri sera gli alpini lo hanno spolpato. Il fuoco è di ginepri ed è profumato. Stamani si è spostato in giù il comando di una compagnia. Io ora sono estrema destra con una mitragliatrice. Ieri sera si sentì cannoneggiare, anche dai nostri pezzi dal fondo valle, a sinistra. Stamani sono passati 10 apparecchi nostri da bombardamento, scortati da 15 caccia. Sono andati in direzione del lago di Ocrida e poi da lì si son sentiti vari boati di bombe. Si vede che i greci sono andati avanti sulla strada del lago (che è quella che si fece noi venendo qui). Non si può dire davvero che questa guerra sia sentita dai soldati: “Vincano i greci o gli italiani, basta far presto a andar via di qua”. – “Vigliacchi quelli che hanno inventato la guerra”.- “Se comandassi io, pace dappertutto; cosa stanno lì a leticarsi e combattere!?”- “Quelli che gridavano viva la guerra, adesso staranno a casa a mangiar bene. “Ecc..ecc..L’altro giorno pio un ufficiale spiegava agli indigeni di Protopapa come per il grande soprannumero dei greci ci si era dovuti ritirare. E l’albanese gli tappò la bocca chiedendo: “Perché siete entrati in guerra allora?” io naturalmente non muto la mia fiducia ferma nella “nostra” vittoria. É arrivata la spesa: mezza scatoletta e 2 gallette.

 

Sottotenente Antonio Marzotto Caotorta Comandante il 3^ Plotone della 48^ Compagnia (Fronte Greco-Albanese - 4^ Parte)

29 NOVEMBRE, ACCANTO AL FUOCO. Da ieri si comincia a star meglio. Ieri pomeriggio arrivò la spesa finalmente e anche munizioni e da oggi si mangerà normalmente. Il tempo continua bello e non è troppo freddo. Si che gli animi si sono rasserenati e distesi. Ieri poi si è sentito sparare e pare che i greci non ci siano più davanti a noi. Così ieri sera siamo stati davanti al fuoco fino alle 10. (Di solito si va a letto a buio come le galline; al mattino ci si alza alle 9 e come vita non è punto male). Ed avendo la pancia non dico piena, ma che almeno non reclamava, ieri sera si chiacchierò un po’ di tutto: si parlò degli italiani e dell’Italia e di quello che valgono. Lo stesso discorso proprio che aveva fatto Giulia con Caccia e Luigi a Lentate. Solo in ben altre circostanze e credo con più obiettività e spontaneità. Prima di tutto dunque gli uomini rivelavano molta fiducia nella Germania: “Ci vorrebbe quella ad aiutarci. Quella farebbe presto”. Al che naturalmente obiettavo che noi vogliamo fare da noi e non abbiamo bisogno di nessuno. Come popolo poi, naturalmente, le solite antipatie. Pedra poi disse una frase che sintetizzava l’opinione loro: “Ho idea che in Italia non ci sia organizzazione; che non si possa riuscir bene in quello che si fa, perché non si organizza bene”. È una gran verità. È quello che sente il popolo, che manca quella serietà nell’intraprendere qualcosa che è garanzia di riuscita piena. Io spiegai come era nostra prerogativa l’improvvisazione e la mancanza, è vero, di disciplina organizzativa. Ma insistetti sul fatto che manca la coscienza. Coscienza del proprio dovere. (Si che troppa gente, anche in posti di responsabilità, pensa più a guadagnare e magari rubare, non a lavorare per gli italiani). Altro fatto poi è apparso assai chiaro ( e su cui ho sempre insistito) è che sentono il Partito come organizzazione staccata e imposta alla vita italiana, la GIL (Gioventù Italiana del Littorio) come un’istituzione che abitua i ragazzi al lazzaronismo e basta (andar in giro invece di lavorare). E poi naturalmente la solita posizione passiva di fronte al governo, sentito come un ente estraneo che domina. Insomma confermo la mia convinzione che sia necessario abolire la dualità di partito e non partito e far si che ogni italiano si senta direttamente partecipe della vita nazionale e si finisca di considerare i fascisti “ Il partito di quelli lì”, come estranei e diversi dal popolo. Quindi arrivare alla normalizzazione, abolire il partito, che tutti si sentano italiani e lavorino come tali per l’Italia. (Certo che ancora è necessaria l’azione di spinta del partito; ma non si potrebbe renderla normale attraverso le comuni istituzioni?). Certo che poi mi rendo conto che quasi nessuno considera e pensa all’Italia come la considero e penso io. Cioè non come qualcosa di sopra a me, diverso e distinto con cui ho dei rapporti; ma come qualcosa di mio, che fa parte di me, che mi sta a cuore come la mia famiglia. Non è una cosa di cui posso far a meno di occuparmi, perché fa parte di me stesso e quindi me ne interesso come di cosa mia e la difendo sempre, e voglio far di tutto per renderla come deve essere. 30 NOVEMBRE. Ieri sera ho ricevuto 3 lettere di Giulia: le ho lette alla luce del fuoco. Mi hanno messo addosso ancora più desiderio di finirla presto. E invece ieri ho letto il testo del discorso del Duce del 18 novembre, dove dice che “o in 2 mesi o in 12 non importa, ma vi assicuro che la Grecia la vinceremo”. E ora ho la sensazione che questa guerra duri un bel pezzo. E anche qui in questo posto chissà quanto ci resteremo! E intanto stamani è venuta la neve! Con un nebbione. Il Maggiore ha trovato un’arma senza uomini. Cazziatone, 5 giorni A.R. (Arresti di rigore a me, che naturalmente essendo qui consistono solo in una trattenuta sullo stipendio, in Italia). Mai tardi. (E’ il motto del 5 alpini....). Dopo smise di nevicare, ma sempre tempaccio. A mezzogiorno Biffi della 9 (squadra) si ferisce. Io arrivo su: era solo in tenda, pare sia partito un colpo da un fucile mentre prendeva una mantella in cui era impigliato. Gli passò il piede. Mi sono subito messo d’accordo per dire che era appena smontato di guardia e aveva posato il fucile in quel momento. Naturalmente sospetto di autolesione (per tornare a casa) da parte dei superiori: (Ieri uno si era ferito alla 49....) io lo escludo, perché è un bravo ragazzo che conoscevo e in questo senso ho fatto la mia dichiarazione. Ma non si sa almeno il Maggiore non se l’è presa con me questa volta. E pare che anche lui non lo manderanno sotto processo. Poi ho trovato una cassetta di munizioni senza pallottole: qualche lazzarone l’ ha buttata via. Ho fatto la rivista alle altre. Speriamo che questa sia la terza ed ultima. E intanto: fame ancora fame. Dice che noi andiamo a far la spesa a 7 ore da qui, e da lì ci sono ancora 2 giorni. Il fatto è che qui è un guaio. Intorno al fuoco, ora, è silenzioso o quasi, per la fame. Continuiamo a vivere aspettando la spesa. Gli uomini poi stanno male perché non hanno da fumare. Abbiamo allargato il posto intorno al fuoco per starci tutti e 10, 2 son sempre di guardia. Quando arriva la spesa così scarsa, dicono : “Signor, varda so!” (Signore guarda giù, è una espressione tipica della Valtellina). Io mangio con loro, la stessa razione: 100 grammi di tonno, una galletta, un pezzetto di formaggio, un po’ di caffè, che Carissimi (caporalmaggiore) religiosamente fa e distribuisce. Sentiamo sparare sulla sinistra. 1 DICEMBRE 1940. Stamani mi sono svegliato che c’erano 15 cm di neve e nevicava ancora. L’effetto della neve è sempre piacevole, se non fosse che qui significa fango e bagnato dappertutto. Sono stato a messa e ho fatto la comunione, qui al comando di Btg. la spesa è arrivata solo alla una e mezza: non se ne poteva più dalla fame. Ma ora si è mangiato anche una buona minestra di riso (io poi ho preso una coscia di pollo giù da Crivelli) e poi sono arrivate le sigarette. E gli animi sono distesi, si è addirittura allegri. Ho ricevuto poi molta posta. Sono contento stasera. 2 DICEMBRE. Stamani Mazzali si è spostato ed è andato tra la 49 ed il Morbegno, perché ieri c’erano stati attacchi in quella direzione. Io ho mandato la mia squadra di centro (la 8^) al suo posto, stamani prima dell’alba. Ho ora un fronte di 1 km. però in caso d’attacco Crivelli comanderà quel settore con la mitraglia che c’è lì. Io avrò la mitraglia, la 9 e la 7. ho fatto dei biglietti di punizione per 2 vedette della 7 e 2 della 8 e i loro capi-squadra, perché ieri sera avevano acceso fuochi sul davanti: li feci spegnere e di nuovo stamani alle 6 e mezzo erano accesi. Non la vogliono capire di fare sul serio. Ma stasera l’ hanno capito. Verso le 4 hanno sparato 5 o 6 colpi di cannone proprio davanti e intorno. Uno a 30 m. dall’arma della 9. Io stavo salendo, ma adesso l’ hanno capito e nessuno si fa più vedere in cresta. Sono arrivati picconi e badili e stanotte tutti scaveranno. Tutto oggi hanno sparacchiato verso il Morbegno e la 49 e duello dei mortai da 81. Pare che tra poco “La se giri....”. Ieri correva voce che presto verranno a darci il cambio. Ma chissà se è vero! Ho ricevuto una lettera di Giulia e una di Costanza (sua madre) del 22, dove dicono che sono trepidanti e che il mio telegramma del 20 le ha sollevate. Pare che abbiano anche in paese avuto notizia che qui si va male. E Giulia si mette in pensiero anche per il nostro morale. Sono contento però che sappiano la verità in paese. Ho fatto vedere ora la fotografia di Giulia a Carissimi e gli altri. Ha fatto molto effetto! Oggi di nuovo mezza scatoletta, una galletta (gli uomini ¾) e un pezzetto di formaggio. Stiamo facendo digiuno e astinenza. I pidocchi sono diventati feroci, specialmente la notte. E non ci si può spidocchiare, perché fa troppo freddo per spogliarsi. 3 DICEMBRE. E oggi finalmente mi son potuto spidocchiare proprio bene, qui al sole, in una vallettina di pochi metri. Ho steso un telo e una coperta sulla neve e mi son goduto il sole di questa bellissima giornata. Finalmente è venuto! E si che stamani abbiamo avuto un’alzataccia. Stavo finalmente dormendo un buon sonno quando è venuto un portaordini a dirmi di spiantare e andare subito giù col plotone e tutta la roba. Mi è seccato! Il lavoro infernale di fare lo zaino, prendere il telo incrostato di neve, ecc...ecc..., tutto al buio. Bestemmie. Finalmente tutti scendono, io per ultimo. Dal comando di Btg ci si incammina in colonna per il sentiero fangosissimo (dentro le scarpe) e scivoloso, al buio. All’alba ci si ferma. Decobelli mi destina il posto delle squadre. Vado a cercare le postazioni delle armi. Ho una mitra a sinistra e 2 a destra sopra. Tengo la strada (=sentiero). Sul costone davanti a 2 km mettono Mazzali. Zipper è rimasto dov’era a circa 2 ore da qui. Abbiamo così 3 linee. Solo la 48 però. E il povero Zipper è là solo. A me secca un po’ di avere sempre la posizione meno importante, meno esposta. Infatti ieri dissi a Decobelli se voleva che andassi io sul costone davanti e stava per mandarmi, ma poi siccome avevo già postato le armi mi lasciò qui. La ragione dello spostamento è che una compagnia del 6 (reggimento) ha ceduto a sinistra, di là dal torrente Devoli (siamo nell’alta valle del Devoli) e allora si è dovuto spostare l’allineamento su questa seconda linea. Andiamo bene!... Stamattina avevo fame che non ne potevo più. Un po’ di latte condensato, rimasto nel barattolo che Pedra aveva fregato l’altro giorno al comando de Btg (“La prima volta che frego qualcosa!” ha detto...), mi ha messo un po’ a posto. Tutto il giorno hanno sparato qui intorno col mortaio. La sera poi la nostra artiglieria ha sparato un po’ da sopra, a destra. Subito hanno cominciato a picchiare col mortaio tutta la zona. Io ero andato a trovare la 9, i colpi arrivavano a meno di 100 m. ci si acquattava nella fossa che hanno scavato sul rovescio del costone al riparo anche dal mortaio. Si sentivano arrivare e poi si vedevano scoppiare. Una scheggia arrivò fino da Licini che era all’arma, ma piccola e piano. 4 DICEMBRE. “Un mese fa il Maggiore parlò delle 1200 baionette”, ha detto un alpino. È vero, si ebbe allora il primo annuncio ufficiale della partenza. Stanotte freddo terribile, scese un nebbione verso le 3. io gelavo dentro il sacco, soprattutto per l’umido dal di sotto. Pedra a un certo punto mi ha dato tutta la sua roba da coprirmi e se ne è andato al fuoco. Ma ormai il mal di pancia mi era venuto. Son stato male tutta la notte. Stamani ho preso una pasticca di laudano e mangiato un po’ di cipolla e ora sto bene. Ho mangiato poi un’ottima minestra di riso di Pedra. Ho ricevuto una lettera di Giulia, dove dice che mi immagina sempre eroicamente avanzante alla testa del plotone, e invece son qui a patire il freddo e rompermi le scatole. Ma non ne ho il tempo. La giornata passa presto in fondo. È tornato ora Pedra dal comando di compagnia. Gran notizia : Coriza riconquistata! La notizia è bella e vuol dire molto.... 5 Dicembre ORE11. ....ma non pare sia vera. Il fatto è che noi ci dobbiamo ritirare ancora. Già ieri sera c’era l’ordine di tenersi pronti. I greci erano stati visti a Protopapa dai nostri esploratori. Pare che il 3 (reggimento) fanteria abbia ceduto a destra. Ci ritiriamo sulle montagne in fondo alla valle. Pensare che ieri proprio Giulia mi scriveva che non poteva immaginare che io prendessi parte a una ritirata. E invece la realtà è questa. E ti insegna a essere realista e non avvilirti mai. Certo è duro dover dire ai propri uomini : “Fate gli zaini che si parte, si va ancora indietro.”- “En và bén!...” (rispondono). Stanotte Pedra è stato accanto al fuoco tutta la notte per darmi la sua coperta e ho potuto dormire (solo alle 3 contrordine) e soprattutto non ho più mal di pancia, che è una gran cosa. Pare dunque che in paese abbiano saputo della ritirata da Coriza. Ma dice che al fronte non lascino arrivare giornali, perché non si veda le balle che ci scrivono. Ho trovato solo ieri al comando un “Libro e Moschetto” del 23 novembre: mi interessa. E mi fa un certo effetto vedere come è considerata e vista la guerra al GUF (Gruppo Universitario Fascista) di Milano e qui. Ci si sente superiori, con le spalle al muro, dalla parte di chi ha ragione assolutamente a esser qui, al fronte sul serio. Si sente di poter far tacere tutti gli altri. Ora aspettiamo l’ordine di partire che dovrebbe essere a mezzogiorno. Siamo al solito di retroguardia. Tutti gli altri sono già partiti. L’unico rumore è il frusciar del vento in un piccolo pino. Fa molto freddo. 6 DICEMBRE. Ieri dunque abbiamo finalmente avuto la prima giornata di combattimento. Ma, scalogna, io non ho sparato, né ho visto questi benedetti greci. Verso mezzogiorno (Zipper era già ripiegato fino a noi) cominciò a sparare Mazzali davanti a me. I greci sparavano forte. Sono andato subito al posto di combattimento col plotone. Cominciarono a fischiare le cic cic- sul terreno e sulla neve. E poi mortai, ma più di ¾ non scoppiavano, il colmo della fortuna! Un paio proprio sotto di noi sono arrivati a pochi metri -cuif- e non scoppiavano. Invece è scoppiato esattamente dove c’era poco prima la mia tenda. Mi è piaciuto molto sentir tutto quel fischiare e scoppiare e non mi ha fatto impressione ne paura. Dopo un po’, quando ormai si era ritirato tutto il 1 plotone meno un’arma, Decobelli fece ritirare anche il mio e tenerlo riunito dietro. Un’arma sola rimaneva in cresta, vi andai con Gavazzi e Piazzini. Ormai anche Mazzali era arrivato con l’ultimo uomo e un ferito a una gamba. Io aspettavo di veder spuntare i greci, ma non venivano. E poi Decobelli mi disse di partire anch’io. Un km più indietro trovai Zipper e Crivelli piazzati. Proseguii e mi rimpiazzai a mia volta. Zipper sparò un po’. Poi proseguimmo senz’altro, ormai sganciati. La pista oltremodo fangosa, mai visto tanto fango. Si scese una cresta, si risalì il monte. Eravamo stanchi, lo zaino pesava. Si trovarono molti indigeni che vendevano pezzi del loro pane giallo a prezzi inauditi. Ci fu chi lasciò guanti e penne stilografiche e perfino mantella per un pezzo di pane. Scene selvagge di rabbia. Finché Crivelli molto opportunamente sequestrò a uno di essi tutto il pane e anche il denaro che aveva già avuto. Si trovò anche un mulo sventrato da cui avevano tolto molta carne. Triste spettacolo. Si arrivò finalmente ad un paese, dove ci si fermò un po’ e si calmò quel certo eccitamento che c’era, sia per il combattimento sia per quelle scene con gli indigeni per via del pane. Si passò il paese. C’era lì la 46, che poi fece lei da retroguardia. Le case erano solidamente costruite in pietra, con un certo gusto e un sapore medioevale. Finestre piccole e ben fatte. Ho visto anche un rozzo minareto. La solita gente che ti guarda, muta, antipatica, estranea. Si prosegue ancora, si sale, si ritrova la neve, gli alberi coperti di neve che ti gelano il cuore, perché sai che ci devi passare la notte in quel freddo senza speranza e senza viveri! Finalmente, circa le 6, si arriva ad un passo con molta neve e vento. Gli uomini molto stanchi, una sola galletta e mezza scatoletta in corpo dal mattino. Decobelli mi destina proprio la sella. C’è lì Ripamonti con un plotone che mi cede il posto. Piazzo le armi, faccio montare le sentinelle. Vado accanto al fuoco. C’è anche Decobelli: pare che il posto sia provvisorio. “Ma ci son 200.000 nostri soldati a Tirana –dice –speriamo che li possiamo rifarci presto”. Facciamo il caffè, ci mangio la galletta rimastami. Viene la luna, si calma il vento. Faccio un’ispezione, mi sento più sereno. Passo la notte nel sacco in terra accanto al fuoco. Stamani i greci sono di già in fondo valle. La 46 che è al paese spara. Spara l’artiglieria da montagna da dietro noi. Ora (pomeriggio) hanno piazzato i mortai sulla cima alla mia sinistra, dove c’è Zipper. C’è molto vento freddo, ma c’è un po’ di sole oggi i viveri sono stati quasi abbondanti (in confronto al solito). Ancora non piantiamo le tende, perché non si sa se proprio si sta qui, sebbene si senta dire che è questa la linea ultima. Il colonnello è pistato indietro in fondo valle, al paese, dove c’è la (strada) rotabile famosa, che pare non sia lontana, finalmente!

 

Sottotenente Antonio Marzotto Caotorta Comandante il 3^ Plotone della 48^ Compagnia (Fronte Greco-Albanese - 5^ Parte)

10 DICEMBRE. Giorni densi gli ultimi 3, soprattutto stancanti. La mattina del 7, alla una di notte, mentre finalmente dormivo in una tendina alla meglio, fui svegliato da un portaordini che mi diede un biglietto scritto al lapis dal Comandante. Nevicava: al bagliore del fuoco con molta fatica lo decifrai. Al mattino la 48 avrebbe attaccato il paese di Dusciar (quello davanti): adunata per le 7 da Zipper. Continuai a dormicchiare, ma oramai la tenda era allagata, il sacco a pelo bagnato. Alle 5 e ½ mi alzai, anche per non continuare a stare nel bagnato. C’erano gli uomini tutti bagnati, che avevano passato la notte nel fango attorno a un focherello stinto. Feci preparare il caffè, intanto fu fatta la spesa, distribuita in fretta al buio,tra le bestemmie e il fango. Scomparvero delle razioni! Il cameratismo manca troppo spesso tra questa gente. Qualcuno ce l’ ha, ma molti no e fregano tutta la massa. Mi arrampicai sulla cima della adunata. Appena venuto Decobelli si partì, in fila giù nel sentiero. Gli uomini tacevano. Su tutti faceva una certa impressione il fatto che si andasse all’attacco. Io ero contento: finalmente! Si scese un valloncello. Decobelli si fermò con il comando, i mitraglieri e Zipper. Mazzali ed io fummo mandati ad attaccare le ultime case del paese, le più basse. Scesi fino verso il fondo del vallone, al coperto. Presi gli accordi con Mazzali poi avvisai gli uomini e spiegai l’azione che intendevo fare. La sensazione bella di scavalcare per primo la cresta e andare avanti. Giù di corsa fino al torrente, per uno scoscendimento tutto sassi. In fondo mi fermo al coperto, ci si riposa un po’. avviso i capisquadra: io avanzo con la squadra di centro. Dirigo gli sbalzi delle altre 2 con i cenni. E su di costoncino in costoncino. Una si muove e due ferme. Gli uomini vanno piano perché sono stanchi. Ma non ci hanno ancora sparato addosso. Ormai son quasi sicuro che in paese i greci non ci sono. Un cento metri sotto la casa cominciano a tirarci con la mitraglia. Mi accorgo che sparano dalla cresta di fronte, di là dalla valle. Mazzali intanto ha già raggiunto la casa alla mia sinistra. Ha sparacchiato un po’. ai primi colpi gli uomini si appiattiscono e avanzano più difficilmente. Sono impauriti. Intanto la nostra mitraglia ha cominciato a sparare da dietro a noi. Per fare andare avanti i miei vado avanti solo, così seguono. Raggiungiamo un muretto sotto la casa. Ormai ci prendono di mira. Vedo dietro un muretto una squadra della 46. Mi dico che c’è Meloni in paese. Vado a cercarlo: altro che trovare i greci! Mi dice che loro sono entrati in paese alle 10, sono quasi le 11. Noi si doveva concorrere dal basso (mentre loro scendevano) a rioccupare il paese e scacciare i pochi greci che vi erano arrivati la sera prima. Ma nemmeno la 46 aveva trovato nessuno, erano ripartiti nella notte. Torno dagli uomini. Cerco di disporre le squadre e le armi per poter sparare. Assai difficile, perché ci tirano con precisione appena ci scorgono. Vedo le pallottole arrivare attorno a me: fischiano e picchiano sui sassi. Mirano con gran precisione a ogni uomo. Bisogna stare acquattati. Dopo poco viene Duico a portare l’ordine di visitare quella casa per vedere se ci sono greci e poi rientrare. Subito 4 o 5 vogliono entrare con me. Ne prendo solo 3. la pistola nella destra, una bomba a mano nella sinistra con la linguetta vicino alla bocca. Buttiamo giù il portone del cortile, apriamo la porta, c’è la stalla a pianterreno. Salgo: la casa è abbandonata. Coperte in terra (dormono in terra), qualche piccola cassapanca o media, qualche nicchia nel muro per gli oggetti. Un insieme povero. Visito le camere, il fienile, sparo due colpi nel
fieno. È elettrizzante visitare una casa a mano armata e mi diverto molto. Finalmente la cucina: del pane (il solito giallo) una portoncina chiusa con lucchetti. L’apro a forza: la dispensa, fagioli, ne pigliamo un sacchetto (che poi Canilini mi perderà senza che li abbiamo assaggiati), cipolle. Arriva un ordine scritto di Decobelli di ritirarsi. Intanto han cominciato a tirare col mortaio. Hanno capito esattamente dove siamo. Faccio partire gli uomini e parto per ultimo.Ho il battesimo del fuoco: le pallottole che ti seguono ostinate e i colpi di mortaio, uno a 15 metri non scoppia, uno nello stesso posto scoppia, ma non fa nulla, uno va dietro al sasso dove mi sono riparato e mi cade addosso la terra. È interessante. Non fanno paura. Si vive sulla punta dei propri nervi. Si spera ogni minuto che i colpi non ti raggiungano. E ci si raccomanda a dio, prima di traversare un tratto battuto. Finalmente son partiti tutti. Si esce dal paese. Vi rimangono due plotoni della 46 e li avviso. La mitraglia greca ci segue lungo il sentiero. Solo quando spara la nostra, che la fa tacere, si può camminare. Si gira al coperto e fuori sentiero, alla spicciolata e si torna al passo. Mi fermo a mangiare una scatoletta perché non sto proprio in piedi dalla fame. Alle 2 arrivo a posto, dietro a tutto il plotone. Troviamo solo fango. Il plotone della 49, che era venuto a tenere il mio posto in mia assenza e gente della Comando, ha rubato dagli zaini dei miei molta roba, tra cui i pochi viveri che vi avevano lasciato. Altra prova di cameratismo e lealtà! Mo sono appena seduto che il Maggiore mi manda a dire di salire dove è lui (la cima a sinistra) col plotone. È il colmo! Gli uomini sono stanchi e affamati, hanno rischiato la vita (tutti riconoscono la speciale protezione del Signore) e hanno da piantare le tende e fare un po’ da mangiare: invece partire ancora. Li raduno e vado. Il Maggiore mi dice di raggiungere di nuovo Decobelli. Porto il plotone un po’ più sotto, lo lascio in un bosco e scendo solo con un uomo da Decobelli. Questi ha il cappotto passato da 5 colpi. Anche loro non sono defilati dalla mitraglia greca, che si è spostata di là a valle. È il Maggiore che ha dato l’ordine di rimaner lì. Decobelli è furioso e dice forte che il Maggiore è un cretino. Quest’ordine e quello dato da me dipendono dal fatto che il colonnello ha detto di resistere....Ma quello di Decobelli non è un posto da resistere, ma solo da farsi fregare. Finalmente vien l’ordine di ripiegare. Io rientro col plotone. Decobelli ha detto che ho fatto benissimo a lasciar su il plotone. “Per la roba rubata, faccia un elenco”. Pare che il Maggiore prenda dei provvedimenti. Finora la sola cosa è che ieri sera è arrivata mezza scatoletta in più. Passiamo un’altra notte al bagnato e nel fango. Al mattino mi alzo avvilito, stanco, senza un posto asciutto, un focherello appena tra il fango. Non so dove andare, gli uomini mi fanno pena. Continuiamo a dar poco da mangiare, quello del mangiare è sintomatico. Tutti rubano sulla nostra spesa, tutti. Forse il caposquadra è l’unico a non farlo. E naturalmente il soldato ingigantisce i furti che avvengono nelle varie tappe che fa la spesa prima di arrivare a lui. E naturalmente sarebbe lui il primo a fregare quel che può. È la piaga dell’esercito italiano e in fondo di tutto il popolo, troppo pochi i galantuomini, un’eccezione. La regola è arrangiarsi, senza riguardo per nessuno. Non c’è onestà, non c’è coscienza, perché non c’è dignità. E sfido io che non c’è coscienza imperiale. Come può essere imperiale un popolo che frega anche il compagno che si sacrifica per lui?! Ma lo sarà!! FEBBRAIO 2003. Fin qui ho copiato quanto avevo scritto “col lapis” nel quaderno tutto sciupato, che ho ritrovato in soffitta dopo tanti anni. Il diario finisce, qui perché non c’erano più pagine nel quaderno. Certo non avrei potuto immaginare che la mia presenza al fronte sarebbe finita il giorno dopo. Per completare il diario aggiungo adesso quanto ricordo di quella conclusione. 10 DICEMBRE 1940-sera. Per migliorare la nostra sistemazione mi trasferisco, con l’inseparabile Pedra, sotto una roccia sporgente, che ci ripara dalla pioggia ed ha davanti un’altra roccia che ci protegge dalla vista dei greci, i quali stanno arrivando in fondo alla valle sotto di noi. Nel pomeriggio mi arriva l’ordine di andare ad ispezionare le case sottostanti, di là dal torrente sulla nostra destra. Aspetto che si faccia buio e poi con due uomini ed anche il Pedra faccio la strada che vi conduce. Le raggiungo, ma non c’è nessuno in giro: gli abitanti sono ormai chiusi in casa. Decido perciò di entrare in una di esse per controllare se ci sono greci nascosti e picchio alla porta. Naturalmente non mi rispondono, ma insisto molto finché un uomo viene ad aprirci. Entro con la pistola in pugno assieme ai miei due uomini, mentre Pedra va ad esaminare il cortile. Giriamo per la casa, saliamo le scale, entriamo nelle camere da letto: le donne ed i bambini sono in piedi e ci guardano in silenzio, impauriti per questi intrusi con la pistola puntata. Ma noi non tocchiamo nulla e nessuno. Di soldati greci manco l’ombra e quindi, dopo aver guardato dappertutto, usciamo e ritroviamo il Pedra. Il quale era andato anche nel pollaio, dove aveva preso un pollo e, tiratogli il collo, se lo era portato via sotto la giacca. Torniamo al nostro posto, ben sistemati tra le due rocce. 11 DICEMBRE. Il mattino ci godiamo un ottimo brodo di pollo, che Pedra cuoce sciogliendo le neve. Ma nel pomeriggio mi arriva l’ordine di tornare ad ispezionare in forze il villaggio dove ero appena stato, perché sembra ci siano infiltrazioni nemiche. Raduno perciò gli uomini dell’ottava squadra, uno dei quali, come in ogni squadra, è armato di fucile-mitragliatore e ci incamminiamo. Non vediamo nessuno ci spostiamo fin davanti alla prima casa. Improvvisamente ci sparano addosso da sotto. Urlo allora agli uomini di andare dietro la casa e da lì tornare indietro. Strappo il fucile-mitragliatore dalle mani di chi lo portava e mi metto a sparare contro i greci che si avvicinano facendoli smettere di sparare, per permettere così ai miei di ritirarsi. E infatti vedo cadere uno dei greci. Per ultimo mi ritiro anch’io e, visto che lì non c’era più nessuno dei nostri, mi incammino su per la strada che dal villaggio sale verso il torrente e poi verso la nostra posizione. Ma i greci ci inseguono e mi sparano addosso. Vedo arrivare sulla strada intorno a me i proiettili, che sollevano schizzi di terra. Spero di cavarmela. Ma prima di arrivare alla curva che scende al torrente, mi arriva un colpo nel ginocchio sinistro e cado per terra. La prima preoccupazione è che qualche greco venga a spararmi da vicino, ma per fortuna vedo che invece salgono al di sopra della strada su per la montagna. Comunque per precauzione slaccio la fodera della mia pistola per poterla prendere più in fretta se fossi assalito. Tolgo poi la stringa dallo scarpone sinistro e con quello fascio stretto la coscia sopra il ginocchio ferito per non perdere troppo sangue. E aspetto, sperando che qualcuno dei miei torni indietro a prendermi. Ma anche un altro alpino è stato colpito mentre saliva di là dal torrente, già più vicino alla nostra posizione, un bravo giovane, chiamato Rosi. Mi grida angosciato: “Sciur tenent, quand’è che vegnin a torme?” (“Quando vengono a prenderci?” in dialetto della Valtellina). : “Speriamo presto! Coraggio!” gli rispondo. Il tempo passa e per fortuna scende la sera, cosicché il nemico non può più vederci. Aspettiamo. Finalmente arrivano due nostri uomini! Mi prendono a braccia, uno per le spalle ed uno per le gambe e, attraversato il torrente, mi portano vicino al Rosi, che però non parla più: lo guardiamo è già morto! Proseguiamo e mi portano fino alla tenda del tenente medico, su per la montagna, dietro la mia roccia. Dove lascio oltre alla mia roba anche il caro Pedra, che non rivedrò più: andrà dopo pochi mesi col 5° reggimento in Russia, da dove non tornerà. Il tenente medico è un amico: mi medica e mi fascia la ferita. Il proiettile è entrato da destra nel ginocchio ed è uscito a sinistra. Gli chiedo se potrò ancora sciare e lui ci ride sopra. Mi sistema per la notte nella sua tenda, ma il ginocchio mi fa molto male. 12 DICEMBRE E SEGUENTI. La mattina dopo due alpini del reparto sanità mi caricano su una barella e mi portano a braccia fino all’ospedale della Croce Rossa nelle retrovie: un viaggio che dura ben due giorni, con fatica per loro e male al ginocchio per me ad ogni loro passo. All’ospedale mi ingessano tutta la gamba sinistra. Vengo poi trasferito al porto, caricato su una nave e portato all’ospedale di Bari. Da qui riesco a far sapere a casa cosa mi è successo. Mia mamma prende subito il treno e mi dà la gioia della sua visita a Bari. Nel viaggio scende però prima a Foggia e da lì va a San Giovanni Rotondo a trovare Padre Pio, che conosce bene da anni. E lui (mi dirà poi la mamma), saputo della mia ferita, le risponde: “Benedetta quella ferita! Gli salverà la vita”. Infatti se non l’avessi avuta sarei andato anch’io in Russia con la divisione Tridentina e vi sarei rimasto, come Pedra. Dopo qualche giorno vengo trasferito ad un ospedale in Toscana. E di questo soggiorno ho la seguente descrizione, che ho scritto pochi anni dopo. DICEMBRE 1940. ” Così giovane, così ferito!” dice la signora di Lucca che mi sta curando nell’ospedale di Coti, vicino a quella città, dove è venuta a curare un gruppo di militari feriti in Albania, arrivati nella notte con un treno della Croce Rossa direttamente dall’ospedale di Bari. La signora non è sola, perché con lei altre volontarie sono venute qui da Lucca, malgrado sia il pomeriggio di una domenica, per lavare e curare i feriti arrivati dal fronte. Impresa non facile, non tanto per la gravità delle ferite, quanto perché abbiamo addosso ancora il fango e i pidocchi, che, tra l’altro, si sono già installati nelle garze del gesso, con cui mi era stata fasciata la ferita. Le manifesto la mia riconoscenza e ammirazione per questo gesto gentile, ma lei mi risponde che è il minimo che potevano fare verso chi si è sacrificato per loro. Dopo un po’ chiedo di essere trasferito a Firenze, dove, oltre alla mia famiglia c’è un ottimo ospedale ortopedico e lì rimango per un paio di mesi. Ma siccome la gamba ferita non funziona bene, chiedo ed ottengo di essere trasferito a Roma, dove c’è un famoso ortopedico e riesco così almeno a raddrizzare la gamba, anche se non a piegare del tutto il ginocchio. In aprile del 1941 riesco finalmente ad andare a casa. Ed il 12 maggio sposo Giulia. 31 LUGLIO 1942. Sfollati da Firenze per l’avanzare del fronte, Giulia ed io ci troviamo ospiti di mio fratello Franco nella villa Caotorta, vicino a Treviso. Dopo colazione ascoltiamo assieme le notizie alla radio sulla guerra ed improvvisamente noi due ci abbracciamo. Mio fratello e sua moglie, che ascoltavano distrattamente, restano sorpresi e ci chiedono come mai. Rispondiamo: “Hanno trasmesso l’elenco di quelli che hanno avuto la medaglia al valor militare e c’era anche il mio nome.....Medaglia d’argento!”.

 

S.ten. Nuto Revelli (La guerra dei poveri - 1^ Parte)

Avevo nove o dieci anni quando balbettai questo giuramento: “Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue, la causa della rivoluzione fascista”. Ricordo ancora come la scuola divenne una caserma: i maestri in camicia nera, noi in camicia nera. Ho ancora negli occhi le prime adunate, nella palestra della scuola, per le lezioni di canto. Tutti uguali, i piccoli ed i grandi, tutti neri, per imparare l’Inno a Roma, Fischia il sasso, Giovinezza. A quattordici anni lasciai il moschetto finto per imbracciarne uno vero, da guerra. Eravamo già negli “anni eroici”. Ogni sabato, attorno alla casa della GIL imparavamo a camminare, a maneggiare le armi. Urla marziali e colpi di fischietto. Chi scattava, chi se ne fregava. Io scattavo come una molla. Dalle adunate del sabato ai “campi Dux” il passo era breve. In settembre, ai Parioli un’immensa tendopoli accoglieva i giovani fascisti dell’Italia intera, tutti in divisa, tutti uguali. Pestavamo per giorni e giorni il caldo asfalto della Farnesina. Infine la sfilata lungo la via dell’Impero, con il duce, i gerarchi, i generali che ci applaudivano. Col passare degli anni avevo collezionato tante patacche smaltate e medaglie da non saper più dove appenderle. Alternavo il “passo romano” con le gare atletiche. I muscoli si facevano più saldi, non mi stancavo di benedire il duce per i miei successi sportivi. Tutto quanto sapeva di forza mi elettrizzava: le parate militari, le adunate oceaniche. Mi tuffavo nella folla anonima con entusiasmo. Gridavo “viva il duce, viva la guerra” come noi in quei tempi gridavano quasi tutti. I cortei della mia città, invece, mi lasciavano indifferente. Non era folla, era gente, gente da processione del Corpus Domini. I più facevano la faccia feroce, come in processione facevano la faccia computa: due commedie uguali. Gridavano “viva il duce” come noi, come i “figli della lupa”, ma con voce rassegnata, stanca, vecchia. Tutta la gente della città, incontravamo; se ne sapeva vita e miracoli: i nostri fratelli maggiori, i nostri maestri, i nostri professori, il prete, il droghiere, il professionista, il ciabattino. Non mancavano i vecchi, i nonni. Non mancavano gli antifascisti ricuperati, gli ex santoni della maledetta democrazia. In tutto quel nero, spiccava, come una mosca bianca, un vecchio senatore dalla lunga barba. Il mio prestigio di gerarchetto fascista ebbe un duro contraccolpo all’esame di stato. Sapevo tutto sul fascismo, ma ignoravo a tal punto il tonnellaggio delle nostre navi da guerra da confondere i chilogrammi con le tonnellate. Così rischiai un bocciatura in cultura militare. Superai invece brillantemente l’esame per l’ammissione all’Accademia di fanteria e cavalleria di Modena. In quel settembre del ’39, come al solito, ero in giro per l’Italia a fare l’atleta. A Milano mi raggiunse un telegramma. L’Accademia apriva i battenti. Dimenticai i fascetti, le patacche, le medaglie. Divenni soldato. Ingranare a Modena non fu facile. Disciplina rigida, correre senza mai fermarsi, se non per mangiare, per dormire; con gli “anziani” che trattavano i “cappelloni” come ciabatte. Gli istruttori erano severissimi. Tanta ginnastica che non ci riposavamo da una volta all’altra. In più, le lezioni al maneggio, a colpi di frusta, con i cavalli che impazzivano fra bestemmie e invettive volgari: “stringi con le gambe, sembri una vacca”, era il richiamo più garbato. Alcuni non resistevano. Posavano le stellette, e a testa bassa prendevano la via di casa. I più superavano il rodaggio a denti stretti. Una volta alla settimana, lunga corsa in bicicletta fin sull’Appennino, pedalando anche in discesa per via delle gomme piene. Molto studio, su “sinossi” vecchie quasi come il palazzo ducale nel quale abitavamo. Vecchi insegnanti che vivevano nel culto della guerra del ’15, nel culto dei seicentomila morti. Vita poco brillante: alla sera cinquanta minuti – non uno di più – di libera uscita. La mensa era piuttosto scarsa. Si respirava, con l’autarchia, l’inizio del razionamento. Tutto a squilli di tromba: mangiare, deglutire, digerire. Io prendevo tutto sul serio. Non per nulla mi fecero “allievo scelto”. “Sei un tedesco”, mi diceva a volte il tenente, ed era un complimento. Soldato perfetto e tedesco erano la stessa cosa. A Modena esisteva una diversa gerarchia fra il re e il duce. Il re era il “numero uno”. Se nei primi tempi di quest’invasione gerarchica mi aveva turbato, in seguito l’avevo accettata con disinvoltura. In fondo in fondo, il duce non era che un caporale, e la milizia non era che la brutta copia dell’esercito. Non avevo dubbi sull’invincibilità del nostro esercito: con la modernissima mitragliatrice Breda – la migliore del mondo – avremmo vinto la guerra. Ricordo che a scuola d’armi, quando l’accostavamo alle mitraglie con raffreddamento ad acqua della guerra di Libia, il confronto era entusiasmante. Avevo poche notizie sui carri armati. D’altra parte anche gli allievi carristi si accontentavano di studiare queste nuove armi sui complicati schizzi in sezione trasversale e longitudinale. Mai visto un carro armato vero. La regina delle battaglie era ancora e sempre la fanteria. I carri armati, macchine sussidiarie, erano qualcosa di più del necessario. La cavalleria sì, quella contava, con le nuove Breda someggiate! Dell’aviazione sapevo tutto con la storia delle trasvolate atlantiche. Dopo il 10 giugno 1940 studiai la tattica e l’arte militare con maggiore impegno. L’esempio non veniva dall’alto. Il principe di Piemonte, infatti, quando ispezionava l’Accademia, dimostrava di preferire le lezioni di scherma, equitazione e ginnastica. La pesante esperienza del fronte occidentale e l’avventura del fronte greco-albanese restarono sul piano del bollettini ufficiali. I bollettini parlavano sempre di vittoria e ci riusciva facile confondere le nostre ritirate con le avanzate lampo dei tedeschi. Un mattino, quando meno ce l’aspettavamo, l’incanto si ruppe. L’insegnante di storia militare, un vecchio colonnello carico di nastrini, con voce grave, ci disse che il cambio della guardia fra Badoglio e Cavallero era una sventura nazionale. Era uno sconcio che i fascisti osassero infangare Badoglio: Badoglio era l’esercito. Di quel giorno anche il nostro comandante di compagnia, un bersagliere che non sorrideva mai, commentando i bollettini di guerra aggiornò il suo linguaggio: disse che le truppe del fronte greco-albanese, invece di avanzare sempre, con abili manovre, ripiegavano sulle posizioni prestabilite per ritrovare il trampolino di lancio… Con la primavera del ’41 – mentre i tedeschi spezzavano per nostro conto le reni alla Grecia – il mio corso chiuse precipitosamente i battenti. Addio scuola di applicazione, addio divise fuori ordinanza di Farè. Un secco ordine del giorno parlava soltanto dei campi di battaglia, “dell’urgente bisogno di novella energia e fuoco giovanile per la vittoria finale”. Il generale Carboni ci riunì nel salone d’onore: eravamo circa duecento. Disse pressappoco così: ”Da oggi non siete più allievi, siete ufficiali. La guerra va male. Raggiungerete i reparti mobilitati, il fronte. Ricordate che la responsabilità dell’impreparazione dell’esercito ricade sul fascismo”. Finii a Cuneo, al 2° alpini, proprio nei giorni in cui la divisione Cuneense tornava dal fronte greco-albanese. Ero un perfetto ufficiale effettivo. Non chiedevo che di fare la guerra, di pagare la mia parte. Le barzellette, il disfattismo del fronte interno, mi ferivano profondamente. Guardavo la carriera, le medaglie, con naturale interesse: soprattutto le medaglie, perché separavano i combattenti dai piedipiatti del deposito. La prima impressione che provai al reggimento fu poco incoraggiante. Soltanto gli ufficiali ed i soldati del deposito sembravano riconoscere i miei gradi. I reduci, alpini anziani ed ufficiali in gran parte di complemento, mi guardavano come si guarda un imboscato. Subito, al battaglione Borgo San Dalmazzo, venni preso dalla vita del reparto, vita di caserma, fatta di piccole cose inutili per gente che in guerra ne aveva viste di tutti i colori: le fasce ben avvitate alle gambe, i pantaloni su, le giacche giù, il cappello non pizzicato, ma rotondo come un panettone, l’ordine chiuso, ed anche la ginnastica. In più, dopo la rivista ai poveri stracci tornati dal fronte, la distribuzione di un po’ di vestiario. Fu in questo periodo che imparai le prime cose proibite. In piazza d’armi, fra un’istruzione e l’altra, con brevi corsi di orientamento, gli alpini m’insegnarono che in guerra la mitragliatrice Breda s’inceppava, che i mortai greci erano più micidiali delle nostre artiglierie. Raccontando bestemmiavano. Sentivano nel sangue quell’avventura finita male. Io ascoltavo con grande interesse. Cercavo la verità anche se mi feriva: tentavo di buttare il falso per far posto al vero, a costo di sentirmi l’animo vuoto ma pulito. Quando parlavano degli imboscati, dei festaioli del fronte interno, mi sentivo timido e impacciato come una recluta. Erano anziani i miei alpini, erano stanchi, disincantati. Non sognavano che un mese di “licenza agricola” per tornare in famiglia. “Se gente come questa ha fatto la guerra, - mi dicevo, - non devo perdere tempo, devo partire volontario. Soltanto in guerra darò un volto, quello vero, a questa patria che non conosco. In guerra toccherò la verità”. Nell’autunno, dopo i campi estivi, la vita di caserma mi divenne insopportabile. Mi aggiravo in un groviglio di pesanti delusioni. Al fascismo non guardavo più da tempo. I gerarchi, vestiti di nero, sembravano uccelli di malaugurio. Anche i nostri bollettini di guerra mi davano fastidio. La “vittoria finale” mi appariva soltanto di marca tedesca. Ormai conoscevo tutta la storia della guerra di Grecia. Il “clima eroico” era fatto di povera gente mandata al macello con armi vecchie e superate, come i nostri generali. La disorganizzazione logistica era addirittura drammatica. In famiglia mi volevano almeno generale, ma non volevano sentir parlare di guerra: ecco, un patriottismo prudente, del tipo “armiamoci e partite”, che salvasse capra e cavoli. I miei colleghi di complemento diffidavano degli ufficiali effettivi e guardavano ai fatti. Per credere ancora in qualcosa era proprio necessario che partissi per il fronte. Buttai giù una domanda da volontario, alla disperata. L’unico fronte aperto era l’Africa settentrionale. Dichiarai di rinunciare, se indispensabile, alla specialità alpina. Mi convocarono d’urgenza al comando reggimento. Aspettavo un encomio solenne, invece l’aiutante maggiore mi accolse urlando: “Tu chiedi di andare in guerra senza la penna. Cos’hai combinato? Hai messo incinta una ragazza? Hai debiti di gioco?” Picchiarlo non era possibile. Mi chiusi la porta alle spalle. Mi riconvocarono al comando reggimento, e questa volta aspettavo gli arresti. L’aiutante maggiore non comparve. Mi parlò a quattr’occhi il colonnello Scrimin, come un padre. “Tu vuoi partire volontario, vuoi fare la guerra a tutti i costi, - mi disse. – Lo sai che Roma è peggio di una cloaca? Laggiù finirà la tua domanda. Ammiro il tuo entusiasmo, ma non forzare il destino. La guerra verrà presto, per tutti”. Su richiesta del comando dovetti completare la domanda con la frase di rito “per la vittoria finale”. Senza questo atto di fede l’avrebbero bocciata in partenza. Con l’inizio del ’42 – sottovoce – nei reparti alpini si incominciò a parlare del fronte russo. Avevamo una dotazione completa di corde per roccia, ramponi da ghiaccio, funicelle da valanga. Mancavano le scarpe. Ero sempre a Cuneo, al battaglione Borgo San Dalmazzo. La mia domanda era sempre a Roma, neanche avessi chiesto d’imboscarmi. La sera del 31 marzo la Cuneense rientrò in sede dopo cinque giorni di lunghe marce in pianura: con queste “marce di allenamento per la steppa russa” i comandi di Roma giudicarono i reparti alpini pronti per il nuovo impiego. Proprio quella sera trovai in fureria una strana lettera del mio generale con saluti ed auguri per la mia partenza. Partenza per dove? Per l’Africa settentrionale? Due giorni e fui a Rivoli in forza al battaglione Tirano del 5° alpini, divisione Tridentina. Fra il 2° ed il 5° alpini non esisteva alcuna differenza: la Cuneense e la Tridentina facevano parte del corpo d’armata alpino e avrebbero raggiunto il fronte russo contemporaneamente. Tanto valeva che mi avessero lasciato a Cuneo. A Rivoli la Tridentina era in fase di addestramento per una parata a Torino alla presenza del re. Purtroppo le famose “marce di allenamento per la steppa russa” erano state rimandate. Andammo avanti e indietro per giorni e giorni, portando a spasso gli zaini pieni di paglia. L’ordine chiuso non finiva più, le scarpe seminavano chiodi. Finalmente sfilammo in Piazza Castello. Sul palco rosso il re si perdeva fra le greche e le aquile d’argento dei generali. Anche le aquile d’oro dei gerarchi imboscati erano tante. I nostri battaglioni avanzavano massicci. Gli alpini, infagottati nel glorioso grigioverde, con il fucile ’91 a spall’arm, ricordavano la guerra del ’15. Un’allegra fanfara copriva il rumore sordo delle scarpe rotte che battevano l’asfalto. Molti i muli, antichi come le armi ed i materiali ondeggianti sui neri gropponi. Passata la festa s’incominciò a fiutare nell’aria odore di polvere da sparo. Non si parlò più di ordine chiuso, ma di piccole manovre e tiri di combattimento. Il mio battaglione era comandato dal maggiore di stato maggiore M., così inadatto alla vita di reparto che, quando venne sostituito da un ufficiale di complemento, al Tirano ci fu gran festa. Raccontavano che, in una manovra a battaglioni contrapposti, tre alpini dell’Edolo l’avessero catturato sulle rive del lago d’Avigliana, mentre prendeva un po’ di fresco. Non volevano più mollarlo. Lui urlava e quelli niente. Scarpinavano da ore e pensavano che, catturando un grosso comandante, la manovra avrebbe avuto termine. A stento il maggiore si era poi imposto, ma gli alpini l’avevano insultato malamente come si fa con chi non sta al gioco, con chi bara alla morra. Anche il comandante della 46a compagnia non aveva la tempra del guerriero. Era un meridionale vestito da alpino. Con la lunga barba ricciolina sembrava un frate. Era duro, quasi spietato. Non aveva nastrini, ma soltanto la camice rossa da squadrista. Nei primi tempi, quando non ero ambientato, si era provato a sfottermi. Ma la mia decisione nel non lasciarmi pestare i piedi era stata efficace: si era messo a filare diritto e mi considerava un padreterno. A volte parlavamo del fascismo, dell’impreparazione dell’esercito, delle scarpe rotte, del disordine, dell’indisciplina. “La colpa è dell’esercito, non del fascismo”, ripeteva invariabilmente. “Che sia ben chiaro però, - aggiungeva, - la maggior parte degli squadristi sono delinquenti”. Ed i tedeschi? “Gente in gamba”. Alla fine di giugno lasciammo Rivoli per le famose “marce di allenamento”. In barba alle disposizioni dei grandi comandi non camminammo in pianura, ma in montagna. Fu attorno a Giaveno, verso Forno, che cominciai ad apprezzare gli alpini del Tirano. Bestemmiavano peggio dei piemontesi, ma resistevano meglio. Dopo le “marce di allenamento” si parlò di partenza imminente. Il Tirano venne alloggiato nelle “casermette funzionali” lontane alcuni chilometri da Rivoli e la vita del reparto divenne più intensa. Noi ufficiali subalterni contavamo, senza speranza, le paia di scarpe rotte. Metà dei miei soldati avevano le scarpe ritte nei piedi. Il “morale” non era a terra. C’era forse più rassegnazione che scontento. Non esisteva una via d’uscita; la guerra bisognava farla: se dopo il fronte greco-albanese veniva il frontE russo, pazienza! Molta la propaganda di stile fascista; s’insinuava come la peste per creare un clima di voluta incoscienza. Eccola: “I russi, straccioni scombinati che si fanno insaccare a centinaia di migliaia, non vogliono combattere. Avanzano come pecore, con i pulitruk alle spalle. “Anche la popolazione è stanca della guerra e fraternizza con i liberatori dell’Asse: una popolazione primitiva, di tipo africano. Come a suo tempo in Abissinia, basterà una medaglietta, una cartolina colorata, per ottenere in cambio almeno una vacca. Consigliabili le cartoline con su la testa del duce o del re, perché contano doppio”. Non era facile credere in questa propaganda: ma batti oggi, batti domani, qualcosa restava. Una strana circolare, che si riallacciava all’esperienza del CSIR, giunse ai reparti alla metà di luglio. Non parlava di carri armati russi, delle katiusce, dei parabellum. La “circolare riservata” ripeteva suppergiù la solita storia: che i russi erano stanchi di combattere, disorganizzati, agonizzanti. Non mancavano le notizie d’ambiente e consigli di questo tipo: “…l’inverno è molto freddo, tanto freddo che i russi non dormono nei letti, ma sulle stufe. L’acqua è pessima, è consigliabile correggerla con idrolitina”. L’interrogativo più pressante che saltò fuori dalla “circolare” fu questo: per l’acqua c’è rimedio, compriamo polverine finché basta. Come faremo a dormire sulle stufe? Gli alpini del Tirano, in grande parte valtellinesi, erano veri montanari rotti ad ogni fatica, resistentissimi, dotati dell’agilità del contrabbandiere, più svegli che pazienti. Se l’alpino della Cuneense preferiva una pedata ai cinque giorni di consegna, qui avveniva il contrario. La vecchia storia di un capitano troppo severo, lanciato nel vuoto dal terzo piano della caserma, era vera ed eloquente. Tagliati con l’accetta, insofferenti di ogni disciplina formale, salutavano gli ufficiali con la voce e tiravano avanti. Portare la mano al cappello era una fatica inutile. Se giocavano alla “morra”, si infiammavano come meridionali. Guai a chi barava. Per loro la vita militare era soltanto “calusia”, confusione. Dell’Albania, fra il resto, ricordavano i reparti mandati al macello con le sole armi individuali, mentre le mitraglie erano sparse nelle retrovie. Fu proprio in questi giorni di attesa che il problema disciplina balzò all’improvviso in primo piano. Tre alpini dell’Edolo, sorpresi di notte dall’ufficiale di vigilanza del Tirano, non avevano trovato nulla di meglio che pestarlo a calci e pugni lasciandolo lungo e disteso sull’asfalto. Il guaio era grosso. I reparti vennero consegnati in caserma, si riprese l’ordine chiuso come ai tempi della sfilata del re. Poi gli occhi sottotenente S. sgonfiarono, e tutto finì! Quando venne il cambio della guardia alla 46, conoscevamo ormai il giorno della partenza per il fronte russo. A sostituire il capitano squadrista arrivò il tenente in s.p.e. Grandi. Grandi proveniva dalla pattuglia sci veloci di Cervinia, ed i vecchi del 5° alpini lo ricordavano sul fronte occidentale, mentre saltava come un grillo sotto il fuoco delle mitraglie francesi. Non fu difficile intenderci con Grandi. Si liberò di tutte le scartoffie inutili, che riguardavano il numero di spirali di certe molle o raccomandavano l’idrolitina. Si interessò delle scarpe degli alpini. Al comando erano soliti dire che la nostra sarebbe stata una passeggiata. I tedeschi erano ormai nel Caucaso, avevano raggiunto l’Elbruz, e la guerra sarebbe forse finita prima ancora del nostro arrivo su quel fronte. In Italia – dicevano – saremmo tornati attraverso l’Asia e l’Africa settentrionale. Grandi non apprezzava queste barzellette. Il clima allegro, alla 10° alpini, l’infastidiva. Con noi, che già gli eravamo amici, proponeva sovente di dare l’esercito all’appalto, eliminando i generali. Parlava di Zoagli, Portofino, Cervinia, della sua esperienza di turista, sciatore, rocciatore, come un borghese che avesse avuto anche qualche rapporto con l’ambiente militare. Era un po’ strambo, Grandi. Gli alpini però sentivano che con lui si poteva andare in guerra, ed era una vera fortuna averlo comandante. Alla vigilia della partenza, un numero inverosimile di grosse casse raggiunse a Collegno la stazione di caricamento. Contenevano ramponi, piccozze, corde per roccia, funicelle da valanga ed altre diavolerie, insomma tutta la vecchia attrezzatura dei reparti alpini. Quel giorno, all’entrata principale della caserma, il trombettiere ebbe un lavoro d’eccezione. Entravano ed uscivano di continuo grossi generali per l’inchiesta in corso presso il battaglione allievi ufficiali. Noi sapevamo la storia e non c’interessava. Noi partivamo per la guerra e quelli restavano. Tutt’al più ci pareva un po’ strano che avessero cantato Bandiera rossa proprio quelli che restavano in Italia. A Modena, l’ultimo giorno d’accademia, nel sentire le parole coraggiose del generale Carboni ero rimasto muto come se mi avessero bocciato agli esami. Sapevo già che l’esercito non era il fascismo. Ma da sempre avevo creduto che il fascismo e l’esercito fossero l’Italia. Adesso, con le tradotte quasi pronte, cominciavo a rendermi conto che le parole del generale Carboni erano vere solo a metà. Non soltanto il fascismo, ma anche i nostri generali erano responsabili dell’impreparazione dell’esercito. 21 luglio 1942. Una strana partenza, dimenticata, quando ormai la luce azzurrina dell’oscuramento svaniva nell’aria chiara e fredda dell’alba. La tradotta sembrava addormentata. Soltanto a tratti, dai vagoni di fondo, giungeva il nervoso tambureggiare degli zoccoli dei muli. Solo, nella carrozza ufficiali, avevo guardato i campi, le cose che prendevano forma. Ero corso indietro con i ricordi, alle partenze rumorose dei legionari per la guerra d’Africa, per L’Albania. Feste, discorsi di chi partiva, di chi restava. I discorsi più belli erano degli imboscati. Di quelle partenze mi era rimasto negli occhi un legionario d’Africa che, sulla tradotta, piangeva e i suoi compagni ridevano e gli offrivano da bere, ma lui piangeva. Allora vincevamo e partire era più facile. All’improvviso, un canto. Lo sento ancora il canto della 46, lamentoso come un pianto nel primo rotolio della tradotta: “Bandiera nera, è lutto degli alpini che vanno alla guerra, la migliore gioventù va sotto terra”. A Milano, in una stazione secondaria, incontrammo un po’ di chiasso. Il fascio offriva secchi di acqua fresca e medagliette. Una gerarca in sahariana bianca, affannata, elemosinava firme di ringraziamento per il suo federale. Trento ed il Brennero, e l’Italia restava alle spalle. Nei dodici giorni di tradotta, che mi portarono in Russia, vidi la guerra anche se il fronte era lontano. In Austria, in Germania, prigionieri scalzi e stremati lungo i binari. Il Polonia, ebrei a branchi, segnati con un marchio giallo, nelle stazioni a raccogliere i rifiuti. In Ucraina, bambini dagli occhi troppo grandi che chiedevano alle tradotte un pezzo di galletta. In una stazione distribuimmo il rancio caldo agli ebrei. Non ne avevamo da buttar via, ma quella fame ci spaventava. Ogni ebreo tirò fuori dal secchio dei rifiuti una scatola vuota, un bicchiere, una latta. Ogni cucchiaio di brodaglia era un giorno di vita. A Stolpee erano molti gli ebrei; bambini di quattro, cinque anni, donne e uomini anziani, scalzi, coperti di stracci. Passavano da una tradotta all’altra con il secchio e la scopa, come cani rognosi. Parevano dirci che la nostra era una guerra maledetta. Un ebreo vestito di nero, con una strana cravatta a farfalla, correva agitando un bastone: allontanava i bambini dalle tradotte. Sapeva che i tedeschi sparavano senza pietà. Una ragazza, passando lungo la nostra tradotta senza mai sostare, con voce calda, lontana, ripeteva IN latino una preghiera: chiedeva pane. Era un’ombra, sembrava uscita da un mondo di bestie. A tratto, con pudore, si aggiustava gli stracci che la coprivano. Stazioni e paesi distrutti, carcasse di uomini, di automezzi, di carri armati. Cose contorte, cose morte. Vive restavano soltanto le nostre tradotte, con sangue fresco in marcia verso il fronte. Sbarcammo a Novo Gorlovka, in una stazione lontana centinaia di chilometri dal fronte. Subito, appena accampati in un grande bosco, imparammo a temere i partigiani, a odiare i tedeschi. Noi eravamo molto poveri. Noi avevamo i muli, i tedeschi avevano i carri armati. Eravamo mal vestiti e mal nutriti. I tedeschi non mancavano di nulla e ci disprezzavano. Ogni mattina, all’alba, un reparto di Sturm-Staffeln, accampato a due passi da noi, iniziava l’istruzione dandoci la sveglia. A colpi di fischietto, saltando come grilli, i tedeschi si spingevano quasi fra le nostre tende. Cantavano, marciando su una gamba sola, cadevano all’improvviso come birilli spinti dal vento. Anche ventidue oche tedesche, in dotazione al reparto, partecipavano alle manovre. Dondolanti, in formazione spiegata, subivano le improvvise variazioni dei padroni, spinte qua e la malamente. Erano oche vere, e gli alpini le guardavano con grande interesse… Nella lunga attesa di muovere verso la zona d’impiego, verso il Caucaso, uscivamo sovente dall’accampamento per brevi esercitazioni tattiche. Assunte le informazioni di combattimento giocavamo a fare la guerra. Gli alpini sembravano marinai, non fanti. Il terreno chiedeva che strisciassero , tanto era piatto , o che muovessero rapidi con brevi sbalzi .Invece erano lenti , pesanti , e correvano curvi finche raggiungevano il ciglio . Poi , rannicchiati , a testa in su , come dietro una roccia , cercavano su quel deserto qualcosa di rotto , di spaccato , che ricordasse la montagna . Tutto era inadatto all’ambiente . Anche la divisa , così verde , era inadatta , segnava troppo il bersaglio . Avevamo vagoni di materiale per la guerra di montagna , dai ramponi per ghiaccio , alle funicelle da valanga , alle corde per roccia . Eravamo alpini , eravamo fatti per la guerra lenta , per andare a piedi . Avevamo novanta muli per ogni compagnia e quattro autocarrette in tutto il battaglione . L’armamento individuale consisteva nel fucile modello 1891 , un’arma che per l’età aveva il pregio di non essere d’avancarica . L’armamento di reparto consisteva nel fucile mitragliatore Breda , che sparava se ben pulito e ben oliato . Non dovevamo però insistere troppo con le raffiche , per evitare che la canna diventasse rossa e l’arma s’inchiodasse o sparasse da sola . Le armi d’accompagnamento -mortai Brixia , mitragliatrici Breda , mortai da 81 e cannoni da 47/32 - erano in buona parte armi superate e comunque assolutamente insufficienti . La nostra unica arma controcarro -il cannone da 47/32 – bucava soltanto i carri armati italiani . Contro i carri armati russi niente da fare . Le artiglierie nell’ambito divisionale consistevano in materiale da museo: il 75/13 , il 100/17 . Bombe a mano innocue ed incredibilmente umanitarie , che non sempre scoppiavano . Mezzi di collegamento fatti per la guerra di montagna , inadatti alle grandi distanze; le vecchie bandiere , gli eliografi , su quel terreno ondulato non servivano a nulla. Le poche radio , pesanti e scassate , a volte erano meno rapide dei portaordini. Niente mine , niente bengala , niente reticolati , niente pallottole traccianti. E poche munizioni , quasi contate. L’equipaggiamento era lo stesso del fronte occidentale , della guerretta del giugno 1940. Divise di pessima lana , scarpe di cuoio duro e asciutto , che sembrava cartone. Le fasce mollettiere parevano fatte apposta per bloccare la circolazione del sangue , favorendo i riscaldamenti o i congelamenti. Non eravamo carri armati. Eravamo truppe di montagna , male armate , male attrezzate , male equipaggiate per la guerra di montagna. Buttarci in pianura , dove la guerra corazzata correva veloce , voleva dirci buttarci allo sbaraglio. Ricordo che durante l’addestramento ero solito parlare con Grandi del nostro impiego imminente. “Su questo terreno,-dicevo,- è spaventosamente facile lasciarci le penne. Qui le distanze perdono ogni significato , i muli sono cose antiche , noi siamo cose antiche. Qui la guerra è guerra di colonne motorizzate , corazzate. Non saranno così pazzi. Combatteremo da alpini , nel Caucaso”. E speravo nella buona stella. Nelle ore libere non abbandonavo quasi mai l’accampamento. Scrivevo a casa , scrivevo ad Anna. Leggevo un caro libro dell’altra guerra , Ritorneranno. Per la popolazione sentivo una profonda pietà. Ero stanco delle retrovie , i segni della guerra appena passata mi davano tristezza. Vivevo queste giornate di attesa chiuso in me stesso , preso da sempre nuovi contrasti. Il volto della patria mi appariva falso e gonfio di retorica: era il volto del fascismo, dei campeggi , delle adunate oceaniche , dei falsi giuramenti a dozzine , dei gerarchi imboscati , della guerra facile. Attendevo la guerra vera , i fatti , come un’esperienza necessaria e definitiva per tentare di credere ancora. Speravo di non dover combattere con l’animo vuoto. Un mattino il generale chiamò a rapporto i comandanti di compagnia. Pensai che fosse giunto l’ordine di movimento. Invece il generale era seccatissimo perché il tenente delle Sturm-Staffeln aveva contato le oche e voleva un’inchiesta rigorosa. Non mi sembrò strano che i tedeschi , perduta la tradizionale prepotenza , avessero scelto la via ufficiale da comando a comando. Erano in pochi. In punta di piedi si spingevano ai margini dei nostri accampamenti nella speranza di avvistare almeno le penne delle oche scomparse. Ma gli alpini , formando siepe fuori delle tende , con strane voci gutturali , li spingevano indietro. E forse ci sarebbe stato uno scambio di fucilate fra alleati - com’era avvenuto tra bersaglieri e tedeschi alla vigilia del nostro arrivo – se il reparto delle Sturm-Staffeln non avesse ricevuto l’ordine di partire. Alla metà di agosto abbandonammo , a Novo Gorlovka , le casse di materiali inutili. Poi , come un’immensa tribù di zingari , iniziammo la marcia verso il Caucaso. Trenta, quaranta kilometri al giorno , carichi come bestie , con le scarpe che seminavano chiodi. Più si camminava , più il Caucaso appariva lontano. I tedeschi, con lunghe file di automezzi , correndo veloci verso il fronte , ci spingevano sui margini della pista nella polvere che sembrava nebbia. Nemmeno imprecare ad alta voce si poteva , dovevamo imprecare dentro. Fu durante questi giorni di marcia che per la prima e l’ultima volta vidi i mitra Beretta. A Modena avevo sentito parlare tanto di queste nuove armi. Vederle , adesso , non in dotazione ai reparti , ma a tracolla dei due marescialli di scorta al generale Nasci , mi lasciò indifferente. Che fossero gli unici due esemplari dell’esercito italiano? Rividi poi i mitra in Italia , in mano alle brigate nere. Dopo giorni di cammino , all’improvviso mutammo rotta. Le marce si fecero più lunghe , il digiuno continuò rigoroso: due gallette ed una scatoletta per cinquanta kilometri di marcia. Alla sera anche le tende ciondolavano. Il 24 agosto a Vorosilovgrad piantammo le tende con maggiore energia. Speravamo in una sosta prolungata , pensavamo ancora al Caucaso , alla guerra di montagna. Invece era già pronta una colonna di autocarri per trasportarci sul fronte del Don , dove una divisione dell’ottava armata, la Sforzesca , sorpresa da un attacco russo , era in fuga.

 

S.ten. Nuto Revelli (La guerra dei poveri - 2^ Parte)

Abbandonammo le nostre salmerie e di corsa , all’italiana , partimmo per la zona di combattimento. Dopo il Donets , le prime colonne di profughi ci vennero incontro con il loro carico di miseria e di dolore. Sempre , quando il fronte era in movimento , le popolazioni dovevano emigrare. Poi incontrammo le autoambulanze con feriti e sbandati appesi a grappoli. A Verk Maksaj la terra era di nessuno. Ignoravamo dove fosse il fronte. Arrivò l’ordine di improvvisare un caposaldo su quota 215. Cercare le quote su quel terreno era come individuare le onde più alte e più basse sul mare in burrasca. Ci mettemmo in marcia che ormai scendeva la sera. A Singin , in un piccolo cimitero fisso di croci , due cappellani seppellivano i morti ancora caldi. Verso il Don , buio e silenzio. A notte fatta arrivammo sopra una quota qualunque. Sulla destra , lontano , forse era schierato il Morbegno. A sinistra , nulla. In una situazione del genere non era nemmeno possibile pensare ai russi. Tutto appariva così strano e pazzesco da lasciarci indifferenti. Le armi non contavano nulla; erano disposte in cerchio , così vicine che quasi si toccavano. Uscendo da quel cerchio , c’era da perdersi. Prima dell’alba , infuriò la battaglia. Verso il Don , i razzi rompevano il cielo , gli aerei in picchiata cercavano un breve tratto di bosco , si perdevano tra gli incendi. I tedeschi pestavano i russi , o viceversa. Tutto ignoravamo. Come gente di altri tempi guardavamo la guerra moderna , e ne eravamo estranei . Il comandante del Tirano , maggiore Volpatti , voleva che restassimo su quota 215 . Il comando di reggimento chiedeva invece il nostro immediato trasferimento in zona Ortbelajtse. Le radio funzionavano male , quanto i comandi . Il collegamento più rapido e sicuro fu di partire alla ricerca del comando reggimento . Ad Ortbelajtse , l’ambiente che trovai era quello delle immediate retrovie . Il primo ufficiale che incontrai tremava come una foglia di girasole , credeva che fossi l’unico superstite della mia compagnia . Con l’aiutante maggiore il dialogo prese subito una brutta piega . Il tenente colonnello L. , un nobiluomo quadrato , tutto d’un pezzo , come purtroppo nella guerra del ’15 dovevano essercene tanti , godeva della fama di gran cacciatore , ma sull’arte militare non la sapeva lunga . Era assai noto per il suo magnifico cane da caccia , che si era portato dall’Italia e che poi salvò anche dalla ritirata . Eravamo senza salmerie . Come potevano gli alpini della 46 portare a spalle il carico di cinquantun muli , e gli zaini affardellati , le armi , le munizioni del reparto ? “ Nell’altra guerra gli alpini erano più forti dei muli “ continuava a gridare L. , e sembrava proprio convinto . A forza di girare trovai il mio comandante di battaglione , un maggiore di complemento pieno di buon senso . Volpatti non era un superiore , era un collega , un amico . Gli alpini lo adoravano perché sapeva confondersi con loro , giocava anche alla “morra” con i soldati . Squadrista , decorato al valore militare , entusiasta della guerra : con Volpatti c’era forse il rischio di andare avanti alla garibaldina . Era un generoso però , e soprattutto semplificava i problemi . Mi ordinò di restare su quota 215 fino all’indomani , di fregarmene degli ordini del tenente colonnello L. Sette autocarrette avrebbero poi trasferito i materiali della compagnia . Il 29 agosto noi della 46 , finalmente , incontrammo gli altri reparti del Tirano sul rovescio di Bolsoj , attorno ad un laghetto. La situazione , sempre più fluida , continuava a non promettere nulla di buono. Al di qua del Don i superstiti della divisione Celere arginavano la testa di ponte russa; le compagnie , ridotte a pochi uomini e comandate da sottufficiali , formavano un sottile velo di copertura. Nel settore di Jgodnyj era schierato il battaglione Cervino. Ci accampammo mentre le artiglierie sparavano furiosamente , con un fuoco di sbarramento. Verso sera si parlò di un’azione imminente. Su Bolsoj , i colpi di mortaio piovevano senza requie. Smistammo le munizioni verso Jagodnyj. Arrivò l’ordine di operazioni. Nel primo buio distribuimmo i viveri di riserva , due scatolette , quattro gallette , una barretta di cioccolato autarchico , la razione di cognac. E si cominciò a fantasticare. L’azione prevista , sulla carta , appariva perfetta. All’una , inizio del movimento verso quota 228. Alle quattro , dopo un’intensa preparazione all’artiglieria , l’aviazione italiana avrebbe sconvolto lo schieramento nemico. Soltanto allora , da quota 228 , i battaglioni Tirano e Morbegno sarebbero balzati all’attacco. Scopo dell’azione: spingere i russi oltre il Don. Due colonne corazzate tedesche avrebbero protetto gli alpini sui fianchi. Nella notte il “comando tattico” , da cui dipendevano , sospese l’azione. L’indomani , improvviso come un fulmine , il lutto scese sul Tirano. A Jagodnyj , durante la ricognizione nel previsto settore dell’attacco , caddero il maggiore Volpatti , il capitano Giamminola della 109 , un ufficiale del Cervino. Così restammo al laghetto ad attendere le salme dei primi alpini della Tridentina morti in Russia. A sera , fra le nostre tende , arrivò il colonnello Adami. Molti alpini piangevano. Anche il colonnello piangeva. Il nostro ordine di operazione passo al 6° alpini. Con l’alba del 1° settembre , Volpatti e Giamminola dormivano nel piccolo cimitero a Singin. Noi del Tirano eravamo sempre fermi al laghetto , un po’ sbandati , come orfani. Su quota 228 , intanto , due battaglioni del 6° alpini , il Vestone ed il Val Chiese , attendevano l’ordine di attacco. Ecco come il “ comando tattico” , da cui dipendeva il 6° alpini , mandò al macello questi reparti. Alle quattro niente preparazione dell’artiglieria , niente intervento dell’aviazione italiana. Alla cinque l’aviazione non era ancora comparsa. Anche le due colonne corazzate tedesche erano mancate all’appuntamento. Arrivarono , sferragliando , una ventina di carri armati italiani , leggeri come scatolette di latta: tre tonnellate pesavano , meno di un camion. La piana , l’immensa piana di nessuno che gli alpini avevano di fronte , aveva preso forma , appariva immensa. Un piccolo campo di girasoli , lontano , fra le linee russe ; tre alberi nudi come scheletri , ed il resto steppa. Su quel terreno piatto , in leggera pendenza , gli alpini cominciarono a scendere curvi sotto gli zaini affardellati. Erano lenti , massicci. Con il sole che stava nascendo , si contavano anche i fili d’erba , si vedeva tutto. I mortai russi aprirono all’improvviso un fuoco infernale. Caddero centinaia di alpini. Correndo alla garibaldina , i battaglioni scesero contro le mitragliatrici. Si dispersero. I nostri carri armati andavano di qua e di là. Avevano le torrette aperte. I carristi , con fucilate e colpi di bombe a mano , tentavano di neutralizzare i fuciloni calibro 20 , affondati nelle sterpaglie. Bastava un colpo di fucile per immobilizzare i nostri carri armati. A sera , sulla base di partenza , tornarono pochi alpini . Tornarono quattro carri armati . I quattro carri ne trainavano altrettanti fuori uso , carichi di feriti . Molti morti , nessun risultato . Molte medaglie . Forse , per il “comando tattico” anche le sacrosante promozioni per merito di guerra . Dopo due notti , su quota 228 rientravano ancora gli ultimi sbandati del Vestone e del Val Chiese . Un gruppo si era spinto fino alle cucine di un comando di battaglione russo . A sostituire il maggiore Volpatti arrivò un ufficiale in s.p.e. da tempo in Russia con il comando CSIR , il maggiore Zaccardo . Sulla divisa fresca , da retrovie , il nuovo comandante del Tirano aveva quattro medaglie d’argento e tre di bronzo . Lo conoscemmo così . Riunì subito il battaglione al laghetto . Guardò gli alpini ad uno ad uno , poi parlò chiaro senza peli sulla lingua . “ Il sacrificio del Vestone e del Val Chiese , - disse , - è una pazzia di comandanti incoscienti e incapaci . Si fa presto con Roma a cancellare un massacro , bastano poche parole . Per Roma è già partita questa giustificazione : … le perdite ingenti sono dovute all’eccessivo spirito combattivo delle truppe alpine , non ancora idonee a combattere in pianura “. La sera del 10 settembre il nostro cappellano , don Crosara , benedì le armi del Tirano. Nel primo buio , con le armi scassate e benedette , iniziammo la marcia verso quota 228 per sistemarci a caposaldo. Si camminava come in un labirinto. Il fronte era fatto di capisaldi appena accennati e non mancava il rischio di finire dritto dritto oltre le linee russe. Per miracolo non aprimmo il fuoco su un reparto di camicie nere , sperdute fra le sterpaglie. Poi infilammo la strada giusta. Era quasi l’alba quando mi raggiunse il maggiore Zaccardo. Camminavo con la pattuglia di punta ed il maggiore mi disse che ero stato in gamba nel guidare la compagnia verso quota 228. Andammo avanti in silenzio per un lungo tratto. Poi timidamente il maggiore riprese a parlare: “Ieri , al laghetto , mentre guardavo gli alpini avrei pianto. Perché sul cappello hanno scritto –mamma ritornerò?- Sono parole che portano sfortuna”. Conoscevo già quota 228 , c’ero stato il 9 settembre , con i comandanti di compagnia del Tirano , per una breve ricognizione. Su questa quota i resti di un battaglione della Sforzesca avevano subito per giorni e giorni il tiro fitto dei mortaretti russi. I fanti , in gran parte meridionali , rannicchiati fra le sterpaglie , non avevano più lacrime per piangere. “Qui si muore” , dicevano tremando. Il loro comandante , un anziano maggiore di complemento , non contava che i morti: ieri tre , oggi cinque , forse domani tutti prigionieri . . . Non un’arma contro carro , non un’artiglieria , con le armi leggere mal disposte , con i fianchi scoperti per chilometri. Il cambio , mentre l’alba stava nascendo , avvenne rapidamente. Di corsa sistemammo le nostre armi a semicerchio. Per proteggerci alle spalle organizzammo alcuni centri di fuoco mobili. Dalla nostra quota si staccava una lunga piana rossastra che scendeva verso il Don. Proprio su questa piana , il 1° settembre , i battaglioni Vestone e Val Chiese avevano subito il collaudo delle truppe alpine sul fronte russo. Attorno , sui fianchi , altre quote che non riuscivamo a individuare: quota 236 , quota 240 , in quel mare di sterpaglie si perdevano. Eravamo alpini , non eravamo carri armati. Eravamo poveri e scombinati. Alla malora il fascismo e i nostri generali. Per resistere , per combattere , per non buttare le armi , occorreva proprio tutta l’eroica rassegnazione del soldato italiano. Il battaglione venne sparso su un fronte immenso, con le compagnie sistemate a caposaldo. Sui fianchi , alle spalle , il vuoto , nulla. Il fucile modello ’91 , qualche bomba a mano , l’agilità delle nostre gambe , come al solito , erano le armi anticarro di cui disponevamo. I quattro cannoni da 47/32 , sperduti sul rovescio dei capisaldi , avevano i colpi contati . I 75/13 , fatti per la guerra di montagna , funzionavano come grossi mortai . Per il tiro controcarro avrebbero dovuto sparare con alzo zero, come avvenne poi durante la ritirata . Meglio , molto meglio , saltare sui carri armati , infilando le bombe a mano nelle torrette . Per sparare con i mortai occorreva l’autorizzazione del comando reggimento . Anche le mitraglie avevano i colpi contati . Come sempre , niente reticolati , niente mine , niente bengala , niente pallottole traccianti . Trascorsi le prime cinque notti a far pattuglie . Modernizzai subito il mio armamento . Dopo due giorni avevo già un parabellum russo modello 1942. Dal colpo singolo del mio moschetto ero passato alla raffica di settantadue pallottole . La notte del 19 Settembre i russi arrivarono sui fianchi della nostra quota.Uscii dalle linee. Nel buio , a quattro passi , vidi un’ombra . “Forse è Pilis che torna “ , pensai , ma l’ombra prese forma . Una raffica, e le vampe del parabellum, come un fuoco d’artificio a cono, mi restarono negli occhi. A colpi di bombe a mano iniziai la ritirata . L’indomani all’alba trovai un russo morto , un russo della notte , un ragazzo biondo dal ventre squarciato . Ricordo che lo guardai a lungo , in silenzio , senza odio , con pietà . Anche gli alpini lo guardarono a lungo , come si guardano i propri morti . Con la notte del 24 i russi tornarono all’attacco , in forze . Come al solito uscii dalle linee con un gruppo di ufficiali e di alpini . Non esisteva altra scelta . Nel buio partì una raffica . Apollonio cadde al mio fianco . Mi piegai per sorreggerlo , un’altra raffica mi strappò il braccio sinistro . Apollonio rantolava . Con il braccio destro l’afferrai alla vita , cercai di caricarmelo sulle spalle . De Filippis l’afferrò per un piede . Correndo lo trascinammo in linea . Il mio bicipite era spaccato in due , ma l’osso era salvo . Perdevo sangue ma non soffrivo . A ferita calda fare il bullo era facile. Avrei potuto cantare Giovinezza , gridare “ Viva il re “ . E’ con le ossa rotte , con la pancia bucata che fare l’eroe diventa difficile . Il 26 mattina , all’ospedaletto da campo , raccolsi le ultime parole del caporal maggiore Apollonio . Era in delirio , riviveva il combattimento : “ Hanno poi trovato il mio fucile ? La pattuglia com’è andata ? Quando andremo di nuovo ? Ma mi morì ,mi mori per la patria “ , e parve addormentarsi . Apollonio era appena sotto terra che venne l’ora delle medaglie . Alla sua “memoria “ una proposta di medaglia d’oro : per me una medaglia d’argento “ sul campo “ . Arrivò il generale Riverberi a portare la notizia . Ero in tuta , seduto sul letto , fuori era già notte . Dall’ingresso della baracca ufficiali gridò il mio nome con voce allegra , festosa . Mi alzai in piedi , lentamente . “ Stai seduto , stai seduto , devo dirti una cosa bella ma devi star seduto “ , gridava il generale trotterellando . “ Ti ho portato la medaglia d’argento , la medaglia d’argento . Hai visto ? Tac . Spedito un fonogramma , tac , fatto . Cos’hai caro ? Non sei contento ? “ Lo guardavo davvero di brutto . Certe cerimonie a due giorni dalla morte di Apollonio non riuscivo a sopportarle . Sedette di fronte a me . Con il piede rovesciò una borraccia di vino posata per terra accanto al letto . Mi scappò una bestemmia . “ Lascia , lascia , non prendertela . Su , bagna il dito , bagna il dito . Tocca qui la mia mano , ecco , ecco fatto “, e si passò la mano bagnata sul cranio pelato. “Ora devo andare , caro , bravo , bene , bellissima motivazione . Sai , noi si gira di giorno e si lavora di notte . Molto bene , caro . Ah , voi del Tirano siete tutti uguali . Sempre così voi del Tirano . Bravo, bravissimo, guarisci presto e tanti auguri”. Il 7 Ottobre l’ospedaletto da campo del 5° alpini smistò all’indietro i feriti non recuperabili . Le piste erano un pantano , le autoambulanze procedevano a stento slittando come sul ghiaccio . Arrivammo nella notte in zona di Karinoskaja . Faceva freddo e pioveva . Nel cortile dell’ospedale N. 873 non trovammo un cane di infermiere che attendesse la colonna di autoambulanze . L’ospedale sembrava abbandonato . Cominciai a gridare , nel buio , inutilmente . I medici, gl’infermieri, convivevano con la popolazione. Ognuno aveva la sua isba, la sua morosa. Nelle retrovie anche l’ultimo fesso di sanità, il più racchio, aveva la morosa. Per rompere quella crosta di menefreghismo, d’incoscienza, avremmo dovuto sparare. A forza di gridare, a calci e pugni, radunai un gruppetto di lavativi. Finalmente le operazioni di scarico ebbero inizio. Del direttore dell’ospedale, nemmeno l’ombra. Anche il medico di guardia mancava. Quando arrivò, il tenente G. , era ormai in agonia. Era un vero manicomio , quest’ospedale . Il mio alpino Preda lo sistemarono nel reparto truppa . Lo trovai steso su quattro dita di paglia , come in una stalla . Preda , su quota 228 , aveva perduto un braccio , dal gomito in giù . A cento chilometri dal fronte soffriva anche la fame . Ricordo che raccolsi gli avanzi della mensa ufficiali per sfamarlo . L’indomani , quando lasciai Karinoskaja , i miei occhi erano spalancati , grossi così . Volevo vedere tutto delle retrovie , capire tutto . Un’altra molla , una delle tante molle che mi spingevano a fare il mio dovere fino in fondo , si era rotta . Per ribellarmi , per denunciare , ero però troppo stanco , stanco dentro . L’ambiente che trovammo nell’ospedale N. 64 ci rialzò il morale . Ricordava il modesto e pulito ospedaletto da campo del 5° alpini , dove l’umanità di Deotto , Colacito , Appino , don Mario , riscaldava l’animo del soldato ferito , dell’ufficiale ferito . Altra tappa a Milerovo . Poi lasciammo l’autoambulanza , continuammo il viaggio in aereo , fino a Vorosilovgrad . L’aereo , un comune carrozzone da trasporto , mancava della più elementare attrezzatura ospedaliera . I feriti , stesi sulle barelle , dondolavano . Viaggio breve , cento chilometri . E’ curiosa la storia di quest’aereo-ospedale . In teoria avrebbe dovuto trasportare i soldati più gravi – i cranici , gli addominali , gli amputati - , e gli ufficiali comunque feriti . In pratica era il normale mezzo di trasporto per i sanissimi ufficiali dei comandi , che , in diagonale e stivaloni , lasciavano la provincia per raggiungere la città . Vorosilovgrad , infatti , non era soltanto la sede del centro ospedaliero dell’ARMIR , tanto strombazzato dai nostri giornali . Era soprattutto il luna-park delle retrovie italiane e tedesche . A Vorosilovgrad non mancavano gli spettacoli di varietà , i concerti , le case di tolleranza organizzate e controllate dai militari . Come se non bastasse , con perfetto stile fascista , i cinematografari italiani si affannavano a girare il film “Luce” sui campi d’aviazione di Milerovo e Vorosilovgrad . Era importante che anche in Italia la nostra guerra apparisse , se non proprio comoda , almeno sopportabile : era importante far credere che i feriti venivano raccolti in linea , come pare facessero i tedeschi . I feriti , Nel film “Luce” , dal fronte volavano sotto i ferri del grande Uffreduzzi ! Che poi un povero cristo arrivasse morto all’ospedaletto da campo dopo setto ore di viaggio sulla carretta delle salmerie – come purtroppo era avvenuto nel nostro settore - , o che un ufficiale morisse dissanguato nel cortile di un ospedale disorganizzato , non contava proprio nulla . L’importante era che non si sapessero queste cose , che la facciata apparisse pulita . Nel grande centro ospedaliero della 8° armata , presi subito una solenne arrabbiatura . Mi negarono la cena perché arrivai dopo le 5 del pomeriggio . Mi dissero che fino all’indomani non sarei stato in forza al reparto . Al mattino non avevo pranzato perché temevo il viaggio in aereo . Saltare anche la cena era un po’ troppo . Anche qui , ogni sera , gli ufficiali medici se ne andavano e l’ospedale restava in mano ai piantoni . Urlai , e mi portarono una gavetta di pasta fredda , con qualche osso bianco . In cucina , un sottotenente di sussistenza , bello , rotondo , pulito , aveva ordini precisi : non dare nulla fuori orario . Con il braccio sano lo trascinai all’aperto . Poi giù , dal porco all’imboscato . Più l’insultavo , più la mia razione cresceva . Mi portarono pane , marmellata , formaggio , cioccolata . Al primo controllo medico mi chiesero come mai , con quella ferita , fossi arrivato fin là . Risposi malamente , sentivo nausea e schifo . Il rimpatrio non mi interessava . Volevo e potevo dare calci in faccia a chi li meritava . Trovai molti ufficiali feriti , miei anziani e cappelloni dell’accademia . A parlare con i cappelloni c’era da piangere . Erano finiti al fronte appena sfornati da Modena , con un entusiasmo fresco , degno di una causa migliore . La loro esperienza era stata brevissima , perché in linea le pallottole cercano i candidi . Sperduti nelle retrovie , passando da un ospedale all’altro , continuavano a credere nell’esercito , nei valori morali , nella guerra , come ai tempi di Modena : anche se avvertivano che la baracca non girava . Le corsie del grande centro ospedaliero erano piene di urla e gemiti . Noi ufficiali eravamo in fondo ad un lungo corridoio ed il coro dei feriti era un inno monotono e terribile contro la guerra . Fuori , all’aperto , giravano il film “luce” con i feriti che partivano per l’Italia e il colonnello , da primo attore , declamava sempre il solito discorso condito di “patria” e di altre fesserie . Per togliermi dall’ambiente pensai di prendermi un po’ di libera uscita . Era proibitissimo uscire , ma bastava fare la faccia feroce perché le sentinelle scattassero come molle . Che bordello ! Nei bazar , nei negozi , si compravano sigarette italiane , dalle Milit alle Tre stelle . Si compravano farsetti a maglia , scarponi , stivali . Tutto l’equipaggiamento dell’esercito italiano era in vendita a prezzi favolosi . Oh Dio , anche in linea era corsa voce che nelle retrovie gli imboscati commerciavano . Si diceva che sui mercati , a carte scoperte , gli ufficiali italiani trafficassero per far soldi . Ma a toccarle , quelle verità , scottavano . Trovai magazzini dell’Unione militare nel centro della città . Volevo comprare un paio di mutande e due di calze , ma non mi lasciarono entrare . Senza l’autorizzazione scritta dell’Intendenza dell’armata non usciva dall’Unione neanche uno spillo … L’Intendenza era a due passi , ma gli ufficiali osservavano l’orario estivo , proprio come i ministeri di Roma . Aprivano alle 15,30 . Alle 16 , quando gli uffici dell’Intendenza cominciavano a svegliarsi , arrivarono i subalterni , i figli di papà , i raccomandati di ferro , che in Russia vivevano assai meglio che in Italia . Poi arrivarono i colonnelli . Arrivò anche il colonnello comandante dell’Unione militare e la mia trafila ebbe inizio . Mezz’ora fra timbri e visti . Quando , con tono solenne , da “ordine di operazioni” , il colonnello mi consegnò il buono per le mutande e le calze , non ne potevo proprio più . Altra trafila all’Unione militare . Un carabiniere controllò i timbri ed i visti dell’Intendenza . Gli estremi dei miei documenti militari vennero registrati su una grossa rubrica . Due carabinieri controllarono le registrazioni . Ero un socio dell’Unione militare , i miei documenti erano in regola , pagavo quello che compravo ! Com’è che le scansie erano vuote , che il personale civile era così spaurito , disorientato ? Niente , nient’altro che una grossa truffa all’italiana , consumata sulle nostre spalle , sulle spalle del povero cristo che combatteva in linea . Erano affluiti in Italia vagoni di vestiario , scarpe , equipaggiamento . Tutto quel ben di Dio avrebbe dovuto essere smistato nelle immediate retrovie del fronte , per le truppe combattenti . Invece , nel giro di quindici giorni , i gangster italiani avevano scoperto la via più breve e lucrosa in Vorosilovgrad , vendendo ai civili russi a prezzi da inflazione . Pare che i colpevoli fossero sotto inchiesta . Saranno finiti al muro o li avranno promossi di grado ? L’indomani tornai ad uscire . Le cose proibite mi rinfrancavano . C’era in me un sentimento di ribellione , un gusto di dire pane al pane , senza pietà . Alla peggio , sarei tornato in linea con la ferita ancora aperta . Lo spettacolo più penoso lo offrivano gli ufficiali in diagonale e stivaloni , che portavano a spasso le sgualdrine sbrindellate . Il contrasto , tra le divise da parata e gli straccetti delle donne era così stridente da far pietà . Meglio , molto meglio i tedeschi , che le sgualdrine le vestivano a nuovo . In una via del centro mi venne incontro una colonna di partigiani , di borghesi , una ventina di uomini incolonnati per due , fra i fucili spianati . Camminavano a testa alta , sapevano dove andavano . Non eravamo che straccioni con arie e pretese da signori . Guardai quei partigiani con grande ammirazione . Mi sentii umiliato . Alla vigilia della mia partenza da Vorosilovgrad , il progettista del cimitero dell’ospedale , un ufficiale del genio militare che viaggiava di continuo in aereo , da un cimitero all’altro del fronte russo , volle , a tutti i costi farmi ammirare il suo capolavoro. Un muro tutto buchi saliva altissimo verso il cielo , come un’enorme fetta di formaggio . Ai piedi del muro un grosso scalino era l’altare . All’ombra del muro , tante , tante tombe , ricordavano il breve tratto di strada che univa l’ospedale al cimitero . Con il sole da una certa parte , attraverso ai buchi sarebbero filtrati i raggi . Così ogni tumulo , ogni croce , avrebbe avuto il suo raggio di sole . A cielo nuvolo , niente . Tutti gli ufficiali del centro ospedaliero , a turno , dal colonnello al sottotenente di sussistenza , in una gara di generosità , avevano cosparso di sudore il cimitero , come un orticello : per fabbricare il monumento , per seppellire i morti . Non dissi nulla , ma pensai che i medici non dovevano lavorare da manovali . Forse , con i medici all’ospedale , molti feriti ed ammalati non avrebbero raggiunto il cimitero , sia pure monumentale . Con ottanta chilometri di autoambulanza , da Vorosilovgrad arrivai a Rykovo . Poi , sempre in autoambulanza , raggiunsi Stalino . Nell’ospedale di riserva N. 3 erano ricoverati alcuni ufficiali della divisione Sforzesca . Era consuetudine non salutare gli ufficiali della “ Cikaj” , nemmeno gli ufficiali superiori . La Sforzesca – si diceva – ha buttato le armi , è scappata senza combattere . La verità è che la Sforzesca venne sorpresa dai russi , sul Don , mentre noi marciavamo verso il Caucaso . Da tempo , in quel tratto di linea , tutto era fermo , immobile . I russi fingevano di sonnecchiare , i nostri sonnecchiavano . E’ vero che , in linea , qualche ufficiale dormiva in pigiama . E’ vero che qualche ufficiale arrivò nelle retrovie in pigiama . Ma non mancarono gli atti di coraggio , di sacrificio .

 

S.ten. Nuto Revelli (La guerra dei poveri - 3^ Parte)

Il disastro , come sempre , dipese dalla impreparazione e dall’incoscienza dei comandi : anche lì , come dappertutto , doveva esserci il buono e il cattivo . Quei poveri fanti che incontrai su quota 228 – i resti di un battaglione della Sforzesca – con i lunghi fucili ’91 avevano il destino segnato : non potevano che scappare . Al primo controllo medico mi dissero : “ La ferita va bene . Hai bisogno di cure per la distensione del braccio , massaggi ed applicazioni elettriche . Andrai a Dnepropetrovsk : là fanno lavori di rifinitura . “ Un’autoambulanza mi portò alla stazione di Jasinovataja . Avevo per compagni d’avventura un ferito addominale con nefrite , due operati di appendicite , uno di emorroidi , ed il tenente Agati con una gamba ingessata . Girammo da un treno ospedale all’altro . Finalmente al comando stazione dissero di aver capito qual era la nostra tradotta . Saremmo partiti alle 22 . Sul treno avremmo trovato un perfetto servizio di vettovagliamento . Ci accompagnarono lungo una tradotta tedesca . Pioveva , il braccio mi doleva . Anche i miei compagni di viaggio si trascinavano . Nel buio la tradotta sembrava vuota . Era piena di truppa che tornava dal fronte , tutti tedeschi . Un kruko maledetto , cominciò ad urlare . La mia cassetta gli dava noia ; la buttò dal treno . Con il mio braccio ferito mi era impossibile reagire . Maledii i tedeschi , maledii la guerra , la mia guerra . Viaggiammo ventiquattro ore consecutive , con i tedeschi che mangiavano pane bianco , marmellata , tonno ; che nelle stazioni avevano il caffè caldo . Noi , contavamo i pasti che saltavamo . La sera del 18 Ottobre , quando al comando stazione di Dnepropetrovsk finalmente mangiammo pane , marmellata ,, formaggio , non finivamo più di ringraziare . Era un po’ come se avessimo incontrato , finalmente , qualche italiano onesto . Con un camion ci portarono nella parte alta della città , nel convalescenziario della 8° armata . Non era un convalescenziario , un centro di supernutrimento e rifinitura” per i feriti meno gravi e recuperabili : era un manicomio squallido e disorganizzato . Per cominciare , ci negarono la cena ; anche il comando stazione di Dnepropetrovsk ci aveva fregati : dalla nostra cartella clinica risultava , infatti , che avevamo consumato un pasto completo . Qui rubavano addirittura a carte scoperte .Mancava il pane ; vino e latte non se ne vedeva. I piantoni rubavano sulle nostre razioni , per fare soldi . E come se non bastasse , con il pane ed il resto che ci rubavano , ottenevano , dai civili russi , dozzine di uova che ci vendevano a borsa nera . Affinché mi medicassero la ferita pagavo gli infermieri con pacchetti di sigarette . Dal convalescenziario partivano due strade : una per l’Italia , l’altra per il fronte . A tacere , a subire con rassegnazione , non si comprometteva il rimpatrio . A imprecare , a denunciare , si restava isolati . Io non pensavo al rimpatrio . La mia vita , malgrado tutto , era in linea , al fronte , con i miei compagni ; per loro avrei ancora dato il meglio di me stesso . Provai a chiedere rapporto , ogni giorno . Volevo la mia razione non alleggerita dalle ruberie di rito , volevo un po’ di libera uscita . Un vecchio colonnello , con i gradi così grossi che gli coprivano le maniche fin quasi al gomito , era solito sentire le mie proteste senza fiatare . Sembrava un sordo . Finito che avevo di parlare , mi metteva sull’attenti e partiva all’attacco : secondo lui al convalescenziario tutto funzionava perfettamente , ero un ufficiale indisciplinato , perciò niente “doppia razione” , niente libera uscita . Un mattino arrivò la commissione medica . La presiedeva proprio il colonnello con i gradi grossi . Guardarono la ferita , si accorsero che perdeva ancora sangue . Mi dissero di restare al convalescenziario per altri quindici giorni . Poi , forse , mi avrebbero spedito in Italia . Domandai di raggiungere subito il mio reparto in linea. “Ma tu hai qualche conto da aggiustare con i russi”, mi disse il colonnello dei gradi grossi, ed il suo sguardo era quasi furbo, di chi capisce in ritardo. No. I conti li dovevo aggiustare con le retrovie. Ero stanco degli ospedali, del convalescenziario, degli imboscati, di tutto un mondo falso e corrotto. Se non mi mollavano con le buone, me ne sarei andato di prepotenza, sarei tornato in linea a cercare un po’ d’aria pulita. La sera stessa lasciai Dnepropetrovsk, scappando come un disertore. Con mezzi di fortuna, un po’ di treno, un po’ d’autocarro, passando da un comando tappa all’altro, il 18 novembre raggiunsi il comando del Tirano, in zona Belogore. Nevicava. L’aria era pulita, aria di casa nostra, di famiglia. Un’ora di marcia ed arrivai sul Don, Belogore. Il migliore convalescenziario era in linea, con la 46. Sul Don la situazione non era allegra. Il corpo d’armata alpino, spinto tutto in avanti, formava lungo il fiume una siepe fragile e sottile. Nei punti più vulnerabili, modesti capisaldi rompevano lo schieramento filiforme del fronte. Alle nostre spalle, nulla. Bastava un colpo d’occhio per rendersi conto che Belogore era un punto vulnerabile. Nel nostro settore, infatti, la sponda alta del Don s’interrompeva, lasciando che la piana e le isbe del villaggio corressero fino al fiume come un torrente. Con il Don ghiacciato e transitabile, dovevamo guardare mille metri e più di linea, in piano, come se fossimo stati nella steppa. Soltanto il caposaldo Madonna, sulla sinistra, offriva buone possibilità di resistenza: era ancorato sull’ultimo tratto di sponda alta, come su un muro, e non sarebbe caduto che per accerchiamento. Mancavamo di armi anticarro ; era questo il nostro dramma . Avevamo i 47/32 , ma non servivano a nulla . Se un nostro generale , con un po’ di buona volontà , avesse tentato di sfondare un muro a zuccate , certamente vi sarebbe riuscito : bucare un carro armato con il 47/32 era , invece , impossibile . I proiettili rimbalzavano sulle corazze senza scalfirle . I mortai da 81 avevano i colpi contati : come su quota 228 , per sparare occorreva l’autorizzazione del comando reggimento . Le mitragliatrici e i mitragliatori , senza olio , s’inceppavano . Le munizioni non erano abbondanti e dovevamo sprecarle per provare le armi . Lungo il margine del fiume , a tre passi dai reticolati , prima ancora dell’inverno , i tedeschi e gli ungheresi avevano seminato centinaia di mine a strappo e a pressione . Mancavamo però del piano minato ; così , uscendo di pattuglia , il rischio maggiore era di saltare in aria fra le nostre stesse linee . Tre pezzi anticarro di preda russa , sparsi nella piana , avevano pochi colpi . Soltanto due pezzi da 75/38 , avuti in prestito , ci davano un po’ di coraggio . L’artiglieria alpina , con i 75/13 , non era lontana , ma non sparava che nelle grandi occasioni . I suoi proiettili salivano altissimi nel cielo , superando a malapena la pista ghiacciata del Don . Non mancavano vanghe , badili , braccia per scavare . Fra trincee , era un modo per non pensare , per dimenticare . L’organico della nostra compagnia era al completo : 346 alpini . Otto squadre fucilieri , 2 mitraglieri , 2 mortai da 81 a Madonna ; 12 squadre fucilieri , 15 mitraglieri , 12 anticarro da 47/32 , 6 mortai da 81 , 2 anticarro da 75/38 , 3 anticarro di preda russa nella piana . Non tardai ad ambientarmi . In pochi giorni di linea tutto mi divenne famigliare , anche il villaggio sotterraneo di grotte e camminamenti . Soltanto gli alpini mi restavano estranei , non li riconoscevo più , erano invecchiati . La colpa peggiore del fascismo non è di aver tradito la generazione del littorio , di aver tradito noi che gridavamo “viva la guerra , viva il duce” . E’ di aver tradito questi poveri cristi , a cui la guerra era caduta sulle spalle come un’epidemia . L’equipaggiamento ormai era logoro . Alcuni indossavano la divisa di tela , quella dei campi estivi , con su il cappotto con pelliccia . I più fortunati , una dozzina in tutta la compagnia , avevano le scarpe risuolate di nuovo , con i ritagli di gomma strappati ai camion russi abbandonati . Gli altri perdevano le scarpe a pezzi . Per i servizi di vedetta disponevamo di poche paia di calzari ,dalle spesse suole di legno e dal gambale di tela . Il cambio avveniva allo scoperto , ed era laborioso perché le scarpe , gelate , non si staccavano . Pochi camicioni di tela bianca rendevano gli alpini simili a fantasmi : nessuno voleva indossarli , tanto erano goffi e ingombranti . Il vitto era scarsissimo . Quattro tubi con carne al mattino , quattro tubi senza carne alla sera . Una volta alla settimana , pastasciutta mal condita ; due volte alla settimana , un bicchiere di vino che si schiariva nel ghiaccio come inchiostro . Cognac , non se ne vedeva mai . Le notti cominciavano presto , alle 16 era già buio . Chi non scavava era di guardia sui balconcini scoperti a guardare il fiume , a gelare . Intanto , a tre metri dal camminamento , i guastatori stendevano i reticolati . Le mitragliatrici restavano nei buncher , accanto al fuoco , a immagazzinare calore , affinché il gelo non le inchiodasse : mancava l’olio , e le armi asciutte sparavano solo se calde . A volte , quando il freddo scendeva sotto i 30 gradi , i fili di ferro vibravano come cose vive, i paletti dei reticolati si spaccavano . Si passava allora da un allarme all’altro , tutti in linea , fino all’alba , a gelare . Bestemmiando , maledicendo la “naja” per non maledire la patria , cantando le canzoni più proibite – anche la Canzone del disertore cantavamo – i giorni scorrevano lenti , monotoni, tutti uguali . Al domani era meglio non pensare . Ai primi di Dicembre Radio Scarpa cominciò a parlare dell’offensiva russa imminente . Dai comandi arrivò l’ordine di scavare a gran forza , di costruire altri buncher e trincee . Il pericolo più grave era che i russi attaccassero con carri armati . La “porta di Belogore” - così i comandi avevano battezzato il nostro tratto di linea – era una “porta” aperta , senza battenti . Un mattino apprendemmo che dall’Italia erano giunti i “proiettili” E . P “ , o più semplicemente i “P” . Ne parlammo a lungo in linea , tanto ci sembrava impossibile che Roma si fosse ricordata di noi . I nuovi proiettili del 47/32 , in Italia, pare avessero bucato carrozze spesse così . Il “così” variava . I più ottimisti dicevano che i nuovi proiettili avrebbero bucato anche le blindature in cemento armato delle forze mobili russe . I pessimisti , invece , insistevano nel dire che i “P” , come i vecchi proiettili , non avrebbero bucato che i carri armati italiani . Stalingrado ed il nostro fronte a sud stavano per cedere . Per collaudare nuovi proiettili era un po’ tardi , ma meglio tardi che mai. Il collaudo avvenne proprio a Belogore . Noi dalle linee guardavamo . A bocce ferme , i colonnelli spararono tutti i “P” contro un malinconico carro armato russo , abbandonato nella nostra piana fin dai tempi della guerra di movimento . Niente . Le corazze restarono intatte , i proiettili schizzavano lontani come uccelli impazziti. Si disse che la colpa era dell’angolo d’impatto ; si pensò di dare inizio ad un grande fosso anticarro . Come unico risultato , con tutto quel fracasso le linee russe si risvegliarono . Il 12 Dicembre la katiuscia cominciò a sparare . Il cielo diventò rosso , di fuoco ; dopo quattro raffiche il villaggio era un incendio . Zaccardo raggiunse Belogore , allarmatissimo . Afferrò il telefono , diede la sveglia al comando divisione . Era pessimista , Zaccardo , sentiva che il fronte stava crollando . Con noi , ne parlava a carte scoperte : “E’ questione di giorni , - diceva , - poi comincerà l’avventura “ Le sue previsioni apocalittiche ci angosciavano . Sapevamo che la situazione era grave , che non bastava lavorare giorno e notte al fosso anticarro di Belogore , per salvare il fronte . Sentivamo la steppa alle spalle , con le lontane retrovie pronte a squagliarsi . Ma non volevamo pensare al peggio , per non mollare . Se parlavamo dell’ultimo alpino morto , Zaccardo piangeva . Trent’anni di vita militare non gli avevano indurito ne il cervello ne il cuore . Quel giorno , prima di lasciare Belogore , ci raccontò l’ultima barzelletta , una barzelletta poco allegra , che ci lasciò la bocca amara : al battaglione Tirano era appena giunta una curiosa circolare degli alti comandi . Oggetto : “guerra ai topi” . La guerra doveva iniziare subito , i reparti erano autorizzati a corrispondere due lire di premio ogni dieci topi catturati. Non si chiedeva di allegare i topi alla contabilità , come pezze giustificative . Al Tirano il gioco aveva già avuto inizio . Con dieci topi , sempre gli stessi , gli alpini del comando battaglione ricevevano a turno le due lire di premio . La notte del 23 Dicembre la katiuscia riprese a tuonare . Sparammo fino all’alba , come in un vero combattimento . comandavo da pochi giorni il caposaldo Madonna e su in alto mi sentivo abbastanza al sicuro . La mia ferita era ancora aperta , ma riuscivo a non pensare alle retrovie , a non pensare al peggio . Il disastro era nell’aria . Radio Scarpa insisteva nel dire che la ferrovia Rossosk-Milerovo era interrotta , la posta non arrivava . I nostri comandi ci tranquillizzavano . Al grande fosso anticarro di Belogore , ormai , venivano a scavare anche i conducenti e gli artiglieri . La piana era immensa e più i giorni passavano , più le notizie si facevano nere , più la sezione del fosso veniva ridotta . Così , mentre il primo tratto iniziato dopo il disgraziato collaudo dei proiettili “P” , sembrava un canale , il resto non era che una modesta roggia . Il 3 Gennaio , finalmente , arrivò la posta e la situazione apparve più serena . Il comando divisione volle quattro alpini per ogni compagnia , per organizzare un plotone di “cacciatori anticarri” . La scuola era sempre la stessa , aspettare i carri armati e aggredirli con bottiglie di benzina e bombe a mano . Ormai i russi erano alle nostre spalle , e noi l’ignoravamo . A sud , le divisioni italiane erano in fuga fin dal 16 Dicembre . Il 9 Gennaio Radio Scarpa segnalò che la Julia aveva subito gravi perdite , che i nostri magazzini di Kantemirovka , pieni di scarpe e di cappotti con pelliccia , erano stati incendiati : i quattro ufficiali italiani responsabili dell’incendio , fucilati . Anche il XXXV° corpo dell’armata aveva subito perdite ingentissime : l’offensiva russa era contenuta . Nella notte guardammo sfilare , al di là del Don , una interminabile processione . Le colonne motorizzate e corazzate russe , come un’immensa fiaccolata , marciavano verso sud a fari accesi . La nostra aviazione non comparve . Mai visto un aereo italiano se non nelle lontane retrovie . La nostra artiglieria non sparò un solo colpo . Per raggiungere l’obiettivo , i 75/13 avrebbero dovuto schierarsi almeno sul Don . All’alba del 14 Gennaio il rumorio delle colonne russe in marcia si perse nel tambureggiare di ignote artiglierie . Nelle nostre tane , la terra cominciò a franare . Radio Scarpa segnalò che gli ungheresi , schierati a nord della Tridentina , impegnati in duri combattimenti , resistevano . Il 15 Gennaio gli ungheresi , in punta di piedi , abbandonarono il fronte . Nello stesso giorno una colonna corazzata russa piombò su Rossosk , sul comando del nostro corpo d’armata alpino , seminando il panico . Il generale Nasci dovette puntare verso est , verso il Don , per salvarsi . Nelle nostre lontane retrovie non c’erano che russi . I tedeschi , intanto , rubavano , a mano armata , automezzi e carburanti italiani e scappavano . Al riguardo si disse che il generale Gariboldi avesse aperto un’inchiesta ! A sera corse voce che dovevamo smistare all’indietro i materiali , proprio tutti , anche le armi e le stufe di postazione , come per un normale trasferimento . I conducenti rientrarono alle loro basi , noi passammo da un allarme all’altro . Il freddo era sotto i 40 gradi . Con l’alba del 16 Gennaio tornai nel baracchino , ma non riuscii a dormire . Il tuono infernale delle artiglierie dell’Edolo toglieva il respiro . Se sparavano le nostre artiglierie , la situazione doveva essere disperata . Dal comando compagnia arrivò un ordine strano : ogni alpino doveva fabbricarsi una slitta con mezzi di fortuna . Cominciarono le corveès legna verso Belogore : con quattro assi e quattro chiodi uscirono fuori slitte che sembravano sgabelli . Eravamo soli ormai , soli in un immenso mare di neve , abbandonati da tutti . L’ordine di Hitler , di non abbandonare il Don , l’avevamo eseguito fino in fondo . Al di là del Don , i russi non avevano lasciato che un sottile velo di copertura : tutto il resto era finito alle nostre spalle ! II . La ritirata sul fronte russo ( 16 Gennaio – 10 Marzo 1943 ) 16 Gennaio Telefona Grandi . Devo scendere subito alle “case rosse” ; con lo zaino , perché non tornerò più a Madonna … Sul Don tutto è apparentemente fermo , nel primo buio , nel freddo , nel silenzio . Nel baracchino sotterraneo della 46 incontro Grandi , il capitano Panzeri dell’82° divisionale ed altri ufficiali . Ambiente pesante : carte topografiche e fogli sparsi , un lumino ad olio che funziona male , aria di chiuso e fumo di sigarette . Il telefono chiama senza sosta . Grandi , il miglior comandante di uomini che abbia mai conosciuto , è mal ridotto di salute , è stanco . Ha perduto il tono spregiudicato di chi va in guerra con due sacchi , uno per darle , l’altro per prenderle senza pensarci troppo su . Anche su quota 228 , anche nel vivo del combattimento , era solito accogliermi rumorosamente , alla “Taras Bulba” , come diceva lui . Stasera invece non parla , è triste . Da un foglio dattiloscritto dal comando battaglione apprendo che , la sera del 17 Gennaio , il grosso della divisione dovrà ripiegare sulla “linea prestabilita di Podgornoe” . “Recuperare tutte le munizioni , i telefoni , le linee telefoniche , le stufe di postazione [ che idea!] , gli attrezzi da zappatore che a Podgornoe saranno preziosissimi . Un’aliquota dei reparti [ un terzo della forza in postazione ] resterà in linea fino ad ordine dei superiori comandi , per mascherare il ripiegamento del grosso” . Il peggio sarà restare a Belogore con il “mascheramento”! Da come Grandi mi guarda , sento che toccherà a me . Grandi conosce il mio passato , conosce le mie condizioni di salute . Aveva scelto Perego , ma Perego non si regge in piedi , dovrò sostituirlo . Incasso con rassegnazione ; riesco ancora a pensare al meglio . Mettiamo giù la forza che resterà a Belogore , 87 alpini su 346 : 3 squadre fucilieri a Madonna , 3 squadre fucilieri e due cannoni anticarro da 47/32 nella piana . A mezzanotte le telefonate continuano , come se i comandi avessero fretta di dire tutto , prima che le linee vengano ripiegate . Zaccardo ha la febbre altissima e delira ; nella notte verrà a sostituirlo il maggiore Taccagno del comando reggimento . Mi sdraio sul divano di Grandi . Sono stanco , snervato dovrei riposare nelle poche ore che rimangono . Non riesco a non fumare . 17 Gennaio Di buon mattino raggiungo Tresenda , nel settore di centro della “porta di Belogore” . Con Perego e DeFilippis mi oriento nella sistemazione difensiva della oiana , poi torno alle “case rosse” . Mangio quel poco che c’è , le cucine sono già ripiegate . Mentre la compagnia inizia i preparativi per la partenza seguo con lo sguardo lo schieramento della 46 . In alto , sullo sperone di sinistra, il caposaldo Madonna : poi la piana e Tresenda . Lungo lo sperone di destra la 48 . È un fronte molto ampio , estremamente vulnerabile . Nella situazione in cui verrò a trovarmi , i collegamenti sarebbero preziosissimi . Ieri notte ho chiesto al comando battaglione almeno un telefono tra Tresenda e Madonna .Slataper , l’ufficiale del Tirano addetto ai collegamenti , mi ha risposto che l’ordine di recuperare tutte le linee telefoniche è categorico , che nessuna eccezione è possibile . Con tre squadre di fucilieri buttate lassù , a Madonna , la situazione non sarà allegra . Consegno al sergente Robustelli una pistola Verj con quattro razzi : se a Madonna la situazione sarà disperata li sparerà tutti . Alle 14 lascio le “case rosse” , per raggiungere definitivamente Tresenda . Incontro grandi che rientra dalle linee . Mi abbraccia , è stranamente espansivo . Ovunque c’è movimento, i pochi che restano si perdono tra i molti che partono . Alle 15,30 comincia ad imbrunire . Sento troppo baccano . Il freddo è intenso , sui 35 gradi sotto zero . Tutto fa rumore , gli slittini che viaggiano , il vociare degli uomini , il succedersi degli ordini ; anche a camminare sulla neve ghiacciata si fa rumore . Avrei dovuto avere una radio , per collegarmi con il comando di mascheramento del battaglione ; poi era venuto il contrordine . Due telefonisti cominciano a stendere una nuova linea telefonica fra Tresenda e la 48 . Alle 16 , con il buio , le squadre abbandonano le postazioni di linea , raggiungono la “piazzetta del carro armato “ . I buncher si vuotano . Guardo gli alpini che se ne vanno . E’ triste vederli partire . La linea si alleggerisce tremendamente ; soltanto il Don ci dividerà dai russi . In caso di attacco dovremo sacrificarci dal primo all’ultimo , per concludere ben poco . Sono spariti quaranta metri della linea telefonica appena stesa ; ne hanno fatti tiranti per le slitte . Così , fino alle 20 , nemmeno l’unico collegamento potrà funzionare . Dopo le notti bianche di Madonna e di “ case rosse “ prevedo un’altra notte bianca a Tresenda . Forse a Podgornoe incontreremo il nuovo fronte , forse esistono per davvero l’armata tedesca e il corpo d’armata ucraino di rincalzo . Quante cose dovrò dirmi stanotte per farmi coraggio ! Il freddo è sempre molto intenso . Fuori del comando un alpino di guardia è collegato a vista con Madonna : attende le segnalazioni di allarme . In linea incontro i sottotenenti Darè e Belgrano , poi Pilis e Paride . Tutto è tranquillo . Le stufe sono accese , anche quelle dei buncher abbandonati . E’ necessario che dai boschi di Pavlovsk vedano che i tubi fumano . Le armi hanno l’ordine di sparare a tratti , come se l’alleggerimento non fosse avvenuto , come se le provassimo in una notte normale . Si finge di disincepparle dal gelo , spostandole nei buncher vuoti , lungo tutta la linea . Far credere che lo schieramento è ancora intatto non è facile . Abbiamo soltanto fucili mitragliatori e l’aria del Don ci tradisce : in quest’aria sottile le raffiche di mitragliatore hanno un suono diverso dalle raffiche di mitraglia . Verso le 18 torno a Tresenda , nel bracchino sotterraneo . Un colpo di artiglieria , vicinissimo , in arrivo , mi fa uscir fuori di volo . E’ una nostra batteria che spara una quarantina di colpi in tutto . Coppi vicini , metallici , fortissimi . Crederanno di sperare sulle linee russe ! Altra novità . Sul rovescio del Val Chiese bruciano cinque o sei isbe piene di munizioni e bombe a mano . Gli incendi e le vampe sono visibilissimi dalle linee russe , gli scoppi numerosi e violenti . Una staffetta della 48 arriva con un foglio del capitano Frascoli . Purtroppo la linea telefonica è ancora interrotta . Mangio senza appetito una pastasciutta di tubi e scatoletta . Ho un gran bisogno di riposo , la situazione mi tiene sveglio . Alle 20 la linea telefonica è riattivata . Mi collego con Frascoli e ricevo risposta . Nessuna novità . Spero di far passare il tempo sfogliando qualche libro , ma il tempo non vuol passare . Alle 21 torno in linea . Ultime disposizioni . Finalmente alle 23 Frascoli segnala che il ripiegamento inizierà domani alle 4 . E’ una buona notizia che mi rialza il morale . Negli attimi di maggiore pessimismo avevo pensato che i superiori comandi potessero dimenticarsi di noi . Spedisco le staffette con gli ordini di ripiegamento . Il caposaldo Madonna , più lontano , ripiegherà alle 3,45 . Quando la pattuglia Marchetti mi segnalerà l’arrivo di Madonna alle “ case rosse “ . farò ripiegare la piana . Le stufe di postazione dovranno essere piene e accese . Massimo silenzio . Torno in linea . Lontano , dall’ansa del Don , i cecchini sparano . Le nostre armi automatiche , sempre in movimento da una postazione all’altra , rispondono con brevi raffiche . Il 16 Gennaio i russi hanno attaccato l’Edolo , nella piana di Basovka . Se tentassero stanotte anche a Belogore ? I russi conoscono la situazione disperata del corpo d’armata alpino .

 

S.ten. Nuto Revelli (La guerra dei poveri - 4^ Parte)

18 Gennaio Alle 2 , da Komunas , un riflettore taglia il cielo con un fascio di luce . Ho l’impressione che cerchi i due “ samaliot “ che poco fa hanno sorvolato il don . Ma il fascio di luce si abbassa, rischiara Madonna , si sposta , illumina Belogore . Mai visto un riflettore in tanti mesi di linea .Le paure riaffiorano . Finalmente si spegne . Sul mattino , il freddo è più intenso . Abbiamo avuto una notte limpidissima . Sulla destra , verso la 48 , brucia un’isba . L’incendio è breve . Sono le 2,30 . Alle 3 spedisco le staffette Ragazzoni e Scanzi a Madonna , con l’ora esatta per l’orologio scassato di Robustelli . Poco fa hanno ripiegato la linea telefonica con la 48 . I due cannoni anticarro del sottotenente Belgrano sono ormai in via di ripiegamento . Raggiungeranno direttamente quota 181 . Il tempo non passa , i minuti durano giorni . Sono le quattro mano cinque e della pattuglia Marchetti nessuna notizia . Tutta la linea sta ripiegando ; ormai i mascheramenti del Vestone , del Tirano , dell’Edolo avranno abbandonato il Don . Noi non possiamo muoverci . Alle 4 finalmente arriva la pattuglia Marchetti . Due staffette portano alle squadre della piana l’ordine di ripiegamento . Lascio Tresenda e raggiungo le “ case rosse “ . Incontro Madonna , proseguiamo verso la “ piazzetta del carro armato “ . Nel buio ci contiamo . Mancano due alpini all’appello . Tra mezz’ora arriverà l’alba , non abbiamo tempo da perdere . Sul Don sono rimaste soltanto le stufe accese a guardare i russi . Il punto di radunata del mascheramento di battaglione è quota 181 . La colonna si fa lunga e lenta , ogni alpino trascina il suo carico . Incontriamo la 49 e riprendiamo coraggio . Su quota 181 i reparti si frammischiano .Il cielo è rosso , il sole sta nascendo . Siamo in alto , e dal Don i russi guardano . E’ necessario “ pistare “ subito . Riordinamento e si parte quasi di corsa . La 46 è in coda . Sono “ ufficiale di coda “ , sono proprio l’ultimo della colonna . Sento il vuoto alle spalle , fisicamente , come se camminassi nella neve senza scarpe . Frascoli vuole che la 46 segua un itinerario diverso . Mi parla di un bivio dove dovrei prendere a sinistra , poi a destra . Non sono d’accordo . Insiste , precisa che avrò una guida . La guida però non conosce la strada ; così si rinuncia . E’ in salita che dobbiamo correre , quando siamo visibili dal Don . Nelle conche , prendiamo un po’ di fiato . Arriviamo alle postazioni dell’artiglieria alpina . Da lì stanotte partirono quaranta colpi convinti di sparare ai russi . Lo sbarramento fu così ravvicinato da accoppare un mulo della 49 . Ogni tanto uno scoppio . Il capitano Frascoli si sente robusto , lancia le bombe a mano raccattate lungo la pista . Si stancherà presto . Si dice che stanotte la sua risposta all’ordine di ritirata del comando reggimento sia stata questa : “ Morale altissimo “ . Beato lui ! Non muovo due dita della mano destra . Il dottor Taini mi consiglia di massaggiarle . Infilo la mano dentro il cappotto e tornano normali . A Morosovka dovremmo incontrare un battaglione di fanteria sistemato a caposaldo . Lungo la pista , autocarri e autocarrette abbandonate , le prime cassette di munizioni buttate . Non si cammina , si rotola verso ovest quasi correndo . Sono sempre in fondo alla colonna, con i ritardatari . Urlo di continuo di stare sotto . Un alpino della 46 , arrivato sul Don con i complementi , trascina faticosamente il suo slittino con su lo zaino .E’ stanco , procede a stento , sbanda . Non vuole abbandonare il carico . Arriviamo a un chilometro da Morosovka , dove inizia la lunga discesa che porta al villaggio . Una colonna di autocarri sulla sinistra sta infilandosi tra le isbe . Sostiamo interdetti , potrebbero essere russi . Proprio così . sentiamo il vuoto attorno , siamo soli . D’istinto guardiamo indietro , davanti , sui fianchi . Ogni rumore viene percepito , individuato . Gli aerei ci terrorizzano . La nostra colonna è pesante e stanca , basterebbe un carro armato e sarebbe brutta sul serio . Nostre pattuglie scendono verso Morosovka per riconoscere la colonna di autocarri . Non sparano , segnalano che è roba nostra . Riprendiamo il cammino . Nel villaggio autocarri e carrette abbandonate , muli dispersi , macchine tedesche pronte per la partenza , un po’ di materiale tedesco abbandonato , il mascheramento dell’Edolo che ripiega . E’ strano che in Morosovka sia rimasta la popolazione . Non mancano fior di giovanotti . La nuova linea sarà più arretrata di Podgornoe ! Il battaglione Vicenza che doveva attenderci è già pistato via . Non incontriamo che i primi dispersi di questa scombinata divisione . La divisione Brambilla – così la chiamano gli alpini – era fatta per le lontanissime retrovie , con gente anziana , meno atti , rivedibili , sedentari . Invece era stata mandata allo sbaraglio . Un fante mi scongiura di aiutarlo : è senza scarpe , ha i piedi fasciati con una coperta . L’unica sua salvezza sarebbe di partire con gli autocarri tedeschi . Ha chiesto aiuto alla colonna degli autocarri italiani , ma quelli hanno tirato avanti . Sento una gran pena . A quattro passi c’è un autocarro con il motore avviato . Bestemmio un po’ di tedesco , tanto da farmi capire , tocco i piedi del fante , grido “ kaputt “ . Uno dei kruki , sbraitando e gesticolando , mi fa intendere che non lo vuole sul suo camion perché gli italiani gli hanno negato non so cosa . Punta un dito alla tempia , parla di un colpo di pistola . Urlo che non è un buon soldato : “ Soldat kamarad ne charos “ . Un sottufficiale tedesco , che ha assistito alla scena , ordina di lasciarlo salire . E’ il primo e l’ultimo tedesco a cui stringo la mano :terminerò la ritirata offrendo a un tedesco una pallottola nel cranio . Torno al mio reparto ; si cammina a passo lesto . comincia a nevischiare , i granellini gelati sembrano tempesta . In un capannone sperso nell’immensa piana sostammo un attimo .Faccio fuori due fogli di galletta . Piccoli fuochi di paglia sgelano le ultime scatolette . A riprendere il cammino si fa presto ; basta che dal capannone esca un gruppo di uomini e tutti gli altri lo seguono . Lungo la pista molte cassette buttate , autocarri abbandonati , materiali sparsi . Faticosamente , una colonna motorizzata tedesca scivola verso Podgornoe . La stanchezza si fa sentire , camminiamo curvi , piegati in due . Con la tormenta , la colonna si fa lunghissima . Il nevischio vola sul ghiaccio della pista , sembra nebbia . Fame e stanchezza , freddo e malinconia . Podgornoe non dev’essere lontana . Altre cassette buttate , della 46 . Ormai sulle slitte non sono rimasti che gli zaini e i viveri . Altri autocarri abbandonati . E’ l’ora delle cassette ufficiali saccheggiate : sono sparse sulla neve , spaccate , vuote . C’è ancora chi raccoglie qualche bomba a mano . Diminuisce la luce , il freddo aumenta . Una lunga salita , una piana , e appare Podgornoe . E’ proprio Podgornoe con la grande teleferica dai robusti tralicci in legno e le fabbriche in muratura , Podgornoe , lunga e stretta , nella sua fossa non profonda . Scendiamo verso il paese in fiamme : scoppi sordi , lontani , dei depositi di munizioni che saltano in aria . E’ sera . superiamo una colonna di slitte ed autocarri tedeschi . Gli incendi si avvicinano , si ravvivano a tratti , fra scoppi cupi o metallici , sordi o violenti . Una cappa di fumo oscura Podgornoe . Là è già notte . Il rosso delle fiamme sembra avvolto nella nebbia ; tutto appare sfuocato , irreale , come le nostre illusioni . Siamo ormai ai margini dell’abitato , la confusione aumenta , non incontriamo che gente disperata o rassegnata . Un deposito di munizioni salta in aria ; ad ogni scoppio pezzi di muro e schegge piovono sulla nostra colonna . Sfiliamo in piccoli gruppi , quasi correndo , sperando nella buona stella . Gente che corre , che si trascina , che urla , che cerca e perde il reparto . Gente spaurita , perplessa , senza speranza . Colonne che arrivano , che partono , che s’intralciano : colonne di uomini , muli , autocarri. Riuniamo i nostri reparti su una piazzetta . Gli alpini sdraiati sulle slitte , sugli zaini , sono immobili , assenti , riposano e basta . Con Nicola , Taini , Venturini e altri discutono sul da farsi . Speriamo di ritrovare il battaglione . Frascoli si è allontanato per cercare il reggimento . Tornano i primi alpini ubriachi , portano gavette e borracce piene di cognac . Altri partono , vanno poco lontano , al magazzino tedesco abbandonato . Là , fra le casse di cioccolato e galletta , c’è cognac per tutti . I meno ubriachi ridono , sghignazzano , bevono ancora come se il cognac fosse acqua . Molti sono già stesi sulla neve , inebetiti . Impedire che altri si ubriachino è difficile ; fuori dalla piazzetta c’è il caos , c’è il movimento convulso delle colonne , degli sbandati . Appena avvertono che a manrovesci buttiamo in aria borracce e gavette , gli alpini scappano , si nascondono , oppure diventano violenti . T. , è uno dei migliori della 46 , non è ubriaco. Arriva con una borraccia piena di cognac , me ne offre . Con una manata gliela butto in aria . Con uno sguardo cattivo sembra dirmi : “ Dopo quaranta chilometri di marcia siamo in una tomba . Con il freddo che soffriamo , con le previsioni che abbiamo , neghi anche questo ! “ . Per un po’ corro da un alpino all’altro come un indemoniato . Frascoli non torna . Decido di muovere con i pochi che potranno seguirmi , l’importante è allontanare subito i non ubriachi dal cognac . Parlo con Nicola e muovo . Sfiliamo luogo la ferrovia , verso il centro della città . Nel buio si procede a stento fra sbandati e colonne di ogni genere . Fermo un ufficiale di sussistenza , gli chiedo dove sono gli alpini . Non sa dove sono gli alpini , non capisce più niente ; sa una sola cosa , che siamo accerchiati , che la situazione è disperata , che si teme un’incursione di carri armati e forse aerei . La sua voce a tratti è stanca , lontana , a tratti nervosa , quasi isterica . Aggiunge che sono segnalati forti concentramenti di forze russe a pochi chilometri da Podgornoe . Scambio gli auguri , che Dio ce la mandi buona ! Il vento gelido solleva il nevischio e tormenta gli occhi . Si procede curvi , barcollando , a tentoni . Apprendo da un alpino della reggimentale che siamo sulla strada giusta per raggiungere il Tirano . I più ubriachi si perdono , cadono . Chi li vede non li raccoglie , restano nel buio , nel freddo dei 35 gradi a congelare , a morire lentamente assiderati . Rallento , sperando che i più mi seguano . Per un tratto mi sono spostato lungo la colonna,ho fatto raccogliere i primi che cadevano , finche ho avuto le slitte piene . Ormai non penso più a chi cade , tiro avanti . Gli incendi portano un po’ di luce : gli scoppi , boati lugubri , scoppiettio di migliaia di pallottole che friggono . Anche il sottotenente X è ubriaco : è disteso sulla neve tra due alpini addormentati . In un grande kolchoz di grano e di biada , finalmente incontro i resti della mia compagnia . Poco lontano , in un’isba , raggiungo il comando della 46. Grandi , De Filippis , De Minerbi e gli altri sono stesi per terra . Mi specchio nel loro viso , trovo la mia stanchezza , il mio sconforto , la mia disperazione . Grandi mi orienta brevemente. Il 15 Gennaio noi eravamo in linea , a guardare il Don . Sul comando del corpo di armata alpino , su Rossosk , piombava una colonna di carri armati russi . Per il generale Nasci non esisteva altra via di scampo che puntare verso est , su Podgornoe . Le infiltrazioni russe erano già profonde , avevano sconvolto anche le lontanissime retrovie . Il fronte è in sfacelo , le unità sono sbandate , in fuga . I comandi non controllano i reparti , attendono ordini che potrebbero non giungere più . Purtroppo anche il grosso della 46 ha vissuto il dramma del cognac . Parte delle ubriacature sono smaltite , alcuni alpini sono dispersi , altri gravemente congelati . De Minerbi e Perego escono , per sistemare il mascheramento della 46 nel capannone . Il mio attendente Balossi ha il mio zaino , il saccapelo e l’elmetto . Lo trovo steso in un’isba , tento di farmi capire , di farlo parlare , ma perdo tempo . Le nostre slitte non riescono a superare i binari della ferrovia per raggiungere il kolchoz . Attorno , sulla neve , una decina di ubriachi . Lontani , altre macchie nere , altri alpini che gelano . Trasciniamo i più vicini , sono pesanti , come morti . I meno gravi hanno un principio di congelamento , altri non riescono nemmeno a gemere . Nel capannone si confondono con gli ubriachi del mattino . Le slitte , per superare i binari , dovranno essere scaricate e poi ricaricate . Perego e De Minervi lavorano senza respiro . Un conducente , aggrappato ad una slitta , urla come un ossesso . A stento riesco a calmarlo . Nel capannone , la montagna di grano è coperta di alpini : una montagna senza neve , con gli alpini grossi , enormi , che la coprono . I più ubriachi rantolano come i feriti gravi ; gli altri ghignano , sorridono , non ascoltano gli ordini , se ne fregano di tutto . Anche i sani sono disperati , non pensano che alle baite , alle famiglie , al domani . Forse invidiano gli ubriachi , che nel sonno non rivivono la ritirata . Sono stanco , demoralizzato , ho fame e non riesco a mangiare . Penso ai miei alpini e vorrei piangere . Nel mio animo c’è la loro disperazione : sento pena e rabbia perché non hanno saputo resistere . La tormenta continua , il freddo è sceso sotto i 40 gradi . Colonne che passano , sbandati che cercano i reparti , che urlano . Anche gli ospedali hanno rovesciato nella neve i feriti , i malati : almeno quelli avrebbero dovuto smistarli nelle retrovie . C’è disperazione per tutti , siamo tutti uguali . Arriva un forte odore di bruciato , le macchie degli incendi si allargano . Con gli scoppi si alzano strisce di fuoco giallastre , bombe e razzi che si incontrano nelle fiamme . Nel freddo cielo di Podgornoe ormai ardono tutti magazzini della più importante base logistica del corpo d’armata alpino . Con me c’è Grandi , ed a forza di girare troviamo il comando battaglione . Il capitano Melazzini ha pronto un ordine per me . Il mascheramento del Tirano deve passare in forza al battaglione Edolo : come se non bastasse , mi chiedono di organizzare subito una linea di resistenza lungo la ferrovia . Melazzini , aiutante maggiore del Tirano, è un montanaro generoso e coraggioso , che vuole tenere in pugno a tutti i costi la sorte di altri montanari , dei suoi montanari , della gente della sua valle . Conosce i paesi e le baite dei suoi alpini , è duro come una pietra , resiste allo sconforto , alla disperazione . Incontrare Melazzini e ritrovare coraggio è la stessa cosa : i suoi occhi pieni di bontà e di fermezza parlano , chiedono che ognuno dia il meglio di se stesso per salvare il salvabile . L’ordine non è eseguibile . In questo inferno non è possibile ritrovare l’Edolo , e tentare una difesa lungo la retrovia sa di follia . Tocca sempre a me ! Dovrei assumere il comando di una ottantina di ubriachi , dovrei portarli fuori , nella tormenta , a gelare . Ma se non trovo un alpino sano per ogni arma automatica ! Questa volta non mi staccherò dal grosso della 46 , non voglio che la 46 abbandoni novanta ubriachi al loro destino . Arriva il maggiore Taccagno dal comando reggimento ; porta le ultime novità : “ Salvare l’uomo , abbandonare zaini e materiali , bruciare gli archivi , rendere fuori uso una parte delle armi automatiche . “ E’ il disastro . “ Alle 18,30 il Tirano lascerà Podgornoe , per attaccare il villaggio di Skororyb . Il mascheramento del battaglione , come reparto autonomo , passerà la notte all’addiaccio , lungo la ferrovia . Soltanto all’alba muoverà verso Skororyb , per ricongiungersi con il grosso del Tirano “ . Il maggiore si è disteso su un letto . Appare nervoso . Ai suoi ordini scarni , da non discutere , non aggiungere una parola . La mia risposta è chiara , decisa . Il mascheramento del battaglione è senza comandante : Frascoli è sparito . Una notte all’addiaccio nei 40 gradi sotto zero , con il 90 per cento degli alpini ubriachi fradici , è impossibile . Il mascheramento è sfasciato, gli uomini sono sparsi in zone diverse della città. Se non vogliamo perdere in partenza trecento alpini cerchiamo un nuovo comandante che coordini i vari reparti. Taccagno mi suggerisce di rintracciare il capitano Panzeri, per chiedergli di interessarsene. Passando da un’isba all’altra trovo Panzeri. Sono fatto per le cose precise; accompagno Panzeri dal maggiore perché riceva gli ordini. Panzeri lascerà i suoi alloggiamenti alle quattro di domani. Noi della quarantasei seguiremo il suo reparto, l’82° divisionale. All’altezza dell’ospedale principale della città incontreremo i mascheramenti delle altre compagnie. Torno al mio capannone. I sani, i meno ubriachi, i meno congelati, si stanno incolonnando per marciare verso Skororyb. Parlo con Grandi, con gli altri ufficiali. Pensano all’azione che li attende fuori Podgornoe. Con uomini stanchi, con armi arrugginite, è come andare al massacro. Il sottotenente Torelli, l’unico ufficiale della 46 che resterà con me, ha lasciato ieri l’ospedale, è ancora febbricitante. Nel kolchoz vorrei trovare almeno un sottufficiale non ubriaco, ma nessuno mi aiuta a cercarlo. I fuochi sono quasi spenti. Inciampo negli uomini, nelle armi. Torno ad uscire. Ho voglia di piangere. Il vento freddo, violento, raccoglie gli schianti delle esplosioni, trasporta gli incendi da un’isba all’altra. La tormenta toglie il respiro. Non ho un attimo di pace; la mia non è paura, è disperazione. Torno a girare nel kolchoz, affondando nel grano come la neve fresca. Sveglio tanti alpini per trovarne uno non ubriaco. Mi stanco. Non penso alla linea di resistenza lungo la ferrovia, non ci ho mai pensato. Mancano gli uomini, sono come morti. Non trovo nemmeno una vedetta, esco ogni mezz’ora a guardare se i russi arrivano. Il mio attendente è introvabile. Vorrei mangiare per darmi forza. Le ore non passano, non riesco a star fermo, devo muovere, camminare, sentirmi vivo. Stesi sul grano gli alpini gemono: non riposano, soffrono dormendo. Spero che prima dell’alba le sbornie si smaltiscano. Alle 22 arriva il sergente Posterla, l’addetto ai viveri della compagnia. E’ disoccupato. Vede che tutti scappano e mi chiede un consiglio. “Attendi l’alba,-gli dico,-poi salti su un autocarro e pisti”. Gli chiedo un pezzo di galletta. E’ generoso, mi offre anche una scatoletta. Nel kolchoz l’ultima luce dei fuochi va scomparendo. Fuori, buio e tormenta. Ore 2 del 19 gennaio. Allarme. Il vento ingrandisce le urla, il buio aumenta il panico. Armi automatiche che rafficano, esplosioni che sembrano scoppi di bombe a mano. Sono solo, nel capannone, con la mia paura. Temo di non arrivare in tempo alla porta più vicina, nella paura vedo i russi che spalancano la porta, vedo i parabellum che sgranano. Fuori c’è movimento, come se i russi stessero arrivando. Le isbe si svuotano, chi urla, chi spara per farsi coraggio. Lontano, una mitraglia sgrana lunghe raffiche, forse chiede aiuto. Non vedo che ombre impazzite. La tormenta mi costringe a rientrare. Alle 3 do la sveglia: a calci, a urtoni, urlando. Urlo, urlo forte, ma i più non mi sentono. Grido, urlo che dovranno seguire i miei ordini se vogliono salvarsi. Abbiamo un’ora di tempo per lasciare il kolchoz, per abbandonare Podgornoe: poi sarà tardi. I più sani seguano il reparto, i congelati cerchino un automezzo. Per gli ubriachi non c'è la salvezza. In pochi, nella tormenta, attacchiamo i muli alle slitte. Alle 3,30 dovrebbero arrivare altri dieci muli con il sergente Posterle. Alle 3,45 adunata fuori. Torno per l’ultima volta nel capannone, giro, guardo uno ad uno gli alpini che abbandono, ne conto quindici. Alcuni comprendono, mi guardano con le lacrime agli occhi: gli altri ronfano. Arrivano i muli di Posterla. Sono le 4 e sfila la 82° divisionale. M’incolonno e la seguo. Infiliamo la pista che va sullo stradone principale, ci inseriamo nella bolgia. Colonne impazzite di autocarri, carriaggi, slitte, salmerie: italiani, tedeschi, che urlano, spingono, bestemmiano, sostano, corrono. Siamo come i sassi di un torrente in piena, rotoliamo urtandoci duramente. Incrociamo colonne, ne tagliamo altre, altre incrociano e tagliano la nostra. Muoviamo appena, oppure corriamo: è un tiramolla, un urtarci, uno spingerci, un confonderci continuo. Attorno, isbe che bruciano, scoppi, bagliori, razzi che solcano il cielo oltre le fiamme degli incendi. Nella tormenta ristagna un forte odore di bruciato, un fumo denso, che il vento non riesce a disperdere. Il sergente Robustelli si è procurato un paio di sci. Correndo dalla 46 all’82° divisionale, fuori della colonna in marcia, riesce a mantenere una specie di collegamento. La nostra colonna dovrebbe seguire l’Edolo, ma si dice che quel battaglione sia partito nella notte. Sostiamo per oltre un’ora, tanta è la confusione. Le colonne sono troppe e vogliono marciare a tutti i costi. Ancora magazzini che ardono, isbe che saltano in aria, depositi che esplodono. Il vento, correndo da un’isba all’altra, unisce i tetti di paglia, porta il fuoco da ogni parte. Comincia ad albeggiare, la marcia riprende, arriviamo ai margini della città. Nella neve, fra i materiali di ogni genere, c’è una bandiera italiana, la bandiera di un reggimento. L’hanno buttata nella notte, l’hanno pestata, continuano a pestarla. Certi sentimentalismi, qui, non contano più. Venturini l’ha vista per primo; la raccoglie, la porta con sé. Molti autocarri abbandonati, la maggior parte italiani: alcuni bruciano. Le colonne, dieci e più trovano sfogo nei campi laterali. Ai piedi di una lunga salita le colonne si sfasciano, anche i reparti che avevano conservato un minimo di organicità sono una folla disordinata, che preme per marciare, per farsi posto. Il passaggio è obbligato, largo quanto la pista. Fuori, nei campi, si affonda fino al ginocchio. Dozzine di autocarri, slitte, muli sembrano giocattoli rotti, abbandonati, dopo un gioco finito male. Tutti vogliono attaccare la salita al più presto. Ognuno vuole sentire più gente possibile alle spalle, vuole camminare. A star fermi si gela, camminando si pensa di meno, si odia di meno. I tedeschi sono prepotenti, solo per loro deve esserci posto; anche nella ritirata sono i miliardari della guerra. Bene equipaggiati, bene riforniti di viveri, viaggiano su slitte di dotazione trainate da potenti stalloni. Gridano, vogliono passare ad ogni costo, ne abbiano o no il diritto: ci trattano con disprezzo, come se fossimo dei prigionieri. Molti indossano le tute bianche trapuntate e calzano i “vàlenki”. Il freddo è sempre intenso, il cielo promette altra neve, forse tormenta. Dopo una lunga sosta, finalmente, riprendiamo il cammino, in salita. La marcia si fa dura, la neve sembra sabbia. In questo tratto di pista il corpo d’armata italiano ed i reggimenti tedeschi si spogliano, buttano il superfluo, restano con l’indispensabile per tirare avanti. C’è un’ampia striscia nera di cose buttate, maschere antigas, vestiario, coperte, armi, rottami di ogni genere. All’orizzonte verso il Don, brevi colonne di ometti che sfilano. Forse sono italiani, i ritardatari, gli sbandati, i dimenticati. Basta un autocarro che slitti, che si metta di traverso, per intasare tutto il traffico motorizzato lungo la salita. Ripartire è poi difficile. Gli autisti impiegano pochi istanti nel tentativo di riprendere la marcia: se l’automezzo no parte lo abbandonano. La legge è una sola: non perdere tempo. Riusciamo ad infilarci fra le colonne, pistiamo a tutto fiato per prendere quota, per non perdere il collegamento con la nostra colonna che ci precede. Staccarci anche per poco vuol dire essere incrociati e superati. Per un breve tratto abbiamo al nostro fianco il reparto di un ospedaletto del 5° alpini. Su due slitte-ambulanza sono stesi pochi feriti, i soli che hanno potuto sgombrare. Presto saranno abbandonati anche quelli. Si pista, si pista forte: è l’inizio di una corsa senza fine. Calpestiamo maschere, coperte, zaini, armi, bombe a mano, cassette di munizioni, slitte sfasciate. Passiamo fra automezzi e carrette abbandonate. Non è ancora l’ora dei morti, cerchiamo ancora, disperatamente, le linee tedesche. La nostra speranza è di allontanarci da Podgornoe, di ritrovare il battaglione, di seguire la sua sorte.

 

S.ten. Nuto Revelli (La guerra dei poveri - 5^ Parte)

Dopo la salita ci affacciamo ad una piana immensa. Nei campi non si affonda più, la colonna trova sfogo, diventa una fascia nera, larga un centinaio di metri. A Podgornoe abbiamo buttato gli zaini. Ognuno è rimasto con una coperta, il fucile, qualche caricatore, qualche bomba a mano. Superiamo molte colonne. Camminiamo piegati in due, ma con la testa rivolta in su, per guardare, per non perdere i collegamenti, per tenerci sotto. La neve è farinosa, ogni passo vuole la sua fatica. Verso le 13 raggiungiamo un gruppo di isbe. Molte colonne ferme, affiancate. Il Tirano è fermo, duecento metri avanti. Apprendiamo che presto rifarà la strada in senso inverso con il 5° alpini e con i resti della Vicenza, per seguire un itinerario riservato ai reparti organici. Ci sentiamo meno soli, meno sbandati. Il freddo è molto intenso, si gela. Autisti che incendiano una colonna di autocarrette. Donne russe, lontano, nella piana, raccolgono il vestiario buttato e l’infilano nei sacchi. Sfila il Tirano. Una slitta è carica di congelati: c’è su anche un comandante di compagnia, con i piedi ormai morti. Corre voce che il 6° alpini, autotrasportato, abbia seguito un altro itinerario: prima di notte dovrebbe essere già fuori della sacca, dietro le nuove linee tedesche. Abbandoniamo la pista principale, ci spostiamo decisamente sulla sinistra, seguiamo altre colonne composte anch’esse di reparti quasi organici. E’ la prima volta che assistiamo ad un’operazione di smistamento: presto ci renderemo conto che, quando vogliono far avanzare i reparti organici, è per combattere. Su per una lunga salita stiamo per raggiungere le colonne che ci precedono. All’improvviso due colpi di autocarro fischiano bassi sulle nostre teste. Penso alla mia borsa portacarte; è quanto mi è rimasto di più caro:anche ferito gravemente riuscirei a far sparire il mio diario e le fotografie di Annetta. Una nostra batteria anticarro apre il fuoco alle spalle. I soliti “squadristi”, credendoli colpi in arrivo, si tuffano. I più fifoni si trincerano addirittura dietro le slitte, o scavano buchette nelle neve come i tedeschi. Intanto, all’orizzonte, sull’ampio ciglio, le squadre dell’Edolo, aperte a scacchiera, vanno all’attacco. Sono piccoli alpini, sembrano lontanissimi tanto affondano nella neve. Altri colpi in arrivo, di mortaio e di autocarro. I primi morti, i primi feriti. Fragore di carri armati e incendi in cresta. Tocca al Tirano. La voce è partita da lassù, dove si combatte, è corsa lungo la colonna, diventa un grido: “Tirano avanti”. Tentiamo di riunire la compagnia. Chi fa il morto, chi se la squaglia. Come al solito, raccogliamo i volontari del combattimento. Grandi è già avanti. Nel buio superiamo le colonne, raggiungiamo l’incendio in cresta. Attorno al carro armato russo, che sta bruciando, una decina di tedeschi morti, con le tute macchiate di nero, di sangue. Riceviamo ordini dal nostro maggiore. Puntando su Skororyb la 46 dovrà rastrellare un ampio bosco. La 48 e la 49 ci proteggeranno sui fianchi. Forse, oltre Skororyb, saremo fuori dall’accerchiamento: ci caricheranno sugli autocarri, ci porteranno nelle linee tedesche poco lontane! Robustelli, con due sciatori, ha il compito di collegarci con la 49. E’ il più in gamba e tocca sempre lui pedalare. Avanzano le punte di sicurezza; dietro, i plotoni si aprono a ventaglio. Muoviamo verso un abitato, lo rastrelliamo, lo superiamo. E’ una marcia senza fine, la crosta ghiacciata si rompe ad ogni passo, affondiamo fino al ginocchio. Dopo il bosco, conversione a destra, puntando sugli incendi di Skororyb. Quando raggiungiamo il villaggio siamo stanchi da non poterne più. Incontriamo l’Edolo. Sosta nel freddo intenso. Si gela. Il maggiore va a rapporto, sparisce. Arriva un ordine strano: dovremmo organizzare una sistemazione a difesa lungo gli argini dell’abitato. In situazioni del genere gli ordini pazzeschi, non eseguibili, non si eseguono. Continuano ad affluire decine di migliaia di sbandati, le isbe sono piene, si accendono i primi fuochi di bivacco. Dopo due ore di attesa la compagnia si scioglie; se i russi arriveranno, pazienza. Cerco il comando di battaglione, passo da un’isba all’altra, scavalco un partigiano morto, trovo finalmente gli ufficiali del Tirano in una stanza, ammucchiati, uno sull’altro. M’infilo in un angolino, riesco a far sgelare una scatoletta. Penso al congelamento, vorrei guardarmi i piedi. Mi addormento subito. Nella notte qualcuno muove, cerca un posto, calpesta chi dorme. 20 gennaio Sveglia alle 3, di soprassalto. Grida di “allarme”. Brancoliamo nel buio per vestirci. D’istinto cerco le scarpe. Parte un colpo di pistola, sento un gemito. “Hanno ferito M.”,gridano. Accendono un lume: un tedesco sta infilando la porta, se la squaglia. Si dice che nella notte tre tedeschi si erano infilati nella nostra isba. Un tedesco, al momento dell’allarme, caricando la pistola, avrebbe lasciato partire il colpo mortale per M. Usciamo a cercare i reparti, urliamo nel buio e nel freddo. La 46 riesce ad adunarsi. Attendiamo ordini. Freddo, freddo intenso. A tratti nevischia. Incendi grandi e piccoli, isbe in fiamme e fuochi in bivacco. Mi scaldo accanto al fuoco della 46; faccio sgelare una scatoletta. Ho accanto Perego e Torelli. Arriva Grandi con una borraccia di cognac e la facciamo fuori. “Tirano avanti”. Superiamo le colonne ferme, sfiliamo lungo la reggimentale, scendiamo in una conca interminabile, per i campi. Lontano, all’orizzonte, ometti che muovono lentamente a scacchiera verso un villaggio in fiamme. Gli incendi, nella prima luce dell’alba, sembrano meno rossi. Sul nostro fianco molta gente ferma in una breve macchia di bosco, sbandati volontari o per forza, che attendono via libera. Spara una katiuscia, i colpi piovono sul villaggio. Altri incendi, qualche ometto salta in aria. Le raffiche di katiuscia sono parecchie, centrate e rabbiose. La discesa è terminata , dobbiamo salire . Nella neve si affonda fino al polpaccio . Non abbiamo ordini , non sappiamo se dovremo combattere . Il comando battaglione è assente , non arriva nemmeno una staffetta . Raggiungiamo finalmente il ciglio che da Skororyb appariva all’orizzonte . Stanchi , sfiniti , attraversiamo una breve piana , poi sostiamo attorno ad un grande kolchoz . La stalla è occupata da un reparto di cavalleria . Entro per cercare un po’ di caldo . Un tedesco sta strappando la paglia che chiude una finestra . Urlo , corro verso il tedesco , ma un artigliere alpino mi ferma , con fare deciso . E’ Gino , un vecchio compagno della spensierata vita borghese . Ho tardato a riconoscerlo. Gino è sbandato , non ha più notizie della Cuneese , proseguirà con lo squadrone di cavalleria a cui si è aggregato . Ho un pezzo di pane e lo divido . Ci lasciamo con le lacrime agli occhi , con la speranza di rivederci a casa . Fuori , la 46 si sta radunando . Non troviamo le altre quattro compagnie del Tirano , forse saranno già avanti verso Postojali . Il grosso delle colonne è ancora indietro , a Skororyb , nell’attesa prudente di via libera . Appena in movimento , incontriamo il comando del 5° . Notizie disastrose : il resto del Tirano si è quasi totalmente avvelenato . Mentre noi sostavamo accanto al kolchoz le altre compagnie del battaglione erano radunate poco lontano , a quattro passi da un camion russo abbandonato . Sul camion c’era un recipiente pieno di liquido giallo dolciastro . Un alpino gridò : “ è liquore “ e tutti corsero a bere , anche gli ufficiali . Era liquido anticongelante ! Spettacolo orribile : la piana che ci separa da Postojali appare punteggiata di macchie nere , ferme . Ogni cinque metri c’è un alpino che geme , che rantola . Chi vomita si salva . I più sono paonazzi , si contorcono , cercano , in uno sforzo estremo , la salvezza . Lunga sosta , di oltre un’ora , per attendere che i più si riprendano . Parlo con un capitano , del Pieve di Teco , che comanda una batteria di pezzi anticarro schierata sulla nostra sinistra . Della Cuneese non sa nulla . Grandi , con un gruppo di alpini , sta facendo cerchio attorno a tre ungheresi morti , bucati da pallottole , con il cranio aperto , finiti a colpi di moschetto . Sono senza scarpe , senza calze , duri come statue . Quando riprendiamo il cammino , molti avvelenati si trascinano , barcollando , ma ci seguono . Un centinaio di metri , poi la pista cammina in trincea . Dio che orrore ! E’ il macello del 6 gennaio . Noi eravamo ancora in linea ; qui , i carri armati russi schiacciavano una colonna in marcia . Ungheresi , tedeschi , italiani , una poltiglia di carne , ossa , vestiti . Non basta farsi forza ; gli occhi restano larghi , sbarrati , raccolgono , si riempiono . I più impressionanti sono i senza busto . Il solo tronco è orribile . Chi manca della testa , chi delle gambe , chi ha mezza faccia , chi ha il busto spezzato . E sono tanti ! Un artigliere alpino , steso lungo la pista , intatto com’è , sembra vivo . Mi fermo , mi specchio nel suo volto . Qui , dove pensare agli altri non è umano , trovo stranamente la forza di pensare agli altri . Lo scuoto , rinviene . Due alpini mi aiutano , lo sorreggiamo fino al Postojali . non ho pace finché non lo vedo in mani sicure , con il suo reparto . Nel villaggio i morti sono molti , quasi tutti italiani . Ieri , una nostra colonna motorizzata dei servizi subì un attacco di sorpresa : si contano a dozzine gli autocarri e le autoambulanze sfasciate . Numerosi anche i civili e i partigiani accoppati , fra le isbe . Appena fuori del villaggio , lungo una pista secondaria , due aerei russi mitragliano e spezzonano , da bassissima quota , una colonna di autocarri e salmerie : sbandamento , autocarri in fiamme . La valanga degli sbandati sta affluendo a Postojali . Gli ungheresi , a decine di migliaia , disarmati , sembrano prigionieri . Finalmente riusciamo a togliere la 46 dal freddo e dalla confusione : occupiamo un gruppo di isbe ancora libere . Si dice che presto ripartiremo . Entrano nella nostra isba alcuni ufficiali della Vicenza , un maggiore e i suoi subalterni . Il maggiore è mal ridotto , non ricorda più di aver comandato un battaglione fino a ieri ; dice , piagnucolando , che sua moglie piangerebbe se lo vedesse . Un rumore intenso , come di aerei in picchiata , ci fa balzare fuori . Sta passando un carro armato tedesco , corre verso Scororyb e le colonne si aprono , si sbandano per non essere schiacciate . Dalla torretta un ufficiale kruko punta la pistola sulle colonne , muove il braccio a ventaglio per farsi largo e urla , urla come una belva . Tornati nell’isba troviamo un alpino del “ liquido giallo “ . Gli tastiamo il polso : sembra addormentato , sta morendo . Quando arriva l’ordine di fare l’adunata è giorno . Ormai abbiamo perduto la nozione del tempo : se , uscendo dall’isba , avessi incontrato la notte , non mi sarei stupito . Attorno a due sacchi di scatolette i miei alpini fanno provvista . Arriva anche un sacco di sigarette . Saranno le 13,30 . Corre voce che sia passato un altro carro armato , con sopra il generale Riverberi , e che il generale gridasse : “ Fate largo , che vado avanti ad aprire il varco ! “ . Corre voce che anche il generale Nasci sia scappato con una “ cicogna “ . Non mancano i particolari ; il carro armato di Riverberi sarebbe stato degnamente scortato . Tutte storie . Riverberi è andato avanti , a riconoscere la zona di sfondamento : Nasci è rimasto con noi ed attende inutilmente un collegamento con il comando dell’ 8° armata . Raccolti intorno alle slitte , sul margine della grande pista , attendiamo l’ordine di movimento . Il freddo è atroce , da far impazzire . Da Postojali parte un’immensa scia nera , che si perde all’orizzonte . La punta delle colonne è ferma , ma , dietro , decine di migliaia di disperati spingono , premono per andare avanti . E’ come un groviglio di serpi chiuse in un tubo , file e file di uomini che si urtano ,che si odiano , che non pensano che a salvare la pelle . Le armi sono arrugginite , le munizioni sono poche , i disarmati sono molti : questa massa impazzita non vuole combattere , vuole andare avanti e basta . Sento urlare in tutti i dialetti , è un urlo solo . I tedeschi predominano , la fanno da padroni ; le loro urla sono sigle disumane , dure , metalliche . A Jassino – Vataja , nel lontano ottobre , sentii di non poter più combattere con i tedeschi e per i tedeschi , di poter combattere contro i tedeschi . Era un sentimento intimo , di cui quasi mi vergognavo , poiché la loro guerra era anche la nostra guerra . Oggi , invece , è un odio che mi fa gridare , perché gli alpini morti , per colpa dei tedeschi , dovranno un giorno essere rivendicati . Le colonne continuano a premere , a frammischiarsi , ad urtarsi . Siamo sempre fermi , si gela . Taglio una coperta a strisce , mi fascio i piedi . Salvare i piedi è troppo importante , ho la fortuna di avere ancora le scarpe , anche se la marcia sarà molto , molto più faticosa, I piedi , almeno , saranno salvi . Nella sosta trovo la forza di muovere i piedi di continuo , per provarne la sensibilità , per tener viva la circolazione . Molti hanno già buttato le scarpe : con i piedi avvolti in coperte è come se camminassero scalzi nella neve . I malloppi di coperte , duri come il ghiaccio , non coprono che cancrena . Ci riuniamo noi ufficiali , ci chiediamo se a Roma conoscono la nostra tragedia . Perché non ci salvano ? Piuttosto di sacrificare un’armata , chiedano l’armistizio ! Nasci sarà collegato con il resto dell’armata ? Dove sarà la linea tedesca ? E se tutti hanno tagliato la corda ? Non è venuto un solo aereo a cercarci ; soltanto gli aerei russi ci cercano , per mitragliarci da bassa quota . Forse anche i nostri grandi comandi sono prigionieri di questa situazione . Eravamo ancora sul Don , quando si disse che i tedeschi rubavano a mano armata automezzi e carburanti italiani per compiere fughe organizzate . Gariboldi apriva le inchieste ! Queste , le miserie di cui parliamo nelle interminabili ore di attesa . siamo soli , abbandonati . A guardarci l’un l’altro è come se ci specchiassimo. Una coperta ci copre il capo e le spalle; chi l’ha sacrificata per fasciarsi i piedi, sembra svestito. Verso le 19 la punta delle colonne, lontanissima, è ancora ferma. Ma le colonne continuano a muovere, sono dieci e più, con gli sbandati che s’intromettono e passano dall’una all’altra. Si accendono fuochi di bivacco. Poco lontano hanno pestato una bomba a mano. Un ferito chiede aiuto, nessuno lo soccorre, soltanto il gelo gli sarà amico:morirà nel sonno dell’assideramento senza troppo soffrire. Forse, chi gli è accanto lo trascinerà fuori dalla pista, dalle slitte, dai muli, dalle scarpe chiodate: nulla di più. Di là potrà gridare, urlare, nessuno lo sentirà. Anche noi della 46 abbiamo un fuoco. Mentre faccio sgelare una scatoletta, arriva sulla colonna un aereo russo che mitraglia e spezzona da bassa quota. Bombe e pallottole sull’immensa scia nera, urla di spegnere i fuochi, grida di feriti. I fuochi vengono spenti, ai feriti nessuno pensa. Ho perso la mia scatoletta ed il mio coltellino dal manico d’osso. Mi sdraio accanto a Grandi, sulla slitta delle armi, ma il freddo è troppo intenso, si gela. Anche Grandi si fascia i piedi. Alle 23 siamo ancora fermi, nell’attesa che Nasci e Riverberi decidano che cosa fare. 21 gennaio Alle 24, non so come, arriva l’ordine di andare avanti. L’ordine è per il Tirano. Comincia una marcia forzata per superare decine di migliaia di sbandati. Corriamo a tratti, ci urtiamo, passiamo da una colonna all’altra, urlando il numero della nostra compagnia. La neve sembra sabbia, sfianca. Segnalano un attacco sulla sinistra ed il maggiore Taccagno vuole che le squadre della 46 si schierino per reagire. Faticosamente tagliamo le colonne, ma l’attacco minaccia sulla destra e torniamo al punto di partenza. Breve sosta, di fianco alle colonne; poi riprendiamo il cammino fuori pista, nella neve fresca. Così fino all’una. Arriviamo al punto di smistamento. Un ufficiale del quartier generale ha l’ordine di far proseguire soltanto i reparti organici della Tridentina, di fermare i tedeschi e gli sbandati. La consegna è precisa: sparare su chi tenta di forzare. Ogni compagnia fornirà una squadra per il posto di blocco. Della 46 resta solo Perego, con un fucile mitragliatore. Riprendiamo la marcia, forse siamo il reparto di avanguardia. La notte è chiara, di fronte abbiamo una piana e poche ombre lontane. Raffiche alle spalle, brevi, secche, di armi nostre, del posto di blocco. Ci auguriamo che ogni colpo vada a segno per un tedesco. Una salita, un’altra piana, poi una conca che ci separa da un villaggio. Isbe che bruciano. All’improvviso cannoni anticarro che sparano. Taccagno grida che è roba nostra, che sono colpi in partenza. Se ne accorgerà più tardi! Anche due mitragliatrici sparano sulla sinistra e le traccianti volano alte. Il Tirano si arresta: gli italiani non hanno traccianti . . . Sono i russi che ci sparano addosso, da poco lontano. Ammassati, in piedi, guardiamo a lungo di fronte a noi. Non c’è panico: avvertiamo la presenza dei russi, ma siamo troppo stanchi per sbandarci, per tornare indietro. Per la 46 arriva l’ordine di spostarsi avanti ancora avanti. Scendo con il plotone di punta, raggiungo quasi la conca, mentre i pezzi anticarro riprendono a sparare. Altro che roba nostra! Vedo le vampe, sono i russi che sparano sul villaggio. Rumore di macchine, di carri armati. Due macchie nere, una a destra, l’altra a sinistra, avanzano con balzi di cento metri, puntano su di noi. Ci stendiamo sulla neve. Il cuore mi batte in gola. Un carro è ormai a venti metri, avanza per schiacciarci. Non mi muovo. Sono accanto a Grandi, dietro una lieve duna, e spero! Gli alpini muovono carponi, strisciano. Si ferma. Ruota su se stesso. Torna indietro. Alle nostre spalle una batteria da 75/13 sta prendendo posizione con alzo zero. Un’ora di sosta, così, stesi sulla neve, con il terrore che i carri armati ritornino. Poi, per il Tirano arriva l’ordine di attacco. Dovremo occupare il villaggio che abbiamo di fronte, a tutti i costi. Obbiettivo: l’incendio più grande. Come al solito tocca la 46 pistare per prima: come al solito c’è chi si perde con la coda della compagnia per non combattere. Fatichiamo ad assumere la formazione di combattimento. “Fare presto, fare presto,- urla Maccagno, - andare avanti alla garibaldina”. Avanziamo lentamente sul fronte ampio, raggiungiamo la periferia del villaggio, rastrelliamo le prime isbe. I centri di resistenza nemici sono ormai vicinissimi; procediamo a sbalzi. Proprio nell’attimo che precede le nostre raffiche Darè afferra una parola del . . . nemico. “ Chi siete”, urla Darè, ma nessuno risponde, nessuno spara. “Di che reparto sei”, urla Darè. “Sono alpino”. Intreccio di voci, in dialetto, prima sommesse, poi forti, allegre. Fa molto freddo, saranno le 4. Di fronte non abbiamo i russi, ma l’Edolo. Entriamo nel villaggio, tutte le isbe sono occupate. A stare fermi si gela, Maccagno è sparito e non arrivano ordini; così la compagnia si scioglie. Con Grandi e gli altri ufficiali entriamo in un’isba, di prepotenza, decisi a farla sgombrare. Spingendo, urlando, riusciamo a far libero uno sgabuzzino. Sono stanco, snervato come non mai. Mi stendo in un angolo, mi addormento. Anche nel sonno soffro, rivedo le colonne, i morti, risento le urla bestiali. A tratti mi sveglio di soprassalto, come uno spiritato: guardo i miei compagni con gli occhi sbarrati, poi mi riaddormento. Mi urtano, c’è movimento, agitazione. Fuori sta facendo giorno. Nel nostro sgabuzzino sono entrati un colonnello di artiglieria, un tenente colonnello degli alpini, un maggiore e un capitano. Adesso siamo in troppi; forse sperano di vederci uscire disciplinatamente, come se fossimo in caserma, magari con il saluto e lo scatto finale di congedo. Li guardiamo dal basso all’alto, restiamo sdraiati. Non vogliamo perdere il posto. Parte all’attacco il più bovino, il tenente colonnello degli alpini. Ordina di sgombrare, di “far posto al signor colonnello comandante”! Nessuno si muove. Ripete l’ordine. Grandi propone di far sgomberare la stanza attigua. I colonnelli acconsentono. Mentre Torelli e gli altri escono, mi sposto con Grandi su un letto lurido e infangato. Osservo il colonnello di artiglieria, un vecchio stanco, demoralizzato, che fa pena.E’ il comandante della retroguardia, questo povero vecchio che non capisce più niente. Ha in mano una carta topografica, trema, guarda fisso, con occhi spenti. Grandi tira fuori un pezzo di pane, che il tenente colonnello bovino accaparra e divide con il colonnello: mangiano con avidità. Intanto, nella stanza attigua, Torelli e gli altri spingono per far sgomberare. Un soldato, steso sul pavimento, non vuole alzarsi. Torelli insiste con le buone, poi l’afferra per il cappotto. Non è un soldato, è un ufficiale ferito, senza gradi, ed urla e si difende. L’equivoco si sta chiarendo quando arriva un capitano, quello al seguito del colonnello d’artiglieria: non capisce niente, crede che abbiano picchiato un ufficiale ferito, schiaffeggia Torelli. Succede un pandemonio, Torelli vuole reagire. Come se non bastasse entra in scena anche il colonnello di artiglieria. Sembrava mezzo morto, invece va su tutte le furie: “Io lo faccio fucilare,-urla-lo facciamo fucilare subito, senza processo. Qui possiamo fucilarlo senza processo”. Si rivolge a Grandi: “Anzi voi, fatelo arrestare immediatamente da due soldati, poi vedremo. Avete capito? Siete responsabile degli ordini che ho impartito”. Si sfiora la pazzia. Il tenente colonnello bovino acconsente. Tentiamo, io e Grandi, di intervenire: gridiamo che Torelli è un ottimo ufficiale, che si tratta di un equivoco, di un errore, che mai Torelli avrebbe messo le mani addosso ad un soldato ferito, ad un ufficiale ferito. Ma il colonnello è scatenato: non si fida più di Grandi, ordina al tenente colonnello bovino di far fucilare subito Torelli. Erano inebetiti, i colonnelli, quando entrarono nel nostro sgabuzzino. Adesso sono pazzi. Li guardiamo come si guardano i pazzi, siamo decisi a difenderci ad ogni costo, anche sparando. Fuori urlano, gridano che c’è l’allarme, che i russi stanno arrivando. Movimento generale, i colonnelli si precipitano fuori come forsennati. Il più pazzo, il tenente colonnello degli alpini, trova una specie di batteria anticarro. Fa puntare in un baleno i pezzi, ordina di sparare sui russi. E’ agitatissimo: dirige il tiro. Con il braccio teso indica i reparti russi che nei campi avanzano in formazione di combattimento. “Sparate,-urla,-sparate presto”, e s’arrabbia perché il primo colpo è lungo, si morde i pugni, perché il secondo colpo fa quasi bersaglio. Il capitano che ha schiaffeggiato Torelli trema come una foglia; ad ogni colpo di anticarro sussulta. Non capisce se tatticamente convenga attendere l’esito dell’artiglieria. Altri due colpi ed i . . . russi cominciano ad agitare coperte e moschetti. Evidentemente si tratta di un nostro reparto: qualcuno grida che è il Morbegno. Ma il tenente colonnello degli alpini non si dà per vinto, sbraita, vuole piazzare due mitragliatrici, vuole organizzare i centri di fuoco per il combattimento ravvicinato. Molti ridono, i più furbi tornano nelle isbe. Salta fuori da non so dove un maggiore, quello al seguito dei colonnelli. E’ tutto tremante, mi afferra per un braccio, mi chiede se siamo certi che non sono i
russi. Ormai il Morbegno ha serrato sotto, sta entrando nel villaggio. Il Morbegno era di retroguardia, ed il colonnello comandante di tutte le retroguardie, il baldo colonnello d’artiglieria, non soltanto l’aveva dimenticato, ma l’ha preso a cannonate. Mentre i colonnelli tornano nell’isba, noi decidiamo di spostarci, di sparire. C’è il pericolo che si riparli della fucilazione: non sono riusciti a far fuori quelli del Morbegno, vorranno fucilarne almeno uno del Tirano. Purtroppo l’unica mia coperta è rimasta appesa alla finestra dello sgabuzzino a sostituire un vetro mancante. Mi presento ai colonnelli, chiedo di poterla recuperare.

 

S.ten. Nuto Revelli (La guerra dei poveri - 6^ Parte)

Il tenente colonnello degli alpini è proprio un autentico pericolo pubblico. Mi ordina di lasciarla, che loro la custodiranno. Ma è l’unica coperta che mi rimane, se sparisce sono fregato! Niente da fare: si scandalizzano, si agitano, parlano di fiducia, di sfiducia, ne fanno una questione d’onore. Per evitare che questi rimbambiti decidano magari di fucilarmi esco e m’imbatto nell’attendente Balossi. Trovo un copertone da mulo. Dall’esterno dell’isba tento di sostituire la coperta con il telone. Ma il colonnello capisce il trucco. Dall’interno afferra un lembo della coperta e tira. Anche Balossi tira a gran forza: il tenente colonnello degli alpini aiuta il colonnello d’artiglieria, io aiuto Balossi. Attraverso il finestrino si svolge un dialogo concitato, da fucilazione. Con uno strappo abbiamo la meglio e via di corsa.incontro il tenente Alessandria della CCT. Di Maccagno nessuna notizia. Decidiamo di sistemare i pochi del Tirano in una grande casa rossa, poco lontano. Tedeschi, ungheresi, sbandati italiani attraversano il villaggio, vanno avanti. Fra le isbe, qua e la, partigiani e civili accoppati. La casa rossa sta bruciando, dalle finestre esce fumo. Anche questa è andata storta. Sarà difficile trovare un’altra sistemazione. Grandi è amaramente sconfortato. Mi racconta che un ufficiale gli ha proposto di abbandonare la compagnia, di scappare. Il povero Grandi, con voce commossa mi dice che se questa è l’ora della fine, sarà bello finire bene, combattendo. Ormai abbiamo pochissime speranze di farla franca. O prigionieri o accoppati. Tutti i comandi sono avanti, con i reparti cosiddetti organici, e con noi, in questo villaggio, non sono rimasti che gli sbandati, gli sbandati ritardatari. Troviamo un’isba vuota. Appena dentro ci sdraiamo sul pavimento, non facciamo un passo in più. C’è un tenente medico del corpo d’armata, un siciliano, che chiacchiera molto: insulta i comandi di Rossosk, vorrebbe aggregarsi al nostro reparto. Gli chiedo di medicarmi alcune piaghe, ma non sa da che parte incominciare. La fortuna mi aiuta, su un tavolo c’è una bustina di borotalco. Medicandomi continua a chiacchierare, a far domande. “Che professione fai?”, mi chiede. Dopo un attimo d’incertezza, con voce ferma gli rispondo”ufficiale effettivo”. Grandi ha compreso la mia incertezza, mi rivolge uno sguardo buono. In questa situazione c’è da vergognarsi di appartenere ad una categoria di falliti! Arriva un colonnello, il comandante di un reggimento di fanteria, con i suoi ufficiali. Poi arrivano i feriti del reparto. Bisogna sloggiare. Entrano altri feriti che gemono e gridano. Nel raccogliere i miei stracci trovo uno zaino:divido con De Filippis le due paia di calze che contiene. Il villaggio è quasi sgombro, ci sistemiamo in un’altra isba. Un gruppo di alpini ha “zabralato” nei dintorni alcuni favi; mangiano avidamente cera, api, e miele. Sono con noi gli ufficiali della CCT. Mi sdraio, dormo. Mi svegliano, vogliono che mangi un po’ di carne. Faccio asciugare le calze, mi spalmo i piedi di grasso anticongelante. Siamo stanchi, sfiniti. Ogni nostro movimento è lento, richiede fatica. Ci muoviamo soltanto a forza di volontà. Alle 12 si parte. Marcia veloce, superando i piccoli gruppi di ritardatari. Gli sbandati più fortunati viaggiano su slitte e muli. All’orizzonte un’immensa macchia nera: le colonne ferme. Camminando il corpo si scalda, anche l’animo si sgela, perché non c’è tempo per pensare. E’ star fermi che si pensa, che si ragiona su: che si sente il vuoto dentro. Raggiungiamo le colonne, le superiamo, perché il Tirano sarà avanti, come al solito, per combattere. Arriviamo ad un posto di blocco. Il generale Martinat ha fatto arrestare tutte le colonne, vuole avanti solo la Tridentina. Come sempre, alle nostre spalle, una massa immensa, decine di migliaia di sbandati, preme per passare: italiani, ungheresi, tedeschi. I tedeschi sono i più prepotenti. Un caporale che guida una colonna di slitte urla “ich Kommandant” e tira avanti. Il generale Martinat si aggrappa alle briglie degli stalloni, li trattiene per un attimo, sta per essere sopraffatto. Un nostro fucile mitragliatore, ben imbracciato, riordina la gerarchia fra gli alleati. C’incolonniamo con la CCT e l’Edolo e muoviamo, soli, sulla Armeestrasse. Il freddo è sotto i trenta gradi. Corre voce che presto incontreremo un caposaldo tedesco. Altri dicono che andiamo avanti per combattere. La neve sembra sabbia, non si cammina, si corre. Il treno è a saliscendi, tutto uguale, spaventosamente uguale. Siamo piegati in due: con i fagotti di coperte attorno ai piedi è come se incontrassimo un ostacolo ad ogni passo. Per un po’ cammino al fianco di Grandi, con dietro la compagnia. Perdiamo terreno, il reparto che ci precede si allontana. Di corsa lo raggiungiamo. Non ne posso più. Mi trascino per un’ora, poi salgo sulla slitta della 109, in coda al reparto. Ma sulla slitta gelo, il congelamento parte dai piedi e viene in su.riprendo a camminare. Ormai la stanchezza mi piega; no guardo più avanti, guardo i piedi, i malloppi di coperte pesanti come piombo. Da una slitta pende una corda. Mi aggrappo, a tratti, quando ne ho la forza. Sono i morti che mi fanno marciare, queste statue posate lungo la pista, i morti di stanchezza. Sostiamo per un attimo. Anche qui c’è un morto: è appoggiato su un gomito, con il busto sollevato, come se volesse alzarsi. Comincia la notte. Autocarri che bruciano, autocarri abbandonati. Sono gli ultimi che incontriamo. Nella luce degli incendi, accanto agli autocarri, montagne di casse vuote sfasciate. C’è una cassa di gallette, gli alpini si buttano come lupi affamati. Gridano che c’è zucchero fra le casse vuote e la neve. Raccolgono manate di neve e l’assaggiano, ma non è che neve, neve. La colonna è andata avanti. Per raggiungerla si corre sbandando, urtandoci, con gli occhi sbarrati. Arriva, da lontano, l’urlo della colonna. Forse è un villaggio, forse è il caposaldo tedesco. Raggiungiamo le prime case. Il Vestone ed il Verona stanno uscendo, vanno a combattere per occupare un villaggio poco lontano. E’ come a Postojali: anche la si diceva che il 6° alpini fosse già fuori dalla sacca! Nel villaggio sfiliamo fra gli alpini della Cuneense; sento che urlano in piemontese. Non ce la faccio più a camminare: salgo sulla slitta della 109. Il freddo è atroce, sui 40 gradi sotto zero. Adesso siamo fermi. Maccagno indica una fascia di isbe, grida che sono vuote, che dobbiamo occuparle. Maccagno era qui da parecchio tempo; fin dal mattino aveva lasciato il battaglione. Un povero soldato italiano, senza giacca, senza guanti, senza passamontagna, sembra nudo in questo freddo. S’infila in mezzo alla compagnia, urla, sbraita. “Voglio un ufficiale italiano,-grida,-datemi un ufficiale italiano”. E’ impazzito. Si gira a scatti, di qua e di là, per non essere colpito alle spalle, urla come una bestia ferita. Qualcuno lo beffeggia, altri lo spingono, lo buttano fuori. Puntiamo in direzione della zona assegnata. Non c’è un buco libero, tutte le isbe sono occupate da reparti della Cuneense e dai comandi del corpo d’armata e della Tridentina. Ci aggiriamo inutilmente; noi ufficiali avanti, gli alpini dietro a branchi. “Si gela”, gridano a tratti come un lamento. Attorno alle isbe, stesi sulla neve, la testa contro il muro, alpini che dormono, che gelano. 45 gradi sotto zero: è la notte dei pazzi e degli assiderati. Ricompare il pazzo. Urla, si scatena come un indemoniato. Gli gridano di allontanarsi. Piange, grida che non ne può più, che vogliamo ammazzarlo. Si gira a scatti, gli occhi sbarrati, grandi, che gli escono fuori: ruota su se stesso, e grida e agita le povere mani piagate dal congelamento. Continuiamo ad aggirarci, non c’è un buco libero. Ormai siamo in pochi, anche i pochi si sbandano. Resteremo all’aperto fino alle due del mattino: c’è un reparto che forse, a quell’ora, lascerà libere tre isbe. Ho freddo, tanto freddo, sono scosso dai brividi, la stanchezza mi atterra, non vedo che disperazione. Arriva un altro pazzo, un ufficiale ungherese. Arriva urlando come una bestia, corre e urla. Cade, rantola, non si alza più. Si addormenterà subito, morirà come un cane. Continuiamo a cercare. Niente! Attorno all’isba del generale Nasci, alpini stesi che dormono, che gelano. L’isba è piena zeppa di ufficiali. Grandi era deciso a far largo, ha aperto la porta, poi ha rinunciato. Non resisto più. Mi stendo sulla neve. La mia testa lavora ancora, sento che i piedi gelano, muovo le dita dentro le scarpe per non perdere i piedi. In gruppo, noi ufficiali, ci facciamo coraggio. Riprendiamo a vagare. Non siamo soli, molti come noi si aggirano, alla ricerca di un riparo. Un cappellano esce da un’isba: bestemmia perché gli hanno negato un sorso d’acqua, si sfoga con noi finché non gli diamo retta. Ci aggiriamo ancora, da un’isba all’altra, inutilmente. Poi stanchi, sfiancati, decidiamo di accendere un fuoco. Da più parti gridano “Tirano adunata”. Le altre compagnie del battaglione sono già quasi pronte. Dopo aver vagato per ore nel freddo si erano raccolte attorno ai fuochi di bivacco. “Tirano adunata”; e della 46 nemmeno l’ombra. E’ corsa voce che il nostro battaglione, dovrà attaccare un villaggio occupato improvvisamente dai russi: gli alpini fanno i morti, oppure, stesi sulla neve, dormono e gelano. Il Tirano è quasi pronto per partire: della 46 siamo un gruppetto, tre o quattro uomini. Reagisco alla stanchezza, grido, mi metto alla ricerca di chi si nasconde o dorme. Riusciamo a radunarne una cinquantina: alcuni sono ormai gravemente congelati. Un’isba si è improvvisamente incendiata e le munizioni e le bombe a mano saltano in aria con vampe e scoppi. Qualche alpino sta abbrustolendo tra le fiamme. Grandi mi propone di restare in paese, a raccogliere gli alpini che mancano. Potrei dormire qualche ora, poi raggiungere il battaglione. Ho l’esperienza di Belogore e Podgornoe: vincerò la stanchezza, seguirò il reparto, anche se in programma c’è un attacco. Rimane De Minerbi. C’incolonniamo accanto all’isba che brucia. Il vento forte minaccia di trasportare le fiamme sui tetti di paglia vicini. Ci precedono l’Edolo ed alcune batterie di artiglieria. Lunga sosta. Tutta la colonna è ferma da più di un’ora. Alle spalle gli alpini urlano, a tratti, quasi in coro, che gelano. Dall’incendio arriva un po’ di calore, la luce viva illumina il triste scenario. Un cappellano parla al vento, parla a voce alta e dice:”Poveri alpini, che fine vi hanno fatto fare; morirete, moriremo tutti”. Un alpino piemontese, poco lontano, canta, soltanto interrotto dagli scoppi dell’incendio e dalle urla di chi gela: canta una triste canzone alpina con voce calda in tanto freddo, canta con voce appassionata come canterebbe sui suoi monti, di fronte a un tramonto. Finalmente la colonna muove. C’è una lunga salita. L’artiglieria deve superare un ponte e si attarda con i pezzi. Si dice che il generale Martinat guidi la nostra colonna: è una notizia che ci rialza un po’ il morale. Un vento gelido ci toglie il respiro; anche il passamontagna dà fastidio: se copre la bocca diventa un blocco di ghiaccio. Quattro chilometri in una neve che sfianca, e si arriva in un villaggio molto sparso, in una conca. Per trovare il comando di battaglione perdiamo un’ora. L’ordine è di sostare. Qua e là per i sentieri, macchie nere, civili e partigiani accoppati. Ogni isba ha i suoi morti. Sistemazione discreta. Nella nostra isba c’è un vecchietto, miracolosamente risparmiato da chi ci ha preceduti. E’ molto servizievole: accende il fuoco, provvede un po’ di acqua di pozzo. Acqua di pozzo, finalmente, e non più di neve sciolta. In questo freddo soffriamo tremendamente la sete: la neve aumenta la sete, l’acqua di neve è nera e non disseta. Dopo aver raccolto un po’ di caldo ci stendiamo sul pavimento. È la mezzanotte del 21 gennaio. 22 gennaio Alle quattro sveglia. C’incolonniamo con il battaglione. Incontro Melazzini, è mal ridotto, ha il naso giallo, congelato. Alessandria, il comandante della CCT, in gamba come sempre, fa distribuire il caffè ai suoi uomini. Riesco a berne un sorso. Alle 5,30 riprendiamo il cammino. Colonne affiancate, sbandati tedeschi, italiani, ungheresi che s’infilano fra i reparti. Dopo tre ore di marcia, su un’interminabile piana, sostiamo per un attimo. Solo noi siamo fermi, fuori della pista, mentre le colonne continuano a rotolare. A due passi, un capitano anziano tende le mani, come se chiedesse l’elemosina; trema, piange. “Salvatemi, fatelo per i miei figli, per i miei bambini, salvatemi”. Mi fa pena, fa pena anche agli altri. Migliaia di uomini gli sono passati accanto, ignorandolo. Il nostro medico, il dottor Chiappa, lo sistema su una slitta. Con la sosta il Tirano si è tagliato fuori, ha perso terreno, e non riesce a reinserirsi nelle colonne. Fuori pista non si può marciare. Taccagno tenta di arrestare i tedeschi, prepotenti come sempre: imbraccia un fucile mitragliatore con decisione, e Perego, generoso e instancabile, gli dà man forte. Così riusciamo finalmente a sfilare. Sulla sinistra, accanto ad un’oasi di poche isbe, sostano i quattro carri armati tedeschi, i soli mezzi corazzati che accompagnano l’immensa colonna della ritirata. Lontano, all’orizzonte, una bassa cresta. Si dice che sia lassù la linea tedesca e si spera. È sempre così: quando appare un ciglio lontano o una valle si spera. Sempre così, per centinaia di chilometri. Anche i più disperati sperano: con i piedi in cancrena, con gli occhi chiusi dal congelamento, con le pallottole e schegge nelle gambe e nei fianchi, vanno avanti piegati in due, le braccia penzoloni, trascinandosi sulla neve, cadendo e rialzandosi, ma vanno avanti, vanno avanti, perché sperano nella linea tedesca. Qui dove tutto è morte, dove basta un niente, una distorsione a un piede, una diarrea, e ci si ferma per sempre, il desiderio di vivere è immenso. Camminare vuol dire essere ancora vivi, fermarsi vuol dire morire. A migliaia sono stesi lungo la pista, gli sfiniti, i dissanguati: non li degniamo d’uno sguardo, sono cose morte; passiamo correndo. I vivi, poiché molti sono ancora vivi, sentono la colonna che urla, che passa, che marcia verso la liberazione, e tentano di seguirci, magari strisciando, come se la linea tedesca fosse lì, a quattro passi. Pochi, soltanto pochi dei disperati, arrivano fino a un villaggio e poi sostano, attendono l’arrivo dei russi. Alzeranno le braccia e saranno salvi, poiché i russi non ammazzano gli italiani. Alcuni alpini della 46, catturati dalle pattuglie corazzate che operano alle spalle delle nostre colonne, vennero disarmati. “Italianskij charos: cikaj”, gridano i russi indicando la strada verso ovest, e gli alpini tornano al reparto. Per tedeschi, invece, nessuna pietà: tanti ne prendono, tanti ne ammazzano. La marcia continua, fra urla e spinte; a tratti si corre per non essere tagliati fuori. Marcia maledetta. Basta perdere per un attimo il collegamento, perché masse di sbandati e colonne s’inseriscano e creino scompiglio. Allora per la compagnia o la parte di battaglione tagliata fuori non ci sarà più nulla da fare fino alla prossima sosta, si marcerà da isolati, a volte ritrovando il reparto proprio nell’attimo che precede un combattimento. In pieno giorno arriviamo in una vasta conca dove tremila uomini attendono via libera . E’ una massa nera e profonda che sente la vicinanza dei russi : attende che apriamo un varco . Spara la katiuscia , quella tedesca ; è la prima volta che spara , dall’inizio della ritirata , e crediamo siano i russi. Sul ciglione che delimita l’orizzonte , ometti che avanzano in formazione da combattimento. Affondano fino al ginocchio. “ Tirano avanti “ , come al solito . Il grido corre lungo le colonne ; anche gli sbandati gridano “ Tiràno avanti “. Come al solito gli sbandati di professione , i furboni che marciano con noi solo per sfruttare il reparto , si squagliano a tutta velocità . La 46 , come sempre , dovrà andare avanti alla “ garibaldina “ , senza nulla sapere , senza nulla capire ; dovrà andare avanti di corsa e basta – per occupare Seljakino . Maccagno urla a Grandi di fare presto , perché il generale aspetta . Grandi protesta che tocca sempre a noi . Si sale verso destra , su per un dosso . Ma arriva il contrordine : niente combattimento , dovremo sbarrare il passo ai trentamila che premono . Soltanto i reparti organici della Tridentina potranno avanzare sulla pista ; spareremo su chi tenterà di forzare . Ci schieriamo su un fronte di settecento metri , con i fucilieri intervallati , con i mitragliatori e le mitraglie puntate , come su una vera linea . Alle nostre spalle c’è Seljakino ; di fronte abbiamo i trentamila che aspettano . Sbandati e reparti organici di altre divisioni tentano di forzare , ma una raffica li ferma . Poco più in la un tedesco ride perché una nostra Breda si inceppa e non vuole più saperne di sparare . Lo prendiamo a calci ; un alpino vuole farlo fuori . Alcuni sbandati dell’ospedaletto 618 mi riconoscono , mi parlano dei feriti e malati abbandonati , degli ufficiali medici , degli amici . Intanto la massa nera ha ripreso a camminare , avanza lentamente , come spinta . E’ la solita storia : quando le colonne sanno che davanti marcia un reparto organico non vogliono stare ferme e premono , spingono , perché a star fermi il rischio è grande , basta un aereo o un carro armato per fare un macello . Trentamila uomini che avanzano , che urlano , che bestemmiano : una massa di disarmati , che non vuole combattere , ma vuole andare avanti . I più prepotenti sono i tedeschi : sbandati o raccolti in colonne organizzate , i tedeschi conservano il senso della forza , della superiorità . Non combattono ; morti in combattimento ne hanno avuti pochi , ma urlano , la fanno da padroni . Sanno , i tedeschi , che i semoventi e i quattro carri armati che accompagnano le colonne sono loro : ed anche qui si sentono i miliardari della guerra. I tedeschi . Noi eravamo sul Don e loro scappavano da giorni . Il 15 gennaio una colonna kruka uscì intatta dall’accerchiamento a Postojali . Si dice che Nasci , da Podgornoe , abbia chiesto ripetutamente ai tedeschi di non scappare , di tamponare le falle , di aspettare almeno il ripiegamento del corpo di armata alpino . . Ma i tedeschi cercarono di guadagnare tempo . Con noi in linea , la loro fuga organizzata diventava più facile . Il nostro servizio di sbarramento si perde nel disordine . Tratteniamo gli sbandati , ma sulla pista principale le colonne marciano ormai verso il villaggio . Arriva l’ordine di ricongiungerci al Tirano , convergendo a ventaglio su Seljakino . I due plotoni di estrema destra spariscono nella massa che corre . Ai margini del villaggio incontriamo il battaglione e la Compagnia Comando Reggimentale che sostano. Un attimo ,poi urla di terrore da molte parti. 2 i carri armati russi. Confusione immensa . Gente che grida , che cerca riparo dietro le slitte , che si stende sulla neve , che procede carponi . Slitte abbandonate , muli impazziti , colonne che si urtano , che si sfasciano , reparti organici che si sbandano . Il panico prende tutti. I carri armati ci sono per davvero : sono comparsi su un ciglio poco lontano , a un tiro di pietra , e rafficano . In tanta confusione il Tirano si riordina . Qualche nostro pezzo anticarro sta sparando . Attraversiamo il villaggio , sento le raffiche che arrivano alle spalle , ho il terrore di sentirmi bucare la schiena . Fuori Seljakino sostiamo . Gruppi di sbandati ci superano correndo . Nel villaggio la sparatoria continua . E’ quasi notte . Anche le colonne che ci precedono sono ferme . Siamo in una balca , fra due alti steccati di legno che proteggono la pista ; non vediamo sui fianchi . Passa una lepre , sulla destra , vicinissima . Chi la vede , grida . Ho pensato ad un attacco di carri armati ! Freddo intenso , si accendono fuochi di bivacco . Così per ore ed ore , fermi , nel freddo che toglie il respiro . Apprenderemo poi che davanti non sapevano che strada seguire. Infatti non si tratta soltanto di marciare verso ovest: a volte si deve procedere a zigzag , per schivare gli sbarramenti russi più organizzati. Chi dirige tutte le operazioni è il generale Reverberi, con al fianco l’instancabile generale Martinat. Non appena riprendiamo la marcia, la neve si fa sabbiosa, pesante. È la neve peggiore, quella che stanca di più. Procedo a denti stretti, sbando dalla stanchezza. Ho una distorsione al ginocchio, non alzo, ma trascino i piedi nella neve, tanto sono pesanti. Al costato un dolore profondo mi opprime: forse è il cuore. Sento che le forze cominciano ad abbandonarmi, a tratti mi lascio distaccare. Se tento di riguadagnare il terreno perduto la vista mi si annebbia. Vado avanti per forza d’inerzia, a gambe larghe per non cadere; i piedi avvolti nei malloppi di coperte sono incollate alla neve ed il busto pende in avanti. Rivivo episodi dell’infanzia, lontanissimi, dimenticati, rivedo i miei, la mia Annetta. Nei brevi attimi di lucidità torno con la colonna. I ricordi mi sfiancano. Mi appoggio ad una slitta, mi lascio trascinare. Rinvengo. Un freddo intenso mi corre per le ossa, batto i denti, non sento più i piedi. Sono steso su una slitta: la slitta sbanda, scivola di fianco, saremo in discesa. Di sotto le coperte l’urlo della colonna sembra lontano. Attorno a me, feriti e congelati. Provo un senso di grande disagio, perché non vedo nulla. L’urlo della colonna si fa più forte, diventa bestiale. Sto congelando. Rivedo le gambe dei congelati, dei miei alpini feriti che viaggiano in slitta: da principio hanno il colore rosa, il colore delle bambole di celluloide, poi diventano sempre più scure fino alla cancrena. Devo camminare. Con sforzo sovrumano, devo camminare se non voglio perdere le gambe! Urlano che lontano c’è un villaggio. Scendo dalla slitta, vado avanti non so come. Arriviamo in un villaggio spaventosamente freddo. Nevischia. Sulla strada, al centro dell’abitato, due semoventi in postazione. Il villaggio è tutto occupato. Si ripete la solita storia: chi di giorno ha combattuto gelerà all’aperto. La compagnia riceve l’ordine di sciogliersi, ognuno si arrangi. Siamo rimasti una trentina. Non c’è un buco libero. Puntiamo verso l’estrema destra, verso le isbe più lontane e isolate. Niente da fare, sono piene zeppe. C’è un’isba parzialmente libera, ma senza tetto. Continuiamo a girare, sotto la neve che scende pian piano. Siamo bagnati fino alle ossa. Giriamo sempre, per ore, stanchi, delusi, rassegnati. Raggiungiamo un capannone aperto, pieno di uomini e muli. Decidiamo di passare lì la notte, almeno c’è un tetto che copre. Nella confusione ci perdiamo e ci ritroviamo. Chiediamo ad un gruppo di alpini di farci un po’ di posto. Un tenente delle salmerie del 6° alpini urla che quelli sono i suoi uomini e che non li sposterà, che dovevamo arrivare prima. “Noi di giorno si combatte per aprirvi la strada”, urliamo, ma non capisce. Ci mancano le forze per continuare a pugni. Torniamo a girare. Il capannone è pieno di fuochi, di gente congelata; non troviamo un metro libero. Passeremo la notte sui bordi del capannone, quasi sulla neve. Accendiamo un fuoco. Il nostro medico ha “zabralato” una scatoletta di carne dallo zaino di kruko, a turno ne afferriamo un boccone. Due ufficiali della Jiulia, che fanno gruppo con noi, ne approfittano con razioni troppo abbondanti e il medico li ferma. Con noi c’è anche il vecchio capitano d’artiglieria, quello che stamani piangeva e che caricammo sulle nostre slitte. Ha le mani molto congelate, alcune dita sono già nere. Poveretto, era in un comando delle retrovie, perché idoneo soltanto ai lavori d’ufficio. Parla poco: la sua voce è stanca, piagnucolosa. Beve, beve molto. Beve acqua nera di fumo e carbonella, senza dissetarsi mai. Mi sdraio. La mia testa è fra le zampe di un mulo, ho l’impressione di sentirmi pestare da un attimo all’altro. Non penso più al mulo; mi addormento. Sogno la colonna; mi sveglio di soprassalto. Nevischia obliquo, sono coperto da un palmo di neve. 23 gennaio Alle 3 sveglia. Adunata della compagnia urlando. Ci si vede appena. Sosta accanto ai semoventi, mentre la 48 svolge servizio d’ordine. Il grosso della colonna, molte decine di migliaia di sbandati, preme per passare. Come sempre i tedeschi sono i più prepotenti. Il tenente Piatti, con il parabellum puntato, trattiene una colonna di kruki. Il generale Martinat si aggrappa alle briglie degli stalloni tedeschi e urla: ”Sono un generale, prima deve passare la nostra divisione”. Si dovrebbe sparare, perché i tedeschi se ne fregano di tutto: gridano forte e passano. Freddo molto intenso e vento. Non ho più i guanti, le mani avvolte in calze strappate sono rigide, congelate. Finalmente si pista anche noi, a passo veloce, in una neve fresca che sfianca. Un’ora di marcia, poi sto male, da non poterne più. Sbando, il dolore al costato mi opprime. Cammino ancora, a forza di volontà, ma sento che le forze se ne vanno, che la vista si annebbia, che sto per svenire. Aspetto una nostra slitta, mi sdraio. Grezzi mi copre con la sua coperta. Le nostre slitte si attardano, anche le bestie, anche i muli ormai sono stanchi. Una salita lunghissima. Non vedo nulla, sono quasi incosciente, ma sento la salita. Sento che si corre. Sento la colonna: voci bestiali, le voci che tornano nel sonno, che mi svegliano di soprassalto. A tratti Ghezzi mi scuote, vuole che cammini perché non congeli. Allora scendo dalla slitta e mi trascino come un sonnambulo. Si arriva in vista di un villaggio. È notte. La compagnia è più avanti, noi e le slitte siamo persi nel groviglio delle colonne. C’è un fosso anticarro. Forse non siamo lontani dal caposaldo tedesco.

 

S.ten. Nuto Revelli (La guerra dei poveri - 7^ Parte)

Un mulino a vento, pieno di gente. Muli che affondano, che si perdono. Molte slitte bloccate, con i muli giù nella neve fino al ventre. È come nelle sabbie mobili, tutta la conca è un centimetro per i muli. Per entrare in paese giriamo al largo, schivando la zona pericolosa: meglio un’ora di marcia che perdere una slitta e venti uomini. Nel buio urlano il numero della nostra compagnia, sono gli ufficiali della 46 che cercano le slitte. Entriamo in un cortile, fra isbe decenti. Noi ufficiali ci riuniamo in una stanza così piccola che ci contiene a stento. Ambiente caldo, familiare, un angolo di pace. Una stufetta, due lettini, molte immagini appese ai muri, due icone, e scialli, coperte, quaderni, giocattoli. Grandi è affranto dalla stanchezza. Parla da solo, dice parole strane, incomprensibili e guarda fisso davanti a sé con gli occhi sbarrati. Muove le braccia, lentamente, come se volesse benedire ogni sua parola. Anch’io mi sento strano, stanchissimo, da far fatica a parlare. Ma trovo ancora la forza di spalmarmi i piedi, di guardarmi le piaghe. Ci sdraiamo. A tratti, le urla di chi sogna ci svegliano. 24 gennaio Alle 4 sveglia, e via di corsa nella tormenta che ci piega in due. Neve perfida e freddo intenso. È come se un cerchio mi chiudesse la testa; mi pare d’impazzire. Due alpini camminano sorretti da un compagno. Sono ciechi, hanno trascorso la notte attorno al fuoco, in un’isba, e gli occhi gli si sono “affumicati”. Succede sovente: soltanto fra qualche ora torneranno a vedere. Chi sorregge questi poveri alpini non può essere che un fratello: nessuno resterebbe indietro per un compagno. Poche ore di marcia e poi mi sento stanco, sfinito, da non poterne più. Mi accoglie la slitta della 109, accanto al comandante della compagnia, l’amico Viale. “Se la fortuna mi assiste- mi dice,- andrò a fare l’avvocato in un paesino tranquillo. Non chiedo altro dopo questa tremenda avventura”. L’importante è uscirne,- rispondo,-anche la mia vita cambierà, non farò più l’ufficiale effettivo, a nessun costo”. Proprio così, non farò più l’ufficiale effettivo. Tutti gridano nella ritirata, molti parlano a se stessi; anch’io mi parlo, mi dico sovente ad alta voce:”Non farò più l’ufficiale effettivo”. Grandi non cammina, si trascina. Gli cedo il posto sulla slitta. La tormenta cresce, perdo terreno, torno a sbandare. Viale è un amico veramente raro, mi aiuta, mi fa stendere sulla slitta, fra i feriti e i congelati, sotto il telone. I piedi gelano, cerco di muovere le dita. Non vedo la colonna, la sento. Urla, urla di chi cammina e pensa a casa e va avanti.chi si perde non urla più; per un po’ implora, poi si stanca: si addormenterà lentamente, è la morte meno dolorosa, il freddo, la fame, la stanchezza aiutano ad addormentarsi, a morire. La nostra slitta è ferma nella tormenta, a due passi dalla katiuscia tedesca in postazione. La katiuscia spara con fragore assordante, i muli non si muovono, tanto sono stanchi. Riprendiamo la marcia. A notte fatta si raggiunge un villaggio, già completamente occupato. Ho perduto la 46, il freddo è tremendo, la tormenta toglie il respiro. Gente che urla, isbe che bruciano, un groviglio di sbandati, di reparti. Urlo, urlo il numero della mia compagnia. Trovo l’attendente di Perego, anche lui congelato, mal ridotto, sbandato. Con Viale muoviamo verso l’interno del villaggio. Ci seguono gli alpini della 109. Freddo, freddo molto intenso, come nella notte degli impazziti. Gli alpini, in coro, urlano che gelano. Niente da fare, non c’è un buco libero. “Arrangiarsi”, grida Viale. E gli alpini urlano e protestano. Torno indietro con Viale e con l’attendente di Perego. Apro un’isba, mi trovo faccia a faccia con un ufficiale tedesco. Un incontro strano. Non parlo, lo guardo soltanto: è un tedesco che non conosce le notti all’addiaccio. Lui parla invece, in italiano, con voce morbida, suadente: è spaventato nel vederci così mal messi, stracciati, decisi a tutto. Dice di essere l’ufficiale di collegamento con la Tridentina, dice che vuol bene agli ufficiali italiani, si scusa perché non c’è posto, perché l’isba è già piena di ufficiali superiori. Torno a girare, a girare nella tormenta. Una mitraglia spara raffiche di traccianti, un’altra mitraglia risponde da lontano. Sono i partigiani che controllano alcuni punti del villaggio. Molte isbe in fiamme: le stufe erano piene di bombe a mano. Non ne posso più. Giro come un autonoma, come un sonnambulo, nel freddo, nella tormenta. Finalmente troviamo l’isba del comando reggimento, piena zeppa. Ci sdraiamo in un angolo. C’è anche il capitano Briolini, con i suoi ufficiali. Strisciando arrivo accanto al fuoco, mi asciugo un po’. Non ho niente da mangiare. Entra don Mario, mal ridotto, affamato. Chiede al capitano G. un pezzo di pane, inutilmente. G. sta facendo sgelare una bottiglia di vino francese, ma non ne offrirà a nessuno. Viale divide con me un pezzo di pane e formaggio. Vuole che don Mario accetti ciò che gli rimane, il fondo di una scatoletta. Mi stendo, per dormire. Urlano; dalla finestra arrivano luci di incendio. Urlano che la nostra isba sta bruciando. Adocchio le due finestre, tenterò d’infilarle. Si impone la calma. Usciamo tutti dall’isba. Nel pavimento c’è un buco, qualcuno finisce dentro. Freddo e tormenta. Sta bruciando un’isba a quattro passi dalla nostra: bombe che esplodono. Per noi non c’è pericolo immediato e rientriamo. Infilo il buco del pavimento, sprofondo fino a metà busto. Mi aiutano. Le dita fratturate e congelate mi dolgono. 25 gennaio Alla sveglia ritrovo la 46, non so come. Riusciamo ad incolonnarci, ad uscire dal villaggio. Superiamo alcuni carri armati russi abbandonati, enormi. Marcia veloce, a tratti quasi si corre. Vento meno forte, ma freddo sempre intenso. Lunga fila di villaggi, in parte abitati. Siamo in una zona ricca, è l’ora della razzia: la colonna si sbanda, i reparti si sciolgono. Soldati fra le isbe, con capre, vacche, miele, formaggio. Anche i nostri alpini tornano carichi. Mangio qualche pezzo di rapa, una manata di cavoli crudi: averne! Poi miele, cera, api, tutto assieme. Grandi dice di sentirsi le api che gli ronzano dentro! Un po’ di sole, che scalda, che rianima. Verso le 13 raggiungiamo Nikitovka. Per la prima volta ci sistemiamo in un’isba discreta. Mangiamo il bottino abbondante degli alpini. Dormiamo, finalmente! 26 gennaio Ore una: scoppi vicini, come di bombe a mano. Si dice che c’è l’allarme: riprendiamo a dormire. Sveglia alle 4. Per la prima volta il battaglione si incolonna con calma. La 46 è abbastanza numerosa; ieri, molti sbandati ci hanno raggiunti a Nikitovka. Arriva un ordine sconcertante:”Sistemare i plotoni a ridosso delle isbe”. È ormai l’alba. Fa freddo, molto freddo. Usciamo dal paese, infiliamo una lunga salita. Il Tirano è solo, tutte le altre colonne sono rimaste a Nikitovka. Andiamo avanti e basta, come in una normale marcia di trasferimento, camminando sulla destra della strada, affiancati per due. A metà salita un colpo di artiglieria in partenza: un sibilo vicino, teso, poi uno scoppio poco avanti e qualcosa salta in aria, un alpino o un pezzo di mulo. Altri colpi, altri regali. Mi volto, guardo alle mia spalle. Slitte abbandonate, muli impazziti, sbandamento generale. È una corsa sfrenata per raggiungere un rado boschetto a cento metri dalla pista. Abbiamo avuto i primi morti, i primi feriti della giornata. Nel bosco torna la calma, i reparti si radunano, si riordinano. Sento che Maccagno grida:”Alpini, avanti, guardate, sono già ferito”. Lo vedo, è agitatissimo. Non è ferito, ha soltanto il cappotto bucato! Con la 46 torniamo sulla pista, allo scoperto. Ci stendiamo sulla neve, sotto le pallottole che fischiano, che si perdono alle nostre spalle. Di fronte abbiamo un ciglio: il terreno è piatto, sale leggermente. Sul ciglio i russi ci attendono al varco. Parte per primo Torelli con il suo plotone. Va avanti, le squadre aperte a ventaglio, impegna combattimento, cade da eroe con tutti i suoi alpini. Non è che l’inizio, l’inizio del massacro. Maccagno urla che vuole i mortai da 81 sulla destra della piana. Non arriveranno mai. Tocca a noi. La 46, in fila, per un tratto avanza, poi si sposta dieci metri a lato della pista e attende. Siamo in pochi, la fila è corta: come sempre, chi non vuol combattere, si confonde con gli altri reparti e diventa uno sbandato. Riprendiamo la marcia. In punta c’è Perego con il suo plotone. Cinque o sei isbe disposte in fila offrono un riparo: le raggiungiamo. C’è una batteria di artiglieria alpina, con i pezzi da 75/13 in postazione. È sulla sinistra, a quattro passi dalle isbe. I pezzi sono puntati con alzo zero, per tiro anticarro. Mancano i serventi, sono morti tutti, attorno ai pezzi. Un artigliere rovesciato in avanti su un pezzo ha la schiena aperta a ventaglio, aperta come quella borraccia che trovai a quota 228, la borraccia di uno dei tanti alpini morti il 1° settembre. Forse è la 33° del gruppo Bergamo. Si dice che fosse in postazione fin dalla notte, per appoggiare il battaglione Val Chiese. E chi ne ha saputo nulla dei combattimenti della notte! Noi si dormiva tranquilli a Nikitovka mentre qui combattevano. Anche stamani, all’alba, nessuno segnalò che nella notte si era combattuto, che la resistenza continuava, qui, ad Aranautovo. Cento morti di più, cento di meno non hanno alcuna importanza: i comandi non contano più i morti, tanti ne abbiamo. Salvare il salvabile. Anche questa teoria no regge più. Nessuno distingue i sacrifici inutili dai necessari. Disordine, disciplina, incoscienza, insubordinazione, diserzione. È il disastro, la fuga pazzesca di una massa senza reparto, senza armi! Sfiliamo dietro le isbe, ci buttiamo sulla destra. Un reparto russo sta movendoci contro; ha quasi raggiunto il ciglio che ci divide,è a cinquanta metri. Sparano i russi, sparano raffiche lunghe con le mitraglie e i parabellum. Con un balzo ci spostiamo decisamente sulla destra, a gruppetti, per raggiungere un leggero avvallamento. La neve è fresca, si affonda fino al ginocchio. E i russi sono lì, a quattro passi, che rafficano, che colpiscono a segno. Sono alle spalle di Perego, guardo avanti, guardo i russi in faccia. Grandi mi segue, con De Minerbi e gli altri. Mi volto, cerco Grandi, lo vedo che s’insacca proprio come su quota 228 si era insaccato Apollonio. L’ hanno colpito all’addome. Grandi, con voce ferma, ma che non è più la sua, grida ancora: “siate coraggiosi”; poi si rovescia in avanti. Guardo i russi: avanzano in schieramento serrato, sono in piedi come se andassero a passeggio. Cantano una cantilena che dà alla testa, e sparano, sparano senza requie. Perego si gira a guardare i suoi uomini, si gira e grida:”Avanti secondo”. Una lunga raffica lo colpisce al fianco sinistro.cade all’indietro sulla schiena crivellata: grida “mamma, mamma, mamma”, con voce strozzata. Cade sulle ferite, trova la forza, l’estrema forza di rovesciarsi in avanti. I nostri parabellum arrugginiti non sparano. Lanciamo una decina di bombe a mano: non scoppiano. I mitragliatori senza olio e per il gelo non sparano. E i russi da dieci metri sparano, ammazzano. Ho per guanti un paio di calze, li butto. Sfilo il rotolo al mio parabellum: le pallottole si presentano storte, le mani mi gelano. Butto il mio parabellum, con due salti sono su Perego. Il parabellum di Perego è infilato nel braccio, di traverso, sotto il petto. Alzo Perego, per sfilare l’arma. Il suo fazzoletto di seta a colori, attorno al colo, è intriso di sangue. Anche il parabellum di Perego non spara. Stanno trascinando Grandi all’indietro. De
Minerbi, De Filippis ed altri combattono ancora sulla destra, a denti stretti. I russi non si vedono più. Arrivano alcune raffiche, ma passano alte. Hanno soltanto ricaricato le armi. Sono tornati sul ciglio, ricominciano a vomitare pallottole. Abbiamo avuto molti morti: la neve alle nostre spalle è nera di macchie ferme, immobili. I nostri feriti sono tornati indietro. Siamo rimasti in pochi. Parlo con De Minerbi. Occorrono uomini e munizioni, oppure ripiegare. Ripiegare vuol dire attraversare una lunga piana, sotto le raffiche, affondando nella neve fino al ginocchio. Corro verso le isbe, a cercare rinforzi, pallottole che mi sfiorano, che mi cercano. Un colpo di mortaio scoppia a tre metri. Arrivo senza fiato; ce l’ ho fatta. Dietro le prime isbe, dozzine di feriti ammucchiati. Le isbe ne sono piene. Anche Grandi è steso sulla neve, nel freddo, ferito a morte; e canta, canta con un filo di voce: vuole che anche gli alpini cantino, che cantino una nostra canzone, quella del capitano ferito. Un coro triste, lento, di voci strozzate dai singhiozzi. Saluto Grandi, corro a cercare altri uomini, magari conducenti, purché vengano in aiuto. Vedo la 49, i pochi superstiti della 49 che ripiegano. Il sottotenente Calvi, ferito da tre pallottole al fianco, è ancora in piedi sotto le raffiche, e agita la pistola e urla al maggiore Maccagno che gli è accanto: “Dio…andate voi avanti, andate voi a vedere, sono tutti morti”. Chiedo uomini a Maccagno. Dice di non averne, di temere l’aggiramento sulla destra. Dalla valletta sono già ripiegati trascinando Perego. Ormai spariamo dalle isbe dei nostri feriti. Apprendo che anche sulla sinistra le perdite sono gravissime, sono morti i migliori ufficiali del Tirano. La CCT, al comando di Alessandria e Talucci, punta decisamente sulla destra, per parare l’aggiramento. Combattono eroicamente. Alessandria ferito. I russi indietreggiano, le raffiche si fanno rade. Un nostro 47/32 e un mortaio da 82, spinti fin oltre il ciglio, sparano sui russi che ripiegano. Darè e Pilis sono avanti, soli, a sparare le ultime fucilate. Arrivano il generale Riverberi ed il colonnello Adami. Ormai che nella piana è tornato il silenzio, la massa di sbandati, le immense colonne, riprendono la fuga. L’eterno gioco: chi è morto non vale più nulla, chi è ferito rischia di essere abbandonato. Scappano gli sbandati, le colonne. Noi restiamo fra i nostri morti, fra i nostri feriti, a piangere. Con De Minerbi, e De Filippis tentiamo di sistemare i feriti su quattro slitte. De Minerbi ha il cappotto sbrindellato dalle raffiche. La confusione si è fatta immensa: gente che urla, che corre avanti. Inutile chiedere ad una slitta di un altro reparto, ad uno sbandato in fuga, di accogliere un nostro ferito: la legge è una sola, pensare a se stessi. Entro nell’isba di Grandi; apprendo che Perego è morto. Grandi è seduto per terra, con la schiena appoggiata al muro: soffre, non spera più. “Sento gia la mia puzza”, mi dice con un filo di voce. Attorno, alpini bucati malamente, che gemono. Cerco un medico per Grandi, per i feriti. Il nostro medico è disperso da più giorni. Trovo un capitano: ha le maniche rimboccate, ha sangue di alpino fino al gomito. Raggiungo l’isba di Perego. Povero caro Peppo. Accanto c’è il suo attendente, inginocchiato, come se pregasse. Mi piego su Perego, lo bacio, scoppio in un pianto disperato. Da tempo volevo piangere così. Torno fuori . Un , ungherese alto , magro , disarmato , mi taglia la strada . Lo afferro , lo giro , lo butto in avanti . Cade a peso morto , a tre passi da me . Vedo il dottor Taini dietro un’isba che amputa il braccio sbrindellato di un alpino con un comune coltello . Gli penzolava giù il braccio e si doveva toglierlo . Un russo sta girando in mezzo a noi , un soldato russo sbandato . Così imbottito nella sua divisa rossa trapuntata sembra grasso , rotondo . C’è altro a cui pensare , e il russo corre indisturbato verso la piana , fuori dalle colonne . Saranno le 12 . Contiamo i feriti : sono molti . I morti resteranno dove sono , nessuno pensa più a loro , sono morti e basta . Carichiamo le slitte . Sono troppi i feriti . Alcuni , stesi nella neve , chiedono inutilmente di essere caricati : i più gravi , i dimenticati , sono arrivati a stento fin sulle porte delle isbe e guardano le colonne che passano . Colonne , colonne immense di sbandati , di disarmati . Passano molte slitte , alcune cariche dei bagagli ufficiali non buttati ; passano le colonne , ma non guardano , non sentono , scappano. Don Virgilio Crosara aveva raccolto sui morti le fedi nuziali , i cappelli alpini , cinturoni , portafogli , per le famiglie dei caduti . Ma gli rubarono lo zainetto , gli stessi avvoltoi che lo avevano preceduto sui morti spogliati . Briolini è morto , Viale è disperso , Alessandria e Grandi sono feriti gravemente . Anche Slataper è morto , anche Soncelli . Slataper era corso in avanti , come si corre ad una festa : anche Soncelli era corso avanti con i piedi in cancrena , per morire con i migliori . Il carico dei nostri feriti è ultimato , sono appesi a grappoli , uno sull’altro . Chi non ha fratture , chi ha soltanto una gamba bucata non è un ferito e deve camminare . Riprendiamo il cammino per raggiungere il grosso delle colonne ormai lontano . Siamo con i ritardatari . Cammino accanto alla slitta dei feriti più gravi . Sotto una coperta Grandi è coricato a gambe piegate per soffrire meno . Uno sbandato ( don Alfredo Battaglino ) , che da tempo camminava al mio fianco , mi chiede se sotto la coperta c’è un ferito grave . Non vorrei rispondergli . Penso per un attimo che voglia chiedermi un posto in slitta . Lo guardo appena . Il suo viso è disfatto , le mani avvolte in stracci , i piedi fasciati , cammina a stento , curvo , quasi trascinandosi . Gli dico che sulla slitta c’è il mio comandante di compagnia , ferito gravemente all’addome . Camminiamo ancora per un lungo tratto , io sempre accanto alla slitta , lui sempre vicino a me . Parla di nuovo , con voce timorosa : chiede se il ferito è credente . E’ una domanda strana , lo guarda sorpreso . Capisce , dice di essere un cappellano della Julia , vorrebbe confessare Grandi . Ci penso su . I miei stati d’animo si confondono . Mi fa pena , poi diffido : penso che speri così di viaggiare un po’ in slitta ; in fine sento per lui quasi riconoscenza . Mi chino , alzo la coperta , chiedo a Grandi se vuole essere confessato , con uno sguardo pieno di bontà , di sofferenza , acconsente . Il cappellano si avvicina , si piega in due per parlare meglio , e cammina , cammina a lungo trascinandosi nella neve con uno sforzo immenso . Non si appoggia , non tocca la slitta . A tratti sbanda , come se dovesse restare indietro , poi si fa forza , si riprende . Si alza in fine , affranto dalla stanchezza . Mi ringrazia . Si perde fra gli sbandati . Quando la nostra colonna si affaccia sulla piana di Nikolaevka è sera . La piana è nera , di gente ammassata , di colonne ferme . Dal grosso villaggio sparano . Arrivano due aerei , ronzano a lungo , così bassi che si vedono le stelle rosse sotto le ali . Dai motori pare che esca un po’ di fumo . Molti credono che gli aerei siano stati colpiti , invece sono le vampe delle mitragliatrici di bordo che rafficano . Urla da ogni parte , urla di chi cerca scampo , di chi non si alza più . Le colonne si sbandano , si disperdono , cercano sfogo lontano dai muli , dalle slitte . Intanto , ai margini del villaggio , la sparatoria si è fatta intensissima . Non si capisce nulla : se sono i nostri che attaccano oppure i russi . All’indietro , sulle nostre colonne , sono cominciati a piovere colpi di mortaio e di artiglieria ; è come se piovessero in un campo di grano . Ogni colpo apre un vuoto , le schegge mietono in cerchio , poi si perdono verso l’alto , lontano . Retrocediamo , in un inverosimile frammischiarsi di reparti , muli , slitte , sbandati . Anche una parte delle colonne che scendevano verso Nikolaevka adesso ripiegano . E’ una folla immensa che ondeggia , che preme : decine di migliaia di uomini disarmati , senza speranza . I russi hanno aperto un fuoco rapidissimo di anticarro , i proiettili traccianti partono da Nikolaevka a traiettoria tesa , urtano nella massa nera , fischiano bassi e finiscono alle nostre spalle . Come sempre , quando tutto sembra perduto , tocca ai maledetti reparti organici andare avanti : tocca ai battaglioni di punta , alla Tridentina . I generali Riverberi e Martinat , il colonnello Adami danno l’esempio , scendono verso Nikolaevka , fra i primi . Martinat cade fra i primissimi , in un ultimo slancio di eroismo . Piatti , il comandante della 48 , combatte da leone e cade . Piatti era l’unico comandante di compagnia uscito incolume ad Arnautovo . Adami porta avanti un gruppo di coraggiosi , combatte strenuamente , finché resta ferito . E’ ormai notte . Sulla massa nera , ferma , che attende l’ultimo colpo di fucile per andare avanti , piovono gli ultimi colpi anticarro . Salta in aria una nostra slitta , il conducente G. è ferito gravemente . Trasbordo dei feriti : restiamo con tre slitte stracariche . Abbiamo perduto il resto del battaglione , l’immensa scia nera delle colonne comincia a scendere verso gli incendi di Nikolaevka . A forza di urlare , d’infiltrarci , d’intersecare colonne e colonne , di respingere gli sbandati , raggiungiamo la ferrovia . Lunga sosta , le slitte non riescono a superare i binari mentre alle spalle le colonne premono . Incontro il maggiore Zaccardo , malato , febbricitante , con i piedi congelati . Zaccardo è disperato . I massacri di questi giorni l’hanno prostrato . Piange . Mi parla dei morti del Tirano , di Briolini , Slataper , Torelli , Nicola , Soncelli . Apprendo che stamani è morto in combattimento l’alpino M . L’avevo abbandonato a Podgornoe , ubriaco . I russi l’avevano fatto prigioniero , per un lungo tratto aveva viaggiato sul loro carro armato , poi era saltato giù . Dopo una fuga avventurosa aveva raggiunto la 46 ad Arnautovo , appena in tempo per morire . Finalmente riuscimmo a superare la ferrovia , entriamo in Nikolaevka . Isbe che bruciano . Fa molto freddo , i feriti gelano , devono essere al più presto sistemati al coperto . Tutte le isbe sono piene . Altra lunga sosta : la strada principale è intasata , le colonne che ci precedono sono ferme . Si dice che dovremo camminare tutta la notte ; ognuno sente che non sarà possibile . Sfila il quartier generale , ridotto a quattro poveretti che non sanno a che santo votarsi . Si procede lentamente , sulla strada lucida di ghiaccio . Si arriva ad un ponte sopraelevato, stretto , dove i muli scivolano , cadono . Riusciamo ad infilarci fra dozzine di slitte ferme , a superare il ponte : raggiungiamo una piazzetta . C’è una chiesa , sulla sinistra , piena di uomini sdraiati , di artiglieri alpini . Ordiniamo di sgombrare , per far posto ai nostri feriti , ma non vogliono saperne , dicono che dovremo parlare con i loro ufficiali . Lunga discussione con il comandante della batteria : niente da fare . E’ un reparto della Tridentina , fra i più provati della giornata , ha molti feriti . A forza di girare troviamo uno stanzone pieno di fumo e di sbandati . Facciamo largo , sistemiamo una parte dei feriti . C’è un gran freddo , accendiamo altri fuochi . Chi grida , chi geme , chi piange , chi ha sete , chi vuol essere disteso . Non possiamo medicare i feriti , manchiamo di tutto : è già tanto se diamo loro un po’ di acqua di neve . Uno sbandato che mi ha chiesto di lasciarlo tra noi , di non buttarlo fuori , mi procura un goccio di tè per Grandi .

 

S.ten. Nuto Revelli (La guerra dei poveri - 8^ Parte)

27 gennaio Ore 2 . Ordine di partire al più presto . Per ritrovare le slitte perdo molto tempo . Anche l’operazione di caricamento è difficile , perché una metà dei feriti si è sistemata soltanto dopo la mezzanotte , in un capannone lontano , che non riusciamo ad individuare. Notizie strane : c’è chi racconta che la metà dei nostri feriti abbia trascorso la notte in un’infermeria russa , con una trentina di russi , anch’essi feriti . Pare che ci sia stata una sparatoria , che l’alpino B. della 46 , sia rimasto gravemente ferito . Grandi continua a chiedermi se le slitte arrivano . Povero caro Grandi , sa che un ferito per noi è di peso . Nel buio , nel freddo , la confusione aumenta . Urlano i feriti , non vogliono che li abbandoniamo : i più gravi , strisciando sulla neve , arrivano fino alle slitte , e si aggrappano , implorano . E’ una legge bestiale : i feriti all’addome , al torace , devono essere abbandonati . Tironi , uno dei migliori della 46 , implora con le lacrime agli occhi , insiste , perché teme che non lo riconosca , che non lo ricordi . Niente da fare . Ci avviamo per una ripida discesa : sostiamo a lungo prima di inserirci nella colonna . Muoviamo faticosamente tra le lunghe file di isbe . I tedeschi della malora dovrebbero marciare sulla destra , noi sulla sinistra . Ma i tedeschi sono prepotenti come sempre : occupano tutta la strada , gridano come belve , da padroni . Ne afferro alcuni per gli stracci , trattengo le loro slitte . Anche gli alpini non scherzano , pestano sodo , senza pietà . Grandi è morto . Raggiungo la sua slitta , lo guardo : è proprio morto . Ha il viso cereo , la bocca leggermente aperta , le gambe un po’ rannicchiate , così come le teneva per soffrire meno . Torno avanti , in testa alla compagnia . Ho bisogno di piangere , sono stanco dentro , da non poterne più , ma mi faccio forza . Urla , bestemmie , implorazioni : è il coro delle colonne che marciano . I reparti si confondono , si sbandano , le slitte si urtano . Due alpini , in coda , afferrano un kruko per il collo , lo stendono a cazzotti . Alla prepotenza dei tedeschi ormai rispondiamo con la prepotenza . E’ dal 18 gennaio che andiamo avanti così : con gli occhi sbarrati , come bestie , e ogni giorno vuole i suoi morti , i suoi feriti , i suoi dispersi , i suoi impazziti . La 46 viene sommersa . Sono chiuso fra varie colonne di slitte ; la mia compagnia è ridotta ad una ventina di uomini . Colonne di slitte tedesche , compatte , si incrociano . Ho con me la solita slitta della 46 , poi perdo anche quella : a tratti la vedo , ma non riesco a raggiungerla . Avanti dev’esserci il Tirano . Accelero , devo raggiungere il battaglione per chiedere che rallentino , che attendano le mie slitte dei feriti . Il terreno è piatto , tutto uguale : piane interminabili , bianche , che si perdono all’orizzonte . Sulla sinistra , lontano , file di uomini armati che guardano le colonne in marcia . Sono russi , guardano , non sparano . La neve è sabbiosa , affondo fino al ginocchio . I piedi sono insensibili , congelati : i malloppi di coperte che li avvolgono sono enormi , duri come il ghiaccio . Piegato in due , le braccia penzoloni , mi trascinano . Mi attacco a un mulo , poi anche così non ce la faccio più . Rallento , mi attacco ad una slitta . Il padrone , uno sbandato italiano , si gira di scatto , bestemmia , mi urla di staccarmi . Mi attacco ancora : quello afferra il moschetto , si alza per colpirmi . Mi scosto , lui mi grida : “ Stavolta siamo tutti uguali , è naja anche per gli ufficiali “ . Non ne posso più . Rallento , ma non mi fermo . Vado avanti non so come . Due aerei russi mitragliano . Solita scena : chi si butta dietro ai muli , alle slitte , chi si sbanda . Sempre e soltanto aerei russi : dal primo giorno di ritirata non abbiamo mai visto un solo aereo italiano . Sparano sulla destra , da poco lontano : sulla pista arrivano raffiche e colpi di mortaio . Feriti . Ho paura : se restassi ferito nessuno mi vedrebbe , sarei un disperso . Adesso sparano con insistenza . La colonna di estrema destra , in gran parte di ungheresi , si sbanda , si butta verso la nostra colonna senza sparare un colpo sui russi . Sfiliamo accanto ad un aliante tedesco , fra i colpi di mortaio che piovono fitti . Ancora feriti , molti . Ritrovo qualche slitta del Tirano : risalgo faticosamente le colonne , ritrovo il battaglione . Un lungo pagliaio ci ripara dalle pallottole che continuano a fischiare . Breve sosta . Parlo con Melazzini . Poi avanti , sulla piana immensa , che non finisce più . La 46 ha serrato sotto . In tutto avrò una trentina di alpini e le tre slitte dei feriti . Arriviamo al termine della piana , svoltiamo a sinistra , si scende . Lungo la scorciatoia che taglia la curva , molti muli affondati fino al ventre , perduti . Confusione tra le colonne . Siamo sempre più mal ridotti . Molti con i piedi fasciati in coperte , quasi tutti con un pezzo di carne di mulo che pende dalle giberne ; numerosi i disarmati . Altra sosta accanto a due o tre isbe . I due aerei russi tornano a picchiare , mitragliano , spezzonano . Morti , feriti , urla , sbandamento , panico . Incontro Taini , disperso fin dal 26 gennaio : del nostro medico nessuna notizia . Scendiamo per un tratto , poi c’è un passaggio stretto , forzato , dove le colonne si ammassano . A stento riusciamo a superarlo . Arrivati a fondo valle superiamo due o tre isbe , poi infiliamo una lunga salita . I muli stentano a salire , dobbiamo spingere le slitte . Un’altra piana , un’altra discesa . Ancora i due aerei che tornano a mitragliarci , a spezzonarci : ancora morti , feriti , e urla , urla bestiali . Il sole è freddo , non riscalda . Un paese in vista : speriamo di poter sostare . Da un’isba sparano sulla colonna : è un partigiano che spara , che fa bersaglio come contro un muro . Superiamo il villaggio . Di fronte abbiamo un altro lungo , ripido pendio con tre colonne che arrancano . Seguiamo la colonna di centro . Si dice che presto raggiungeremo una grande città . Anche la salita ha termine . Ci attende un’altra piana immensa che si perde all’orizzonte . Ancora neve farinosa , che sfianca . Sta venendo buio e le tre colonne si incontrano , si fondono sull’unica pista . Confusione ; si procede a stento . Urlano in piemontese ; è un gruppo del battaglione Ceva . Nel buio , lontano , isbe con finestre illuminate . Speravamo che fosse un villaggio , invece sono isbe isolate , piene di sbandati . Ancora una piana ; poi una discesa . Sul fondo altre isbe con le finestre illuminate . Si fatica molto a scendere ; camminando a metà costa c’è il pericolo che le slitte si rovescino. Sfociamo in un’ennesima piana . Non abbiamo mai avuto una notte così buia ; si va avanti alla cieca , sperando di incontrare da un attimo all’altro un villaggio . Un’altra breve salita , poi un gruppetto di isbe . Mentre un battaglione serra sotto , Melazzini si sposta in avanti per cercare un riparo per i feriti . Fa molto freddo , siamo sui 40 gradi . Non c’è tempo da perdere . La prima isba è piena zeppa di sbandati . Riusciamo a sgombrarla . In una stanzetta , larga tre metri , ammucchiamo i sessanta feriti e congelati . Chi geme , chi piange : molti sono gravi , sono bucati da più parti , hanno i piedi in cancrena che si staccano . Non riesco a muovere , in questo groviglio di disperati : se ne aiuto uno ne urto un altro ; è un coro di maledizioni , preghiere , bestemmie . Chi ha il peso di un compagno sulle proprie ferite , chi è sdraiato sulle proprie ferite . Alcuni chiedono di non rimanere distesi , altri di essere distesi . Gli ufficiali implorano , ma non è possibile aiutarli . E’ già un miracolo che non siamo all’aperto, nella neve. Appare un ufficiale tedesco, alto, con gli occhiali, non più giovane, un capitano. Fa il gentile. Dice che in questo gruppo di isbe si organizzeranno due ospedali, uno tedesco, uno italiano. Lasceremo lì i feriti, qualcuno verrà poi a caricarli!Storie! Anche fra noi c’è chi dice, che senza i feriti si pisterebbe meglio. L’ufficiale tedesco mi afferra per un braccio, mi fa intendere che devo uscire, che devo raggiungere il suo “lazzaret”. In un’isba vicina vedo alcuni tedeschi messi in riga, a gambe larghe, da un angolo all’altro della stanza. Il più vicino, sulla porta, mi mette le mani addosso per non farmi entrare. Interviene il capitano, urla che sono un. . . ufficiale, che posso entrare. Adesso capisco perché sono schierati in riga, questi tedeschi della malora: sono organizzati in tutto, questi porci. Stanno buttando fuori dalle isbe i soldati italiani: se li passano come sacchi, anche i feriti, anche i congelati, proprio tutti sghignazzando. Porci, porci, cani vigliacchi. Torno dai miei feriti. Non so cosa fare. Hanno fame, sete, gemono, gelano. Verso le 23, in un’altra isba di congelati trovo Melazzini. Mi sdraio. Sto male; sono a pezzi. 28 gennaio Alle 2 la 33° batteria parte e ci dà la sveglia. Sono stanco come se non mi fossi riposato affatto. Urlando, cerco le slitte. Fa un freddo terribile. Confusione, gente che grida, che cerca, che perde il reparto. Sulla slitta del caporal maggiore Colturi c’è la salma di Grandi. L’abbiamo portato con noi, per un giorno, morto, fra i suoi alpini feriti. Non riuscivo a separarmi da lui. Sollevo la coperta. Povero Grandi, le gambe sono piegate. Si diventa poco quando si è morti; non si è più niente! Con la coperta che fa barella lo trasportiamo in un campo, a dieci metri dalle isbe. Il cuore mi scoppia, vorrei piangere, gridare. Scavo col piede nella neve farinosa, ma la buca è poco profonda, Grandi sentirà freddo per sempre. Poveri i nostri morti! Lo corpo con la neve. Gli dico addio. Torno alle slitte. Ho sepolto un morto: i feriti, i vivi, aspettano. Dopo un’ora si parte: cammino accanto a Melazzini, in punta al battaglione. Lunga salita: davanti a noi, nessuno, ma la strada è quella giusta, tutto lo dice. Artiglierie abbandonate, molte, le ultime: un’infinità di 75/13, affondati nella neve, con i muli morti. Altri muli fermi, immobili, lo sguardo fisso, che dondolano, che si reggono a stento, che stanno per cadere. Sempre in salita si prende a destra, s’infila un boschetto. Poi si scende. Discesa ripidissima. Sul fondo c’è un torrente. Slitte che si capovolgono, manovre per salvare le slitte dei feriti. Accanto ad un’isba un gruppo di sbandati fa cuocere una grossa fetta di carne. Ho fame, molta fame. Raccolgo una patata, l’addento, ma è dura, gelata, non si lascia mangiare. Non la butto, non si sa mai. Dopo ore ed ore di cammino, in un villaggio, incontriamo il maggiore Maccagno. Non vedevo il mio comandante di battaglione dal 26 gennaio, da Aranutovo! Maccagno dice che poco più avanti c’è miele. Sulla slitta ne ha un secchio pieno. Mangio tanto miele da sentirmi male: prima per fame, poi per golosità, infine per farne scorta. M’infilo in un’isba. Incontro il capitano Bonfatti della 33° batteria e apprendo che la 31° batteria ha subito perdite gravissime: gli ufficiali superstiti non sarebbero che due, Olivelli e Ferrario: degli altri ufficiali, miei amici, non si sa nulla. Riprendiamo il cammino. La pista è buona, quasi una strada normale. Cento metri sulla sinistra, attorno ad un gruppetto di isbe, vediamo due carri armati con cinque o sei tedeschi. È un caposaldo, siamo certi di essere fuori della sacca! Ho mangiato troppo miele: sto male, sudo freddo e vedo doppio. Salgo in slitta. Ai margini di un villaggio, operazione di smistamento. Due ufficiali della Tridentina indicano le isbe assegnate ad ogni reparto. Il 5° alpini prende a destra. Saranno le 13. Siamo proprio fuori della sacca, non ci sono più dubbi. Alloggiamenti buoni, c’è posto per tutti. Nella nostra isba trovano posto nientemeno che i panettieri della Tridentina e l’ufficiale ungherese di collegamento. Ci svestiamo con calma, mettiamo i nostri stracci ad asciugare, organizziamo la cucina, convinti di passare la notte nel villaggio. Alle 15, improvviso, l’ordine di partire. Perdiamo troppo tempo a rivestirci, a ritrovarci. Quando la 46 fa l’adunata il villaggio è ormai deserto. Infiliamo la strada giusta, superiamo pochi sbandati ritardatari. All’orizzonte, nel primo buio, altri sbandati in marcia, a gruppi, in fila. Camminiamo a passo lesto, affiancati per due. Aerei lontani. Neve pessima, sabbiosa. Sulla sinistra spara l’artiglieria; razzi che solcano il cielo. Non è ancora finita! Verso le 19 entriamo in Slobovsk. Isbe in fiamme, sbandati stesi sulla neve, attorno ai fuochi di bivacco. Fortunatamente, all’ingresso del villaggio, fermo nel freddo, c’è il Tirano che aspetta. In un’isba poco lontana sono alloggiati i feriti del battaglione. Facciamo sgombrare un’isba e sistemiamo anche i nostri feriti. Per quelli in gamba, arrangiarsi. Con quattro ufficiali trovo un buco poco lontano: i superstiti del battaglione Val Cismon ci fanno un po’ di posto. Non si mangia, è già una gran cosa poter dormire. 29 gennaio Alle 4, quando il Val Cismon fa la sveglia, cerchiamo il nostro battaglione, inutilmente. Il Tirano è partito alle 3. Corriamo, seguendo le ombre degli sbandati. Superiamo un gruppetto della CCT al comando di Molteni. Lungo la ferrovia, carri armati russi immobilizzati, enormi. Un villaggio. Gente che non perde tempo, che continua la marcia: gente che sosta, che riposa. Tre alpini toscani, malconci e congelati, mi riconoscono. Sono apuani, del battaglione Borgo San Dalmazzo. Della Cuneense sanno poco o nulla. Due caccia russi volano così bassi che le stelle rosse sotto le ali sembrano enormi. Mitragliano. Proseguiamo, nel fondo di una balca. Seguo una scorciatoia e resto solo: nella confusione il nostro gruppetto si è sciolto. Cammino velocemente, benché stanchissimo, affamato. Ritrovo il Tirano. Melazzini chiede di raggiungere la punta del battaglione per farlo sostare. Il battaglione è quasi sciolto, è ridotto a qualche gruppetto di uomini che marciano staccati. A forza di volontà vado avanti e trovo la reggimentale. Non ne posso più, mi sento cadere dalla stanchezza, dalla fame. Ho i piedi fradici: si è scucita una uosa e la neve s’infila da più parti. Riprendo fiato sulla slitta del tenente D’Amato, l’ufficiale di amministrazione del 5° alpini , custode della bandiera del reggimento . Poi , appena comincia una ripida discesa e le slitte faticano , proseguo isolato . Al di là di un piccolo villaggio incontro Bonomi e Frascoli : poi Maccagno e l’amico Del Curto . Mi tolgo le scarpe , le calze . Un attendente sta facendo pulizia alla slitta del comando Tirano : nei rifiuti c’è un paio di calze strappate . Mi tuffo a pesce , le raccolgo . Del Curto si commuove , mi regala un paio di calze di filo : mi regala anche un pezzo di formaggio , che divoro . Dico al maggiore che il Tirano si è quasi sbandato , che è molto indietro . Mi risponde che l’attenderà nel prossimo villaggio , ormai vicinissimo . La slitta del comando fantasma parte . Attendo inutilmente per un’ora che il Tirano arrivi ; trovo il capitano Deotto del 618° ospedale da campo e proseguo con lui , piano piano . Deotto è stanco , sfinito , si appoggia al mio braccio . In una piana , lunga colonna di ungheresi , tutti disarmati . Poi un altro villaggio . Sulla destra della pista c’è un aliante tedesco con rifornimenti . Attorno , kruki con le pistolmachinen spianate . E’ roba tedesca , quella , sparano su chi si avvicina . Due giorni fa , mi pare , ho visto due aerei tedeschi che , per la prima volta , lanciavano colli di rifornimento con il paracadute . Anche un paracadutista , avevano lanciato . Nella confusione delle colonne perdo Deotto e proseguo da solo . Ritrovo Maccagno e Del Curto che stanno cercando un’isba . Tutto è occupato . Arrivano De Minerbi e De Filippis con una slitta dei nostri feriti . C’è anche Magnoli della 109 . Decidiamo di far sgombrare un’isba occupata da qualche tedesco congelato . Fanno i furbi , non vorrebbero uscire . Adottiamo i loro sistemi , li buttiamo fuori di brutto , a pedate . Nell’isba sono rimasti due vecchi e due bambini , rincantucciati accanto alla stufa . Appena ci mettiamo a cercare qualcosa da mangiare piangono forte , in coro . Troviamo due galline . Un ufficiale veterinario se ne guadagna un pezzo pulendole . Nel forno sta cocendo un polentone di grano . Quando il polentone è pronto , il lumino di fortuna , fatto di grasso anticongelante , ci cade dentro . Mangiamo lo stesso : è indispensabile mangiare . Poi ci sdraiamo su un po’ di paglia . 30 gennaio Alla sveglia è giorno fatto . Le colonne sono ormai avanti , sulla pista non incontriamo che pochi sbandati . Non fa freddo , possiamo salire a turno sulle slitte : è la prima volta che ci permettiamo tanto lusso . Verso le 12 arriviamo ad un villaggio , in una zona ricca di pane , galline , miele . Troviamo qualcosa da mangiare . Poi , dopo un’ora di marcia , raggiungiamo i due semoventi in postazione . Smistamento . Poco oltre c’è un paese con le isbe numerate : pare che la tragedia stia per finire . Nell’isba della 46 si sta bene . E’ un sogno sentirsi liberi ! C’è modo di lavarsi , di bere un sorso di latte . Sembra davvero di sognare . Una donnetta , la padrona di casa , mi aggiusta le uose . Suo figlio , un ragazzetto della polizia civile , che sembra più kruko che russo , mi offre due pacchetti di sigarette tedesche . Canta Lilì Marlene credendo di rallegrarci : gli arrivano dietro bestemmie e urla . Mangiamo da cristiani . Riprendiamo il cammino , ma non più maledetti . Siamo sereni , abbiamo la certezza di essere fuori dalla sacca . Incontro con pochi autocarri italiani , giunti da Gomel . E’ incredibile che gli italiani abbiano ancora qualche automezzo ! Carichiamo i feriti più gravi , l’uno sull’altro . C’è anche l’alpino amputato da Taini ad Arnautovo : puzza di pus , ma il gelo lo ha salvato . Sfilano alcuni tedeschi . Uno , in tuta bianca , ha la faccia da “ bambo “ . Lo chiamo , lo invito a cambiare la sua pistolmachinen con un pacchetto di sigarette tedesche . Accetta , ormai l’arma non gli serve più . Come straccioni passiamo davanti al generale Garibodi , curvi , a gruppetti , con le coperte sulla testa . Ci guarda . Sono i resti della sua armata che passano . C’è un villaggio . Sistemazione discreta . Dovremo svolgere un servizio sulla strada , per smistare gli sbandati , i ritardatari della Tridentina . Si tira a sorte , toccherà a me dalle 11 alle 12 . Mangiamo con viveri prelevati dalla sussistenza . Il 1° febbraio altra sosta in un villaggio (Bessarab ? ) Ordine di abbandonare tutti i feriti ed i congelati del reparto : un medico del reggimento dovrebbe caricarli su un treno . Storie ! I feriti che abbandoniamo resteranno inutilmente ad aspettare , diventeranno tanti sbandati , seguiranno poi come potranno . Il mattino del 2 febbraio riprendiamo la marcia verso ovest . Si dice che da un giorno all’altro ci caricheranno in treno . Storie ! Camminiamo sovente lungo la ferrovia , vediamo molti treni , ma caricano soltanto tedeschi : c’è spazio per tutte le loro slitte , i muli , i cavalli , ma per gli italiani niente , anche se feriti , amputati , con i piedi in cancrena ! In giornata raggiungiamo Sebekino . I generali Gariboldi e Riverberi guardano i resti della Tridentina : qualche slitta e una lunga fila di disperati piegati in due , coperti di stracci . C’è un lungo treno fermo , evidentemente non è per noi . La marcia continua . Attraversiamo il villaggio . Ai piedi di una slitta ci sistemiamo in un gruppo di isbe . Mi chiamano al comando reggimento . Con un sergente della CCT dovrò raggiungere il comando della Tridentina come foriere di alloggiamento del Tirano . Nell’isba del comando divisione trovo Grasso , già mio alpino al Borgo San Dalmazzo . Mi offre un sorso di cognac . Arriva il generale Riverberi , in pantofole , con i pantaloni alla cavallerizza , che fanno soffietto . E’ sfinito , parla a stento , dice che di forieri di alloggiamento ne basta uno solo per tutta la Tridentina e che l’ha già scelto . La naja , la naja stupida ricomincia . Dovremo rifarci quattro chilometri a piedi , per tornare agli alloggi del nostro reparto . Chiedo a un capitano di stato maggiore un camion del comando divisione . Niente da fare , anche lui ha risfoderato le arie di rito , respinge sdegnosamente la richiesta . I comandi si stanno riprendendo , gli ufficiali superiori ricominciano a gonfiare il torace , per loro sta tornando la pacchia . Presso le sussistenze gran bordello di gente che preleva più con buoni falsi che con buoni veri . Ieri è morto un ufficiale superiore di un colpo apoplettico : si dice per indigestione di marmellata ! Alzo un braccio per fermare un autocarro . Caso strano si ferma . L’autista mi conosce , è della mia città . Dovrebbe proseguire verso la direzione opposta , ma è gentile , mi carica , ci porta fino agli alloggiamenti . Al sottotenente Gariboldi chiedo perché suo padre non ci fa trasportare in qualche modo . Gariboldi si è comportato bene durante la ritirata , è congelato . Mi risponde : “ Avrei potuto proseguire in macchina , voglio invece seguire la sorte del mio reparto “ . Aggiunge che il comando d’armata ha una sola preoccupazione : quella di farci allontanare il più possibile dalle linee tedesche . Chiedere ai tedeschi di essere caricati è inutile . Il 4 febbraio si ripista verso Belgorod . Marcia lunghissima con vento freddo e neve .

 

S.ten. Nuto Revelli (La guerra dei poveri - 9^ e ultima parte)

Jakovka , 10 febbraio Siamo fermi per la terza volta , per un giorno intero , dopo il disastroso ripiegamento . Siamo a pezzi , malati , più o meno congelati , catarrosi , con diarrea senza fine , con negli occhi le visioni orrende del nostro calvario . Dio Cristo , tu che ci hai seguiti da Belogore a Belgorod , che hai visto quanto abbiamo sofferto , tu che vedi quanto soffriamo , abbi pietà di noi ! Perché vuoi farci soffrire ancora ? Ormai abbiamo dato tutto di noi stessi , i migliori sono morti combattendo , molti li abbiamo abbandonati nel freddo a 40 gradi , per salvare il salvabile . Teoria bestiale , quella di salvare il salvabile : ma a questo è meglio non pensare ancora . E’ necessaria , adesso , una sosta : per stendere i nervi , per guardare ancora una volta alle nostre spalle.Poi , tenteremo di dimenticare per sempre tutto , tutto , tutto , fuorché una cosa : di odiare i tedeschi . Basta con la Russia : poveri alpini , quanti morti ! Quel tragico mattino del 26 gennaio eravate macchie ferme sulla neve gelata dai 40 gradi sotto zero , e non andavate più avanti perché eravate fermi per sempre , morti , punti fermi disposti a scacchiera come in formazione spiegata , una formazione di attacco statica , che all’attacco non poteva più andare . Vi abbandoniamo insepolti . E gli slittini dei porci tedeschi e le colonne in fuga vi martoriarono . Passavano sui vostro corpi bucati , sulle vostre teste , passavano senza pietà , senza capire , senza pensare che eravate morti per aprire la strada a tutti , anche a loro . Poveri morti alpini ! Gli spettatori , ed erano tanti , vedendo quelle macchie nere dicevano che gli alpini non osavano andare avanti : bestemmiavano , gli spettatori , non sapevano che eravate tutti morti . Povero Tirano , quanto sangue , quanti morti , quanti feriti abbandonati e poi morti nel freddo . Dovevamo scappare , tutti scappavano : eravamo una massa enorme imbestialita , non pensavamo che a far presto , che a scappare . Per quasi seicento chilometri ci siamo trascinati nella neve alta fino al ginocchio , sul ghiaccio , nella neve che sembrava sabbia : combattendo , senza dormire , senza mangiare , soffrendo il freddo terribile e tutto il resto . Fin qui siamo arrivati . Adesso ci tocca ancora camminare , non sappiamo fino a quando . Forse fino a Kiev , altri quattrocento chilometri . Chi arriverà ? Siamo già in pochi , i più sono morti o dispersi . Camminare , camminare ancora , camminare sempre . Vedere stazioni , ferrovie , tradotte : vederle soltanto perché quello sono per i tedeschi . Ormai siamo una massa di disarmati , di prigionieri : non serviamo più a nulla , siamo un peso per quei cani dei tedeschi che debbono mantenerci . Anche dei nostri feriti , dei nostri congelati , i tedeschi se ne fregano : li trasciniamo sulle slitte , per non perderli . Io tiro avanti a strappi , sono molto a terra . Le caviglie sono gonfie , grosse come il polpaccio ; le dita delle mani , rotte , congelate , sono insensibili ; diarrea . Non ne posso più . Da quattro giorni sono il foriere di alloggiamento del Tirano : viaggio in camion e il freddo che accumulo compensa la fatica che non faccio . Finirà : ma deve finire presto , deve ! Dio , guardaci ! Perché dobbiamo soffrire tanto ? Maloe Strybnoe , 21 febbraio Partiti il 20 da Romj : marcia di trenta chilometri fino a Banani . Oggi , da Banani a qui , trentadue chilometri . Continuiamo a camminare , tirando avanti a denti stretti : pregando o bestemmiando Dio , così come ognuno se la sente . Ieri e oggi , due giornate faticose : un vento bastardo come ancora non avevamo provato , freddo tagliente , incessante e violento da far sprizzar via l’acqua dalle pozzanghere , da sbattere in faccia , negli occhi , la neve farinosa e ghiacciata . Neve che sembra vetro pestato , gettata negli occhi come coriandoli . Tiro avanti , ma non ne posso più . Il dolore al cuore continua , le due dita peste sentono terribilmente il freddo , la mano destra è molto congelata . Le caviglie sono sempre gonfie , i piedi coperti di piaghe . E siamo i più sani , i più fortunati ! Siamo in pochi : fin da Arnautovo sono il comandante della 46 : ho con me il medico e cinquanta alpini . A Romj abbiamo abbandonato un gruppetto di congelati , che proseguirà in treno . Si era parlato di raggiungere Kiev a piedi . Adesso si parla di Gomel o forse oltre . Dovremo aggiungere al programma altri trecento chilometri . Siamo quasi ai mille e vogliono farceli superare a tutti i costi . Domani ventotto chilometri fino a Perevolcna. Poi , il 23 , fino a Priluki .Dio non ha alcuna pietà di noi . Verkievka , 25 febbraio , ore 15 Siamo qui da ieri sera alle 21,30 , dopo quindici ore di autocarro . Disgelo , strade impossibili con laghi di acqua e di fango . Numerose le soste ; abbiamo percorso forse meno di novanta chilometri . Lungo il villaggio superammo una colonna di scheletri coperti da stracci colorati a mosaico. Curvi , scalzi , carichi di sacchi variopinti . Un’arlecchinata orribile , una macabra sfilata di carnevale , di quelle dei poveri . Era una colonna di ebrei ungheresi , deportati sul Don a scavare trincee per i tedeschi : ora , come noi , marciavano verso ovest , ma senza speranza . Ieri notte a Verkievka cercammo i forieri di alloggiamento del Tirano . Dormivano chissà dove , così , dopo un’ora di attesa , ci sistemammo nelle isbe più vicine . I tedeschi sono proprio bestie : non ammettono la coabitazione , pretendevano che buttassimo fuori dalle isbe la gente del villaggio . Siamo mal ridotti , ma in questa zona siamo i più forti . Ordini dai tedeschi non ne riceviamo . Stamani , sveglia alle 8 . Pulizia : bagno e spidocchiamento . Ho due grosse piaghe ; a forza di grattale le unghie portano via la pelle . I pidocchi son grossi come mezzo grano di caffè mordono e succhiano quel poco sangue buono che mi è rimasto . Persiste il dolore al cuore ; le costole , a premerle , dolgono . A volte , in corrispondenza del polmone sinistro , sento un peso nella schiena . E’ la terza volta che incontro in Russia un ufficiale dell’autocentro , il sottotenente M. Mi portò in linea a Verk – Maksaj . Lo incontrai nel novembre al comando tappa della pastasciutta bianca . Mi portò ieri a Verkievka . I nostri camion sono senza benzina , ne sappiamo quando si potrà averne dell’altra : dipende dai tedeschi . I tedeschi sono i soliti porci . Li ho conosciuti in questi giorni tremendi della fuga : frenetici di salvare la ghirba , capaci di schiacciare con i loro slittini i nostri morti , i morti che avevano aperto la strada anche per loro . Prepotenti , convinti di poterci trattare come gente inferiore , pieni di arie per quei quattro carri armati , i due semoventi e la katiuscia . Se qualche volta hanno sparato non hanno avuto che pochi morti , mentre gli alpini hanno combattuto da fanti ogni giorno contro la fanteria russa , i partigiani , i carri armati e tutto il resto , sacrificando i due terzi di un corpo di armata . “ Ricordare e raccontare “ : così comincia un ordine del giorno dei nostri comandi ! Non è ancora possibile distendere i nervi , guardare alle nostre spalle , rivivere i giorni più tristi della nostra esistenza . E’ troppo triste rivivere quanto di più orribile può dare una guerra : risentire le grida e le preghiere dei feriti abbandonati , degli sfiniti , rivedere i morti travolti e schiacciati dalla massa impazzita che scappa ; rivedere le colonne che attendono l’ultima fucilata della Tridentina per riprendere la fuga . E gli sbandati ungheresi , tedeschi , italiani che fuggono , che buttano le armi : troppo pesante un fucile per chi non vuol combattere , più utile una coperta per le lunghe soste nel freddo , più utile un pezzo di mulo . 26 febbraio E’ passato un mese dal giorno del sacrificio del Tirano . 26 gennaio , Arnautovo ! Nikolaevka ! Troppi morti , anche se “ la guerra senza morti non è guerra “ . Siamo andati avanti così , alla “ garibaldina “ . “ Fare presto , avanti , avanti , alla garibaldina “ , urlavano – e andammo avanti allo scoperto a trovare i morti della notte , andammo avanti alla “ garibaldina “ senza sapere dov’era il nemico , senza sapere se i russi erano dieci o mille : andammo avanti con quelli che volevano combattere , senza i vigliacchi . Alpini , alpini del Tirano falciati dalle armi automatiche , dagli anticarro , dalle artiglierie : con le nostre armi che non sparavano , con le nostre bombe a mano che non scoppiavano . Affondando nella neve fino al ginocchio , gli alpini cadevano e non c’era chi li rimpiazzasse . Le munizioni mancavano e nessuno pensava a fornirne . Quel mattino , dopo tre di combattimento , un branco di kruki maledetti chiese a Maccagno perché gli alpini stavano distesi sulla neve senza balzare avanti , senza incalzare il nemico , senza inseguirlo . Erano morti , alpini morti , caduti a scacchiera , forati da pallottole , straziati da colpi di anticarro e d’artiglieria . “ Alle Kaputt “, rispose Maccagno, ed i tedeschi restarono impassibili. Erano italiani, i morti, tanti nemici di meno per l’avvenire. Sono le 14. Arriva l’ordine di tenerci pronti per partire. 27 febbraio Alle 20,30 ordine di partire . Alle 21 adunata di fronte al comando battaglione . Tira vento , c’è disgelo , nel buio presto si fatica a camminare . Muoviamo verso la stazione ferroviaria . Quaranta minuti di marcia ; troppi per noi che ci trasciniamo . La tradotta ha tre ore di ritardo , chi si stende sulla neve con la coperta sopra , chi cerca un’isba . Trovo una tana , un porcile , già pieno di alpini . Dopo un’ora torno all’aperto . Passeggio finché arriva la tradotta , fino alle 5 . In ogni vagone bestiame cinquanta alpini , poi si parte . 1° marzo Arriviamo a Gomel alle 2 del mattino . Alle 5 lasciamo la tradotta , ci aduniamo all’altezza del piano caricatore . Tira vento e fa freddo , a tratti nevischia . Alle 10 torniamo sulla stessa tradotta e partiamo per Krasniberenskaja . Arrivo alle 13 . La 46 deve raggiungere a piedi Usvatovka . Non fa freddo : disgelo e fango , acqua da ogni parte , i campi sembrano laghi . Alle 15 arriviamo a destinazione : un piccolo villaggio di una cinquantina di isbe , non di più . A sera un po’ di posta . Troppa per la 46 . Cominciamo ad accumulare la posta dei dispersi . Usvatovka , 2 marzo Inizio il lavoro di riordinamento , D’inquadramento : conto i morti , i dispersi della 46 : per il momento l’80 per cento . Giornata di vento e di tormenta. Zaccardo è tornato al comando del Tirano. 4 marzo Oggi, come ieri, il solito lavoro. Tenterò di ricostruire il secondo e il terzo plotone fucilieri. È un lavoro non facile. Ho di fronte i superstiti, dobbiamo rivivere la ritirata ora per ora, ritrovare ogni morto, ogni disperso, ricordare com’era quando l’abbiamo visto l’ultima volta. Con il furiere che scrive, che rifà il ruolino. Purtroppo, del terzo plotone non è presente neanche un graduato! Giornata di sole, ma il freddo è molto intenso. Poco fa ho incontrato una slitta adorna di fiori e campanelle, con su gente allegra, che correva ad uno sposalizio. Un mondo giovane, non nostro, come se la guerra fosse finita! Si dice che lo “starosta” sia un partigiano e la notizia non mi riesce strana. Qui i partigiani non mancano; ad un gruppo di nostri ufficiali sono spariti i parabellum. Di notte pattugliano l’abitato. Non riceviamo la “spesa” da due giorni, e poi i comandi si scandalizzano perché a Slobin i soldati hanno venduto coperte, vestiario, armi, per poter mangiare. Se gli alpini non mancassero dell’indispensabile, non venderebbero le armi, non chiederebbero l’elemosina per togliersi la fame. 5 marzo Partenza da Usvatovka alle 8,15 diretti a Slobin. La popolazione, gente anziana e ragazzetti, assiste divertita e soddisfatta. Siamo pezzenti, in gran parte disarmati: “Italianskij kaputt” ci gridano alle spalle. La strada è acciottolata. Per la prima volta non pestiamo più neve. Freddo, sole e vento. Dopo venticinque chilometri si arriva a Slobin: la marcia ci è parsa lunghissima. Sistemazione discreta in un gruppo di isbe lungo la ferrovia. In stazione è ferma una tradotta, con sopra l’artiglieria alpina, che non parte mai. Dal comando reggimento richiedono con urgenza le perdite della 46, giorno per giorno, per una relazione della ritirata. A sera, la tradotta dell’artiglieria è ancora ferma in stazione. Che triste sorte, la nostra! Il 30 gennaio, appena fuori dalla sacca, i tedeschi delle retrovie si divertivano a fotografarci. Era quasi come se il nostro disastro fosse una loro vittoria e ci segnavano a dito con disprezzo. Poveri italiani, gente che ha combattuto e sofferto, che nel cuore porta ancora la visione dei compagni caduti e che oggi si vede derisa, segnata a dito come si segnano i vinti che buttano le armi. I reparti organici, rimasti tali fino ad oggi , non hanno buttato le armi: le armi arrugginite molte volte non sparavano, il gelo dei 45 gradi le inchiodava. Abbiamo sofferto la fame, la vera fame, e stanchezza e torture di ogni genere. Ma quando c’è stato da combattere si è combattuto. Gli onesti, i generosi, hanno salvato l’onore del soldato italiano. Gli alti comandi continuano a scandalizzarsi perché molti soldati hanno venduto le armi, materiali e corredo. Ma Dio santo, non capiscono che questa gente ha fame? Date loro da mangiare, e soprattutto non rubate sulle già povere razioni, poi vedrete che lo scandalo cesserà: non dovrete più minacciare con le pene di morte! 8 marzo Il comando della 46 si è trasferito in un’altra isba, in un fabbricato di legno che sembra una villetta. La guerra ha toccato quasi tutte le famiglie russe. Sovente, squallide fotografie appese ai muri ricordano i nuclei famigliari ora dispersi. Per i giovani, uomini e donne, non esiste altra scelta: vendersi ai tedeschi o finire in Germania. Anche nella nostra isba c’è una famiglia incompleta: un vecchio con due nipotini. Il vecchio ha un atteggiamento riservato, di distacco, forse ci odia, ma non quanto odia i tedeschi. Una sera che si cantava, i due bambini arrivarono fin sull’uscio della nostra stanza. Ma il nonno venne subito a riprenderseli. Parlai al vecchio, volevo che sentissero le nostre canzoni. Insistemmo tutti assieme e i bambini già speravano che il nonno si convincesse. Dopo un attimo, nella stanza accanto, il vecchio e i due nipotini cantavano per noi Stenka Razin, una canzone russa, quasi uguale ad una nostra canzone alpina! 9 marzo Alle 9 adunata del Tirano e lettura degli ordini del giorno del duce e del comando d’armata. Come sempre, Zaccardo non ha peli sulla lingua: di fronte a tutto il battaglione ricorda le cause della tragedia, della ritirata. Parla da galantuomo, dice chiaro e netto che certi ordini del giorno, con le migliaia di morti, congelati, dispersi, sono inutili. “E’ un insulto per i nostri morti parlare ancora di alleanza con i tedeschi: dopo la ritirata i tedeschi sono nostri nemici, più che nella guerra del ’15. Parole semplici, che commuovono. Zaccardo è un coraggioso, con gli alpini è sempre sincero, da molto tempo voleva parlare così. Giornata di sole, ma fredda. Pare che la tradotta dell’artiglieria alpina sia partita. Si dice che stiano caricando il Morbegno. Ogni compagnia dovrà compilare dei “verbali consistenza materiali”. Presto fatto: qualche fucile, che buffetterie, ventidue coperte da campo. Corre voce che in Italia, dopo il periodo contumaciale, ci manderanno in licenza. Rientreremo, poi, ai relativi centri di mobilitazione. L’ordine del giorno di Gariboldi insiste nel dire: “Ricordare e raccontare”! Del corpo d’armata alpino i superstiti sarebbero venticinquemila. Credo che in Italia non conoscano che una minima parte della nostra tragedia. Oggi altre sigarette; ma le sigarette non si mangiano. Le razioni viveri sono sempre scarse. Se si tiene conto che i signori dei comandi continuano a “ zabralare” abbondantemente sulle razioni truppa, si può facilmente indovinare che razza di . . . Supernutrimento stiamo facendo! Da ieri, per ordine del comando reggimento, una corvée di quindici alpini per compagnia rompe il ghiaccio al passaggio a livello. La corvée di battaglione è comandata da un ufficiale subalterno, quella di reggimento da un capitano. Il tutto, è a sua volta, comandato da un caporale tedesco. Gli alpini, più o meno congelati, lavorano a fianco dei civili ucraini. I tedeschi, belli, grassi, paffuti, guardano e comandano: ci trattano come pezze da piedi, perché siamo gente che pieghiamo la schiena appena alzano la voce. Stanotte bombardamento su Gomel. 10 marzo Alle ore 12 adunata, a sorpresa, di tutto il reggimento, con armi e bagagli, come se si partisse. Scopo: tentare il recupero degli oggetti razziati sulle salme degli ufficiali e dei soldati. Rivista accurata, uomo per uomo, svuotando le tasche, gli zaini, gli involti, ma non salta fuori nulla. Sarebbe opportuno che gli alpini facessero un’analoga rivista nelle cassette d’ordinanza che alcuni ufficiali dei comandi sono riusciti a salvare anche da un disastro come quello della ritirata, e nelle varie casse che stanno collezionando: troverebbero le loro razioni di sigarette, di caffè, di tè, ecc. Dalle 16 alle 17, adunata degli ufficiali della Tridentina per la . . . Cerimonia Manaresi. Il tenente colonnello “pancetta”, infagottato nella divisa da . . . Guerra, fa il suo bravo discorso lascia il tempo che trova. Girano il “Film luce”, fotografie, pubblicità da buon prezzo. È l’inizio di una serie di pagliacciate delle quali saremo spettatori e, involontariamente, attori secondari. Abbracci alla “vecio”, roba da 10° alpini. Il colonnello più anziano presenta la forza al tenente colonnello Manaresi e tutti scattano sull’attenti. Il maggiore Zaccardo, insofferente di questa inversione gerarchica, bofonchia. “Ricordare e raccontare”, le parole d’ordine del duce e, quello che più conta, le mele del duce. Cialtroni! Più nessuno crede alle vostre falsità, ci fate schifo: così la pensano i superstiti dell’immensa tragedia che avete voluto. Le vostre tronfie parole vuote non sono che l’ultimo insulto ai nostri morti. Raccontatela a chi la pensa come voi: chi ha fatto la ritirata non crede più ai gradi e vi dice: “Mai tardi. . . A farvi fuori ! “

 

Tenente Tonino Lupi (49^ Compagnia - Fronte Russo- 1^Parte)

Tenente Tonino Lupi Fronte Russo 49^ cp. Il 21 luglio del 1942 partimmo da Avigliana, diretti in Russia. Ci sistemammo nei vagoni sui quali avremmo dovuto trascorrere un paio di settimane di viaggio: io non avevo avuto nemmeno il tempo di salutare la mia famiglia: la signora Nicola, madre di Lorenzo, ci stette accanto fino all’ultimo. Era buona e queta, la signora Nicola, ed aveva disposto sui vagoni quanto più di “comforts” aveva potuto preparare;avevamo le brandine e il pagliericcio, una gran provvista di viveri, dolci, sigarette, libri, riviste, persino un piccolo grammofono con alcuni dischi! Al momento della partenza, ci abbracciò tutti: verso di me, che non avevo potuto salutare mia madre, fu particolarmente affettuosa! Fu veramente materna! “Animo, figlioli, ritornerete tutti, e presto!” ci diceva! Alle 22,30 la tradotta si mosse: gli alpini, con le gambe penzoloni dai carri, cantavano, sul marciapiede della stazione le figure di quella cara signora, dei marchesi Zurla, di madamin Rosso, di Mariuccia a poco a poco rimpicciolirono: vedemmo svanire nella notte questi ultimi saluti, non vedemmo brillare le ultime lacrime di addio ma le sentimmo inumidirci il cuore! La musica del grammofono inondò di allegria il vagone: il momento che tutti temevamo, il momento più crudele, era passato! Il capitano Briolini ci radunò nel suo compartimento, tappi volarono in aria, dalle bottiglie uscirono fiotti di candida schiuma: “Alla nostra! Alla 49! Mai tardi!”. Brindammo. C’eravamo tutti attorno al nostro “capo”: Toni Zurla, Lorenzo Nicola, Nanni Calvi, Luciano Persel, Gianni Soncelli, Renzo Gilardi, il dr. Camillo Taini ed io. Con noi viaggiava anche il vecchio Ossicino del comando di battaglione. La tradotta filava veloce, sbuffando nell’oscurità della notte. Ventiquattr’ore dopo varcammo il Brennero: salutammo l’estremo lembo della nostra Patria, gli ultimi boschi illuminati dal raggio di luna. Zurla disse: “Prima in Francia, poi in Albania, ora in Russia! Quinto Alpini, tipo esportazione!”. Il treno sferragliò lungo la discesa su Innsbruck, cigolando sulle curve. Rosenheim, München, Augsburg, Nürnberg, Bamberg; lunghe fermate nelle stazioni ed in aperta campagna. Ad Halle una frenatrice tedesca ci venne a chiedere implorando, vino e sigarette. Il Capitano Briolini fu generoso, come sempre; in cambio le chiese di inneggiare agli alpini. “Fifa gli alpini! Puoni e pelli!” gridò quella, istruita da Persel che col tedesco ci sapeva fare, e più ancora con le tedesce! Il 25 luglio entrammo in Polonia, alla sera transitammo nell’immensa stazione di Varsavia. C’erano molti ebrei con la stella gialla e la “J” appuntata sul petto e sulla schiena: povera gente lacera e affamata, che lavorava lungo la linea sotto la sorveglianza di sentinelle tedesche, imperiose e prepotenti. Non appena costoro giravano lo sguardo, quei poveretti afferravano al volo tutto quello che noi offrivamo. Un caporale tedesco, lungo allampanato, inveì con grida gesticolando contro il capitano Briolini che stava distribuendo gallette a delle povere donne; Briolini lo cacciò via in malo modo e continuò imperterrito; l’altro si allontanò con la coda fra le gambe, mentre gli alpini, dai vagoni, gli indirizzavano bordate di fischi. La tradotta procedeva a sbalzi alternando lunghe corse ad interminabili fermate. A Brest Litowsky rinforzammo le sentinelle; con Soncelli viaggiai sulla locomotiva; dietro, qualche vagone vuoto, destinato a saltare in aria se avessimo incontrato delle mine lungo la linea, poi la tradotta degli uomini. La locomotiva sbuffava penetrando in una fitta foresta, le vedette, con le armi pronte, scrutavano attente nell’oscurità della notte, corremmo a lungo in una zona battuta dai partigiani polacchi, ma non succedette niente. All’alba del 28 varcammo il confine russo; poco distante dal cippo, un cimitero di guerra intristiva vieppiù la desolata pianura. Nicola, Ossicino, Calvi ed io trascorrevamo il tempo suonando: avevamo organizzato una specie di orchestrina con ukulele, armonichette e ocarina; quando eravamo stanchi, sfiatati, Toni Zurla attaccava il grammofono e la musica, nella tradotta della 49, non mancava mai! Dai finestrini sfilava sempre lo stesso paesaggio, eguale, piatto, monotono; intristito dalla distruzione: stazioni incendiate, vagoni rovesciati, carri armati distrutti, binari divelti, relitti di ogni genere, contorti e anneriti. A Skoplie-Slobin raggiungemmo la tradotta della 46 e della 48, poi arrivò anche la 109 e rimanemmo fermi tutta la giornata e la notte seguente. Vi erano molte altre tradotte affiancate alle nostre: i treni carichi di munizioni avevano la precedenza, stavano pochi minuti e ripartivano. I soliti poveri ebrei, in mezzo alle rotaie, lavoravano a scopare lo sterco ed era molto con quel via-vai di convogli. Ondate di odore nauseante entravano nei vagoni e fummo costretti a chiudere i finestrini. Per fortuna si mise a piovere; il puzzo ed il caldo si affievolirono. A Gomel sostammo parecchie ore: con Taini e Persel uscimmo a fare un giro per la città: ovunque era distruzione, ovunque miseria, ovunque tristezza. Un temporale scoppiato improvvisamente ci fece ritornare di corsa alla stazione, guazzando nelle pozzanghere della strada piena di buche e dall’acciottolato divelto. Il 31 luglio arrivammo a Charcow: vidi la città aprirsi maestosa, illuminata dagli ultimi raggi del tramonto. Concitato andirivieni di soldati tedeschi, lunghe file di borghesi in attesa di salire su treni già stipati fino all’inverosimile, parecchi erano accovacciati sui tetti dei vagoni! Radio-scarpa sempre premurosa e petulante, ci fece giungere la notizia dell’entrata in guerra della Turchia a fianco delle truppe dell’Asse! Ne aveva sempre di notizie, radio-scarpa e ne distribuiva a piene mani; a Lowosade quando circolò la notizia che saremmo andati nel Caucaso. In fondo in fondo c’era sempre qualcosa di vero, di nuovo, in radio scarpa: il difficile era raddrizzare la notizia che arrivava contorta, saperci vedere dentro! Per questo io ho sempre creduto a radio-scarpa! Attraverso i finestrini rigati dalla pioggia la pianura russa si estendeva attorno a noi, ci circondava con la sua sconfinata immensità; e le case distrutte che incrociavamo davano quasi una vita al paesaggio, una vita ormai spenta, le vestigia di una vita, ed il nostro occhio si posava su quei ruderi quasi in cerca di un punto di riferimento in mezzo a quel mare di erba giallastra. Il 3 agosto arrivammo a Nova Gorlowka; lasciammo i vagoni ed attraversammo la città; strade polverose, dalla profonda carreggiata, interminabili file di mastodontici stabilimenti industriali inattivi, statue in gesso, probabilmente di Lenin e Stalin, decapitate, ed una grande miseria che affiorava ad ogni angolo, ad ogni via, ad ogni piazza. Camminavamo lentamente per la disabitudine al movimento dovuto alla lunga permanenza in treno; sull’aguzzo acciottolato dell’unica via pavimentata i ferri dei muli sprizzavano scintille; gli alpini guardavano con curiosità. Alla voce che i russi avevano minato tutto, era subentrata la psicosi delle mine: qualunque cosa, qualunque oggetto che si incontrava lungo il cammino veniva scavalcato con attenzione, veniva evitato con uno scarto. Grigis girò alla larga attorno ad una scatoletta abbandonata; Offredi sbottò: “Chesta chi l’è de la naja, l’è miga russa!”. E la fece volare con un calcio! Ci accampammo in una vasta zona alberata sul limitare della città; a poco a poco arrivarono le altre compagnie, arrivarono l’Edolo ed il Morbegno, arrivò il 6° Alpini. Ai margini del bosco vi era un campo sportivo; lo sovrastava un’alta torre metallica, una torre di esercitazione per paracadutisti; sulla sommità, a 56 metri da terra, il Morbegno andò a piazzare alcune armi automatiche. Da quella torre si dominava l’intera pianura, si vedevano gli uomini a terra brulicare come tante formiche; salivamo e scendevamo continuamente; di lassù si aveva l’impressione di guardare dall’alto di una montagna! Il 10 agosto festeggiammo l’onomastico di Nicola; facemmo fuori le ultime bottiglie superstiti del viaggio e stemmo allegri anche se l’odore di partenza per il fronte incominciava a farsi sentire più forte che mai! Il 17 agosto partimmo, a piedi, naturalmente. Oltre Rikowo, lungo i bordi della pista nella steppa, incontrammo uno stuolo di mietitrici ukraine, intente al lavoro. Cantavano e ci salutarono. Durante l’alt con Nicola facemmo un concertino con ukulele ed armonica e le ragazze ballarono volentieri con gli alpini che le facevan girare vertiginosamente in mezzo al grano tagliato. Dall’alo di un covone, un vecchio dalla lunga barba bianca guardava divertito: vestiva il caratteristico camiciotto russo e sembrava un personaggio uscito dai libri di Tolstoj! Marciammo nella steppa, sotto il sole cocente, avvolti in nugoli di polvere grassa e nerastra che si appiccicava addosso, polvere delle terre nere dell’Ucraina, fertilissime, inondate di grano; marciammo a lungo su quelle sconfinate pianure: i 30/40 chilometri al giorno che macinavamo erano nulla in confronto alle distese che si perdevano all’orizzonte; grano, girasoli e poi ancora grano e poi ancora girasoli. A Iwanowka tutte le case erano distrutte, sul ciglio della strada si estendeva un grande cimitero di guerra italiano. I caduti del 3° e del 6° Bersaglieri dormivano all’ombra di una grande croce che recava la scritta: I PIU’ VELOCI A TRAMUTARSI IN CROCI. Più avanti attraversammo una grande zona mineraria: le miniere erano in fiamme ed una schiera di tecnici tedeschi stava cercando di spegnerle, per poterle sfruttare. Tra i binari contorti di una ferrovia gli alpini scopersero un teschio; le ossa bianche e pulite spiccavano sulla terra nera, tutti lo guardammo, tutti diventammo tristi, a Nicola che cantava “Erika” morirono le note sulle labbra! A Petropawlowka si mise a piovere; la polvere divenne fango, tenace, vischioso che si attaccava alle suole delle scarpe e rendeva il passo faticoso; un freddo umido ci penetrava nelle ossa, marciavamo ingualdrappati nei teli della tenda, in due giorni percorremmo quasi 70 chilometri sfilando lungo gli interminabili villaggi ukraini fatti di isbe basse e bianche. Circolò insistente una voce: Niente più Caucaso, niente più montagne! Avremmo fatto parte dell’8^ Armata con impiego in pianura! Il 28 di agosto arrivammo a Voroscilowgrad; sfilammo lungo un immenso fossato anticarro irto di punte e ci accampammo all’ingresso della città. Incominciarono ad arrivare brutte notizie, si parlò di cedimento della Sforzesca, di impiego immediato, di partenza autocarrati. Arrivarono infatti gli autocarri, una lunga fila veloce e traballante; in poche ore caricammo l’indispensabile ed al tramonto del 29 partimmo verso la linea, alla volta della grande ansa del Don. Incrociammo le solite ambulanze cariche di feriti: feriti freschi, ancora impolverati, fasciati sommariamente: mi venne alla memoria simile spettacolo del fronte greco-albanese, quando arrivammo a Coritza. Scendemmo dai camions e proseguimmo per Werk-Marksai, freccia da seguire Krusciling. La 46 partì per la linea, subito! Era il destino della 46 quello di dover correre sempre per la prima, all’improvviso, senza nemmeno il tempo di prender fiato. Alle 4 allarme! Ricevemmo l’ordine di star pronti per dar aiuto alla Celere che lo aveva richiesto; un sordo e continuo brontolio del cannone ci accompagnò per tutta la giornata; seduti sugli zaini aspettavamo l’ordine di muoverci; gli alpini erano muti, quasi tristi: l’impiego in pianura era una pillola troppo amara per doverla ingoiare senza batter ciglio: Bonetti continuava a spiegare alla sua squadra il modo di manovrare, raccomandando di coordinare il fuoco col movimento. Era in gamba, Bonetti, e capiva che in pianura la manovra era ancor più necessaria; portava il fucile con quella disinvoltura che solo i cacciatori nati hanno, e lui lo era un cacciatore e coi fiocchi! Lunghe colonne di prigionieri sfilavano davanti a noi, giovani imberbi, uomini fatti, vecchi dai capelli bianchi, mongoli dal viso appiattito e butterato dal vaiolo, cosacchi dagli occhi di fuoco; camminavano con passo stanco, molti ci sorridevano con quel sorriso caratteristico di ogni prigioniero, quel sorriso che non chiede altro che comprensione, che lo senti scendere nel cuore, che ravvicina gli uomini, che fa dimenticare di essere nemici. Altri passavano con lo sguardo assente, immerso nel vuoto: forse pensavano a quello che sarebbe stato di loro. Ci mettemmo in cammino e poco dopo arrivammo ad un laghetto dalle acque limacciose e putride, a ridosso della prima linea. Una serie di ordini e contrordini, infine ci accampammo; durante la notte un intenso bombardamento di artiglierie ci svegliò, poi le cannonate incominciarono ad arrivare poco distanti, scoppiando con fragore. Eravamo pronti ad uscire per un’azione ma ad ogni momento arrivava il contrordine. L’ indomani alcuni ufficiali andarono, col Maggiore Volpatti, ad effettuare una ricognizione del terreno per l’azione che sembrava ormai decretata ed imminente. Alle 15 ci giunse la triste notizia che una salva di artiglieria aveva fatto strage fra loro: caddero il Maggiore Volpatti, il capitano Giaminola; il capitano Brivio, insieme con alcuni ufficiali del battaglione Cervino, fu ferito gravemente: l’unico illeso fu il tenente Vita che ritornò col volto annerito dal fumo delle esplosioni. Con Nicola accogliemmo il caro amico nella nostra tenda; povero Arturo! Era ancora scosso dalla repentina tragedia e profondamente addolorato. Arrivarono i corpi straziati; ci radunammo attorno, il cappellano benedisse le fronti ancora tiepide; muti e commossi presentavamo per l’ultima volta le armi al nostro comandante di Battaglione. Oltre al suo comandante, il Tirano aveva perduto due comandanti di compagnia: non fu perciò possibile impiegarci nell’azione. Partì al nostro posto il 6° alpini; l’indomani ci giunse la notizia che in quell’azione il vecchio Sesto aveva perduto 10 ufficiali ed oltre 400 alpini! Il 1° settembre uscii per la prima volta di pattuglia sulla linea; tutta la notte battemmo la steppa spazzata dai primi venti freddi; sulle nostre teste, nel cielo terso, brillavano un’infinità di stelle. Il vento fischiava tra l’erba alta e secca: camminavamo cauti per non perdere l’orientamento in quella sterminata pianura rotta soltanto da leggeri rilievi e da improvvise balke. Ogni tanto facevo fermare due uomini per avere un punto di riferimento per il ritorno; la stella polare mi poteva fare da guida ma facevo più affidamento sui miei alpini, anche se apparivano un pò smarriti al cospetto di tanta pianura che mai, prima d’allora, avevano veduto. Sul mattino udimmo lunghe scariche di mitraglia a breve distanza, ma non successe nulla; rientrammo infreddoliti ed assonnati. Il 4 settembre arrivò il nuovo comandante di battaglione, il maggiore Gerardo Zaccardo.

 

Tenente Tonino Lupi (49^ Compagnia - Fronte Russo- 2^Parte)

 Ci tenne a rapporto presso il laghetto, col cappello sulle ventitré. Sul suo petto brillava una riga impressionante di nastrini blu: 4 medaglie d’argento, 4 di bronzo, 2 promozioni per merito di guerra! Ci offerse la sua amicizia, con quella spontaneità caratteristica della gente meridionale, ci parlò con franchezza ed affetto. Era un fegataccio, il maggiore Zaccardo, uno di quei fegatacci che rischian la vita di persona, senza costringere gli altri a fare altrettanto. Reduce delle campagne d’Africa e di Spagna, ed in Africa era stato l’autore dell’episodio dei pozzi di Ual-Ual. Raccontava di malavoglia le sue avventure e, quando era costretto per le nostre insistenze, le minimizzava! Era un fegataccio ed un gentiluomo e gli alpini si affezionarono subito a lui e lui agli alpini del Tirano, anche se non riusciva proprio a capire il dialetto lombardo! Sostammo qualche giorno al laghetto, sempre in attesa di prendere in consegna un fronte definitivo. Di giorno facevamo addestramento, strisciando sull’erba in un piccolo spazio, di notte uscivamo a turno in pattuglia verso la linea, oltre il plotone Calvi che aveva costituito un caposaldo su di un leggero rilievo a poche centinaia di metri dal nostro campo. Le artiglierie battevano continuamente la pista di jagodnoje; le cannonate arrivano fitte esplodendo con scoppi laceranti che sollevavano alte nuvole di polvere. Il 20 settembre, afflitto da un forte attacco scabbia, dovetti lasciare la compagnia per recarmi all’ospedaletto per le cure necessarie. Arrivai a Kamenka e subito mi tuffarono in un bagno di zolfo, strofinandomi con la spazzola che mi sembrava d’essere un mulo sotto la striglia; quattro giorni dopo, ancora impregnato di pomata, lasciai l’ospedaletto: avevo premura di rientrare al mio reparto: le retrovie, quando si deve ritornare al fronte sono insopportabili! Pernottai a Gorrbotowsky presso il comando del 2° artiglieria Alpina: qui finalmente qualche faccia amica ed ospitalità sincera. Il capitano Leidi ed il cap. magg. Cereghini mi colmarono di gentilezze. Poi raggiunsi la 49! Tutti mi fecero festa: Toni Zurla mi ospitò nella sua buca, in mezzo al grano, su di un terreno piatto, inondato di spighe. Con picchi e pale avevano lavorato sodo, gli alpini, e si erano sistemati in profondità. Il tempo si era messo al bello, per fortuna, e noi potevamo tirare avanti alla meno peggio. Di giorno stavano accucciati nelle tane protette da tende, di notte pattugliavamo continuamente la zona tra quota 226 e la ferma n° 4. Qualche corpo di mortaio e di anticarro pioveva di quando in quando sulle nostre teste, ma non ci facevamo gran caso: i russi per nostra fortuna, sparavano maledettamente male; su venti colpi, solo uno o due facevano <>; gli altri si perdevano in mezzo al grano, un centinaio di metri alle nostre spalle. Soncelli era sempre irrequieto: voleva continuamente uscire con gli esploratori e si inoltrava troppo arditamente verso le linee russe. Una mattina arrivò fino al pagliaio dove erano appostati i mortai ed a bombe a mano fece piazza pulita. Quando rientrò era l’uomo più beato di questo mondo e voleva ritentare un altro colpo ma il capitano Briolini glielo impedì. Le pattuglie russe si spingevano quasi ogni notte verso le nostre linee ed in particolare fino all’osservatorio dell’artiglieria, presidiato dalla 46. La notte sul 24 settembre si scontrarono con il plotone di Revelli e la sparatoria fu accanita; dalle nostre posizioni, a brevissima distanza, vedevamo la steppa lampeggiare, udivamo il crepitio della armi automatiche, il ritmo a volte incessante delle bombe a mano, che si perdevano nell’immensità della pianura immersa nelle tenebre. La 46 riuscì a stroncare l’attacco nemico, il ten. Revelli rimase ferito e benché con una pallottola nel braccio, riuscì a trasportare il corpo morente del suo il corpo morente del suo fido caporal maggiore Appollonio. La sera seguente i russi aprirono il fuoco coi 105, sulla ferma n. 3, incendiandola. A mezzanotte uscii con la pattuglia. Ci aggirammo tra l’erba secca lungo l’esterno della linea, descrivendo ampi semicerchi in profondità. Camminavamo lenti, in fila indiana, le armi pronte alla mano; giungemmo alla ferma n.3: bruciava ancora, Il fuoco si allargava rapidamente sul grano secco, sospinto dal vento che soffiava in direzione dei russi. Bonetti disse: << Coppet, maligni! >>. Arrivò la pattuglia della 109; sostammo alcuni minuti, acquattati sul terreno; poi invertimmo la marcia. La notte era tornata calma, il silenzio profondo era rotto soltanto dai nostri passi che strisciavano sull’erba; il rumore – appena percettibile – era ingigantito dal silenzio che regnava attorno. Davanti a due pagliai – punto di riferimento per il rientro – descrivemmo ancora il solito ampio semicerchio, in profondità, necessario alla sicurezza della linea. Ad un tratto scorsi nettamente ad una sessantina di metri un gruppo di ombre che procedeva verso di noi. Ci buttammo a terra, aprendoci a ventaglio; vidi che le ombre ci avevano subito imitato. Ero indeciso sul da farsi: non volevo aprire il fuoco per primo, né volevo che il nemico cercasse di aggirarci. Contai le ombre che distinguevo nettamente: erano 18; le feci contare da Bonetti: 18 ne contò; noi eravamo la solita pattuglia di 8 uomini con fucile mitragliatore e parabellum: i russi li avevano tutti i parabellum! Mi rendevo conto della loro stragrande superiorità e rapidità di fuoco e cercavo di fare calcolo mentalmente. Ora che sono comodo, riesco a farlo alla svelta: 18x72 fanno 1296 – contro di noi che eravamo in 2 con parabellum e fanno 144 più un mitragliatore e sono altri 20 e 5 con 91 e fanno 30 con un totale di 194. 1296 contro 194. Ma allora i numeri mi ballavano nel testone e mi prendevano in giro e mi ritornavano come un chiodo fisso e non riuscivo ad imbrigliarli né a scacciarli. Restammo immobili per molti minuti, noi e i russi; nessuno si muoveva, ognuno aspettava che lo facesse l’avversario. Feci retrocedere, strisciando lentamente due uomini per avvertire le nostre vedette. Circa mezz’ora rimanemmo così acquattati, gli occhi fissi, le orecchie tese: incominciò ad albeggiare: vedemmo le ombre ritirarsi strisciando: anche noi strisciammo indietro adagio adagio. Mi veniva da ridere: la fifa – pensavo – è internazionale! Presso le vedette incontrai Calvi con i suoi uomini che stava accorrendo in rinforzo. Poi le prime luci del giorno ci costrinsero a ficcarci nelle nostre tane. Trascorsero un paio di giorni in relativa calma: ogni mattina, all’alba, si presentavano alle nostre linee molti disertori: strisciavano tra l’erba alta, agitando fazzoletti legati alla canna del fucile. Noi gridavamo: << Idite sudà i rucki verk! >> e loro spiccavano l’ultimo balzo con le mani alzate e piombavano tra noi tremanti di paura con quel sorriso ebete che solo un disertore può sfoggiare. Tutti raccontavano la stessa storia: la guerra era lunga, la fame molta, Stalin era cattivo, non ne potevano più, i politrup erano dei tiranni. Dapprima gli alpini li accoglievano con curiosità, poi non ci fecero più caso. Ricuperavano subito i parabellum, toglievano loro i caricatori a cilindro da 72 colpi ciascuno. Erano armi, quelle. Corte, maneggevoli, leggere, semplicissime, dal tiro rapido e relativamente preciso. Altro che i nostri novantuno! Soncelli e Calvi avevano fatto una vera e propria incetta di quei caricatori! Nelle loro tane ne giacevano ammonticchiati a decine: entrandovi urtavano nei caricatori, dormivano coi caricatori per guanciale, scrivevano appoggiati sui caricatori, e l’attendente li faceva incannare gli gettavano la prima cosa che capitava loro tra le mani: un caricatore! Anche il ten. Calvi aveva un bel fegato; una mattina uscì col chiaro e si spinse tanto avanti che appena lo distinguevamo. Briolini disse: << Quello se ne è andato a Mosca >> e stava in pensiero. Poi, senza aver sparato un colpo, ritornò con due prigionieri. Gli domandammo cosa avesse combinato, come aveva fatto. Sono stati più fessi di me!! Si limitò a rispondermi. Calvi era specializzato nell’accendere la << petromax>>; la caricava pompando imperterrito fino quasi a farla scoppiare: la lampada sbuffava e friggeva, lui pompava e rideva: io e Persel ci buttavamo a terra sghignazzando, fingendo di morire di paura; per la verità un pò l’avevamo, da quando avevamo sentito dire che una era esplosa ferendo alcuni ufficiali dell’artiglieria. Ed ogni volta che Calvi maneggiava quell’ordigno, noi infilavamo l’elmetto e ci buttammo a terra come se stessero arrivando dei colpi da 105! Eravamo come dei bambini: per un nonnulla si facevano risate: Nicola, per esempio, era impressionato dal nugolo di cinghie di cui erano ricoperti i soldati tedeschi: cintura, maschera antigas, carta topografica, fucili, zappetta, elmetto, binocolo tutto pencolava attaccato ad ottime e robuste cinghie. E Nicola escogitava ogni sistema per battere i nostri alleati e lo sperimentava su Sala, il suo attendente. E Sala girava ricoperto di cinghie: cinghie attaccate ai fianchi, cinghie attaccate alle spalle, al busto, alle braccia, cinghie penzolanti dalle orecchie; e noi a ridere ed il povero e paziente Sala ne faceva le spese e si rammaricava di non avere il naso abbastanza adunco da poterVi attaccare un’ennesima cinghia! Il 28 settembre ci spostammo sulla vicina quota 226,7, a dare il cambio alla Sforzesca. Era un postaccio, quella quota! Nel saliente della linea, a meno di 200 metri dai russi, si allargava in un dosso, ricoperta di erba alta, come un’enorme scodella rovesciata, nella piana: sui fianchi alle nostre spalle, le bombe d’areoplano avevano due enormi buche;una pista piuttosto larga tagliava la sua sommità, perdendosi diritta, a vista d’occhio, fino a congiungersi all’orizzonte col cielo. Sulla quota non trovammo postazioni, né lavori di sorta. I poveri fanti se ne stavano da settimane sdraiati sull’erba, in piccole buche, raccolti in gruppi. Nella notte demmo loro il cambio:erano felici di sloggiare da quel posto e partendo, ci fecero un sacco d’auguri. Durante il cambio le vedette dettero l’allarme e ci fu la classica sparatoria generale, ma per fortuna era un falso allarme, tuttavia dovemmo faticare non poco a trattenere gli uomini dallo sparare. Comunque ci scappò lo stesso il solito ferito e questa volta, toccò, purtroppo, a Risi, del mio plotone che si vide scoppiare a pochi passi una bomba a mano lanciatagli.... da un fante! Incominciammo subito a lavorare di picco e pala, naturalmente di notte, perché di giorno bisognava star fermi e bassi per non farsi cecchinare dai russi a colpi di anticarro. In due notti, con l’aiuto di due plotoni del Genio Alpino, portammo a termine il lavoro alle postazioni, con camminamenti abbastanza profondi. Lavoravamo tutti come negri e la fatica era grande perché la terra, dopo il primo strato di sabbia grassa e nera, era durissima. Il mio plotone era schierato in cima alla quota, a cavallo del saliente e la postazione di Bonetti sbucava proprio sul limitare della pista. I fanti della Sforzesca avevano detto che quello era il punto da tenere maggiormente d’occhio e che una volta era capitata una carretta russa, recante il rancio in linea, che, perduto l’orientamento, era arrivata fin là. All’ <> delle nostre vedette il conducente aveva piantato carro, cavallo e rancio e se l’era data a gambe. Sulla mia destra era schierato il plotone di Nicola, sulla mia sinistra quello di Calvi. Le giornate andavano raccorciandosi: alle tre e mezza del pomeriggio imbruniva, alle quattro l’oscurità era già fitta e bisognava stare all’erta fino alle sei dell’indomani mattina. Il tempo era bello ma incominciava a far freddo, specie durante la notte. La sera del 30 settembre, verso le 21,30 stavo nella mia tana chiacchierando con il sergente Cozza: avevamo terminato il giro di ispezione e l’avevo invitato ad accucciarsi un momento nel mio buco per fumare una sigaretta in santa pace. Avevamo smesso di parlare, in quel momento, e stavamo tutti e due accovacciati, guardando la cenere delle sigarette che si accorciavano sempre più sotto le nostre incessanti boccate. Ad un tratto udimmo la vedetta gridare il << Chi va là >>. Il tempo di raccogliere la borsa delle bombe a mano e tosto riecheggiò l’ <> seguito da una fucilata. Ci precipitammo fuori mentre la vedetta gridando allarmi ripiegava, sparando, nei camminamenti. In un attimo si scatenò un fuoco d’inferno: le armi automatiche sgranavano raffiche senza interruzione, parecchie bombe a mano caddero nei camminamenti esplodendo e lanciando in aria mille strisce incandescenti. Mi precipitai alla postazione di Bonetti, lanciando a mia volta bombe verso un gruppo di ombre che era ormai a pochi passi dalla quarta squadra: Sambrizze e Villa si alternavano al mitragliatore sotto la guida di Bonetti che li incitava con quella sua voce lenta e acuta; sparavano rabbiosamente, mentre tutto intorno era un susseguirsi di esplosioni e fischi. Lanciammo una bordata di bombe a mano e le ombre si dileguarono urlando. Lungo tutta la linea gli alpini sparavano, appoggiati ai sacchetti, attraverso le feritoie: intervennero i mortai da ambo le parti e le pillole arrivavano a pochi metri, davanti e dietro i camminamenti. Feci di corsa il tratto tenuto dal mio plotone soffermandomi ad ogni postazione: Compagnoni, calmo e impassibile, faceva effettuare dalla sua squadra il fuoco a comando: al suo grido: <> partivano secche le fucilate cui faceva eco il mitragliatore di Bordoni. Nell’angolo di un camminamento incontrai Maini: era ferito alle mani e alle braccia e cercava di fasciarsi col pacchetto di medicazione, ma restava al suo posto, col fucile pronto, coricato sulla terra di riporto della trincea. Il pattuglione russo si andava ritirando, perché i colpi si udivano sempre più distanti; ordinai al sergente Cozza di far cessare il fuoco e ci volle tutta la sua energia per ottenere il risultato. Le schioppettate sono come le ciliege: una tira l’altra e durano finché ci sono munizioni! Ero nella postazione di Bonetti quando arrivò il maggiore Zaccardo: camminava allo scoperto, imperterrito e dritto e sembrava che lui i colpi di anticarro e di mortaio fossero dei tiri a salve! Mi ordinò di far preparare una contro-pattuglia: misi insieme una dozzina di uomini, fra cui molti volontari e feci per uscire. Mi ingiunse di rimanere sulla postazione e prese lui il comando della squadra. Seguito da Cozza, Muffatti e Offredi si avviò decisamente avanti manovrando la “manolux”, con la pistola in pugno: i bagliori della lampada tagliavano la fredda oscurità della notte, perdendosi a poco a poco inghiottiti dall’immensità della steppa. Trascorse mezz’ora: riapparve la luce, riudii il cicalio della “manolux”; la pattuglia rientrò, saltando nei camminamenti; Santinelli, l’attendente del Maggiore, mi salutò: << Sciur tenent, l’è andà ben! MA con quell’om lì, se möri minga stanocc möri duman, ma möri, osti se möri >>!

 

Tenente Tonino Lupi (49^ Compagnia - Fronte Russo- 3^Parte)

Il maggiore si allontanò ordinandomi di far pattugliare la zona fino al mattino: “Certo troverai qualche cosa “ mi disse e scomparve! Uscii poco dopo con una seconda pattuglia; infilammo la pista discendendo dalla quota, verso le linee nemiche: dopo cento passi udimmo dei lamenti lontani, avanzammo ancora battendo l’erba alta spazzata dal vento. Offredi, che aveva voluto uscire anche con me, urtò qualche cosa; lo raccolse: era un fucile a cannocchiale imbrattato di sangue fresco; più in là un elmetto, un tascapane pieno di bombe e due parabellum dalle canne ancora calde. Il lamento ci arrivava sempre agli orecchi, ma non potevamo capire da dove venisse con quel vento che ora lo faceva sembrare vicino, ora lontano. Entrammo nell’erba alta e vi trovammo altro materiale che raccogliemmo, quindi facemmo ritorno alle posizioni. Rientrando, la vedetta un bocia di vent’anni che vedeva russi da tutte le parti per poco non c’impallinò. Sul mattino si presentarono otto disertori: dai gesti capii che avevano fatto parte della formazione che ci aveva attaccato. <>, chiesi ad uno di essi. Aprendo più volte le mani mi fece capire che erano venuti in cinquanta. << Skilt caput? >>. Con gli stessi gesti mi disse che otto erano morti e venti erano stati feriti. Chissà quante balle avrà raccontato! Gli alpini tolsero loro le stelle rosse dai berretti di pelliccia; Gusmeroli mi disse: “La voglio portare alla Maria, per ricordo di questi maligni!”. Li mandai al comando di compagnia accompagnati dal mio attendente. Quando Manzoni rientrò vidi che indossava il cappottone di uno di loro ed in testa aveva anche un berrettone di pelliccia. L’avevo sempre ordinato ai miei uomini di non togliere niente ai prigionieri: chiudevo un occhio solo per il tabacco e le stelle rosse; ora, veder proprio il mio attendente dare il cattivo esempio mi fece irritare ma mi trattenni e decisi di dargli una lezione. Feci finta di niente; lui sapeva di avere la coscienza sporca e mi sbirciava di tanto in tanto; poi a poco a poco si rinfrancò e verso sera si muoveva già disinvolto con tutta quella sua merce addosso. Fu allora che gli ordinai di recapitare un biglietto al tenente Nicola, e quindi ritornare passando dal capitano Briolini, a dare le novità. Stava per mettersi in cammino quando lo richiamai: << Fai attenzione, Manz, che con l’oscurità non ti scambino per un russo e non t’imbottiscano di pallini! >>. Restò di sasso, prima; poi accennò a sfilarsi il cappottone per sostituirlo con la mantellina grigioverde. << No caro: te lo devi godere, il tuo furto! E fai il possibile di non mettere le scarpe al sole >>. Egli partì, avvilito e conciato alla russa; gli alpini sghignazzavano; incominciava a pesargli, quel cappotto, anche se l’aria era fredda. Avevo mandato Offredi, in precedenza, ad avvertire le vedette di Nicola; costoro finsero alla perfezione di scambiarlo per un russo e nella notte udivamo riecheggiare i << Chi va là! Altolà >> e poi la voce di Manz che scongiurava in bergamasco ! Quando ritornò la prima cosa che fece fu quella di ritornare...alpino italiano ed il caffè che mi preparò quella sera fu più forte e più dolce! Però ad esser sincero, non assistei alla preparazione! Arrivò in linea un nuovo ufficiale: il sottotenente Antoni, e fu assegnato al mio plotone, quale vice comandante. Il suo nome, in origine, era Antonoff ed era figlio dei russi emigrati in Italia al tempo della rivoluzione del diciassette; mi disse che era nato e cresciuto in Italia e che si sentiva italianissimo e che aveva chiesto di partire volontario per combattere coloro che avevano distrutto la sua famiglia. Il russo lo parlava alla perfezione e tutte le mattine, quando si presentavano i soliti disertori, procedeva ad un primo interrogatorio con quella sua voce calma e dolce e gli alpini lo stavano a sentire a bocca aperta, come se cantasse. Era un gran bravo figliolo, Antoni! Lo trovavo spesso nei camminamenti, i gomiti appoggiati sulla terra di riporto, intento a contemplare il cielo estatico, sognante; se gli chiedevo a cosa stava pensando mi rispondeva sempre la solita frase: << In fondo dev’essere bello morire in una giornata come questa! >> E io facevo i debiti scongiuri e lui ridiscendeva a terra e si metteva a ridere e mi chiedeva immancabilmente una sigaretta! Trascorremmo un paio di giornate calme, in complesso, salvo le solite fucilate folli durante la notte che mettevano in fermento tutta la linea. Lavoravamo tutti alle postazioni, non uscivamo nemmeno di pattuglia, tanta era la fretta di finire i lavori; di notte solo doppie vedette, avanzate, per sicurezza. Arrivò una squadra di fanti mitraglieri in rinforzo tra il mio plotone e quello di Calvi; bravi ragazzi del varesotto che familiarizzarono subito con gli alpini. Il 6 ottobre caddero parecchi colpi di mortaio sulla quota 226.7; stavo cucendomi i gradi da tenente quando fummo investiti da una salva maledettamente centrata; per fortuna le postazioni eran terminate e ci fu solo qualche ferito leggero: poi la nostra artiglieria replicò ed il concerto diventò assordante. Ce ne stavamo accucciati, in attesa che finissero di sfogarsi; ad un tratto un colpo infilò in pieno un camminamento: udii alte grida levarsi in mezzo ad una colonna di fumo grigio, subito disperso dal vento; con Antoni ci precipitammo e trovammo quattro fanti mitraglieri esanimi al suolo, uno era morto e tre feriti assai gravi; il colpo era esploso in mezzo a loro e ne aveva fatto uno strazio! Arrivarono i portaferiti e caricarono sulle barelle quei miseri resti; nel camminamento sconvolto rimasero due larghe macchie di sangue che la terra dell’Ukraina subito assorbì. La sera del giorno seguente i russi attaccarono la posizione di Calvi; parecchie sventagliate di mitraglia passarono sulle nostre teste; feci sparare le armi di sinistra, battendo zone fisse; Calvi si difese ottimamente e dopo poco tempo respinse il pattuglione che si dileguò nella notte. L’alpino Muffatti, il vecchio contrabbandiere valtellinese, è sempre stato uno dei migliori alpini! L’aria si fece improvvisamente più fredda, grosse nuvole invasero il cielo, incominciò a cadere una pioggia gelata e le trincee in breve divennero un pantano. Il fango vischioso si attaccava agli scarponi ed era una pena camminare; gli alpini se ne stavano quieti, rassegnati, avvolti nei teli tenda, solo qualche bestemmia ogni tanto, così per farsi compagnia ed anche il cappellano che ci veniva a trovare in linea chiudeva occhi e orecchi perché capiva che il cuore non c’entrava in quelle parole e si limitava a tirare le orecchie, sorridendo, ai più...fantasiosi! Tutta una giornata durò quell’acqua gelida, mentre i nostri mortai per tutto il giorno batterono la balketta incessantemente con bombe a grande capacità, imitati dai russi che non perdettero l’occasione di far tiro di controbatteria. Verso mezzanotte si alzò un vento impetuoso che spazzò le nubi; le stelle tornarono a brillare, più fredde e taglienti che mai nel cielo cupo: l’inverno russo era incominciato. L’8 ottobre fu la sagra delle artiglierie! I russi ci tempestavano di colpi con mortai, con anticarro, con 105; ci rintanammo nei ricoveri e quando i nostri pezzi iniziarono a rispondere il morale si risollevò a poco a poco. Il capitano Briolini venne a visitarmi in linea; si accosciò nella mia tana ed alla maniera di Toscanini si a dirigere l’orchestra delle artiglierie! Finimmo per farci delle allegre risate perché a questo mondo ci si abitua a tutto: anche alle cannonate! La mia preoccupazione fissa era la postazione di Bonetti; ogni momento andavo a trovare quei ragazzi che si erano organizzati meravigliosamente e che vigilavano con un’attenzione veramente encomiabile; col binocolo vedevamo le vedette nemiche appostate tra l’erba e sembrava di toccarle; nemmeno duecento metri ci dividevano da esse e le osservavamo continuamente; Bonetti e Villa le sapevano anche distinguere l’una dall’altra e avevano dato ad ognuna un nome. C’era il “testù” e il “maligno” e lo “scett”. Offredi, poi diceva che ve n’era uno che somigliava a Mussolini e naturalmente lo aveva chiamato il “Cerrüti”! Quando calava la notte ci accovacciavamo vicino al mitragliatore, ai piedi della vedetta di trincea, ed a poco a poco gli alpini davano sfogo al loro animo: ricordavano la casa lontana, le avventure con le ragazze del paese, le tremende pistate sui costoni con la bricolla in spalla ed i finanzieri alle calcagna, la caccia al gallo di montagna, ricordavano il caldo delle stalle nelle notti d’inverno, il prelibato sapore della polenta terragna. Saltavan fuori le confidenze più intime, confessate a poco a poco ed il mio pacchetto di sigarette si svuotava rapidamente e fumava anche Gusmeroli Cirillo con la sigaretta ficcata in bocca fino a metà e pompava fumo che sembrava una locomotiva da quando aveva imparato che per fumare bisognava aspirare e non soffiare! Qualche giorno dopo, improvvisamente, arrivarono alcuni ufficiali rumeni, corse voce che avremmo lasciato la linea a loro, che ci saremmo trasferiti più a nord e che saremmo rientrati al corpo d’armata alpino, a fianco della Julia e della Cuneense. Infatti alle prime ore della sera incominciarono ad arrivare i reparti: erano laceri, affamati e stanchi: avevano percorso non so quante centinaia di chilometri a piedi; appena giunsero in linea si sdraiarono nei camminamenti e si addormentarono. L’ufficiale che comandava il reparto destinato a darmi il cambio era un aspirante al quale mi rivolsi, con esito scoraggiantemente negato, prima in francese e poi in inglese; azzardai allora le quattro parole di tedesco che sapevo ma mi accorsi che, nei suoi confronti, potevo essere un professore; tentai quindi lo spagnolo, l’italiano e il genovese: lui si mise a ridere e riuscii a capire solo che.....rideva! Alla fine ci intendemmo perfettamente col latino, molto maccheronico per la verità, ed il Manz, che mi seguiva lungo la linea, durante il passaggio delle consegne, ogni tanto diceva gravemente: “Amen!”. I rumeni ci sostituirono; gli alpini erano contenti di lasciare quel posto e con la velocità del lampo insaccarono le loro robe; rimanemmo in linea fino al mattino il capitano Briolini, Nicola, Calvi, il dr. Taini ed io, con i nostri attendenti. A metà della notte un pattuglione russo fece la solita puntatina; i rumeni si misero a gridare come forsennati, sparando in tutte le direzioni; io avevo più paura di loro che dei russi e feci del mio meglio per organizzare quei poveri ragazzi, in compagnia dell’aspirante il quale aveva in quel frangente una particolare predilezione a starsene accovacciato nell’angolo di una postazione tutto tremante di spavento; per fortuna i russi si ritirarono subito, forse per l’esperienza dell’accoglienza fatta le notti precedenti dagli alpini. Come Dio volle, alle otto il capitano Briolini mi mandò a chiamare e tutti ce la filammo con un respiro di soddisfazione. Dalla buca del comando di compagnia, il capitano Costantinescu ci salutò con effusione ed in un perfetto francese ci inondò di auguri! Raggiunta la 49, ci mettemmo in cammino e poco dopo arrivammo a Duboskaja dove ripresi contatto con acqua e sapone e con il rasoio; una tenda da otto teli mi accolse e, cullato dal ronfare di Zurla, mi addormentai anch’io come un sasso. Nel cuore della notte vennero a svegliarmi: partenza! Per dove? Nessuno sapeva nulla! Marciammo nel buio gelido, ancora mezzi assonnati, camminavamo uno dietro l’altro, come automi: la piana era immensa, tutta eguale; si poteva camminare ad occhi chiusi, si poteva camminare e dormire; spuntò l’alba e il freddo si fece ancora più intenso; a mezzogiorno arrivammo a Werck Liskinski; il Manz arrivò con una gavettona di latte, piena rasa fino all’orlo; bevetti fino a scoppiare. Poi riprendemmo a camminare fino a sera. L’indomani arrivammo a Clinoskj ed il giorno seguente a Kamenka. Un’isba e Vassilj si fecero in quattro per ospitarci offrendoci latte fresco e pannocchie di granoturco; noi ricambiammo con scatolette e sigarette; a sera madre e figli ci dedicarono un concertino con balalaika e fisarmonica. Fuori pioveva, dentro si stava bene al calore dell’enorme stufa, mentre la musica inondava la stanza e scendeva nel cuore fino a farci dimenticare di essere in guerra, in una terra lontana, a migliaia e migliaia di chilometri. Sostammo un giorno a Kamenka, poi riprendemmo a marciare; ogni giorno percorrevamo dai 30 ai 35 chilometri, la notte la trascorrevamo nei villaggi sostando nelle case e nei fienili. A Cashary festeggiammo la “ trattenuta alle armi” di Persel e Soncelli e ci scappò fuori anche una bottiglia di cognac custodita gelosamente da Soncelli. Il 18 ottobre, dopo una marcia di 36 chilometri sotto una pioggia gelata e continua, arrivammo e ci fermammo davanti alla stazione. Parecchi russi infagottati nei loro stracci camminavano frettolosamente lungo le strade ricoperte di pozzanghere; molte case erano distrutte, altrettante erano male in arnese; non la parvenza né la vestigia di un qualsiasi negozio. Solo desolazione e miseria dalle radici profonde e si vedeva che la causa non era soltanto la guerra. Arrivò l’ordine di salire su di un treno: gli alpini erano felici e si sistemarono rumorosamente nei carri al centro dei quali troneggiava una stufa che subito cominciò a fumare come un vulcano! Verso sera partimmo; viaggiamo tutta la notte, ora quasi scivolando sui binari ora procedendo a scossoni che permettevano nemmeno di accendere la sigaretta, talmente erano continui e violenti; l’indomani arrivammo a breve distanza da Rossosk; sbarcammo e procedemmo a piedi per Grieperowka sotto un sottile nevischio che tagliava la faccia. A Grieperowka ci incontrammo con l’Edolo e ci attendammo per trascorrere la notte; una nebbia fitta e fredda avvolse tutto ad un tratto l’accampamento; ma dentro al saccopelo si stava al caldo, i fuochi delle sentinelle brillavano in un chiarore lattiginoso ed era uno spettacolo che dava un senso d’irreale. Il giorno dopo ci sistemammo nelle isbe e nei kolkos in attesa dell’ordine di partenza. Parecchi ungheresi andavano e venivano in quella zona; noi dovevamo sostituirli e ad ogni incontro non mancavano di informarci della nuova linea che, a sentir loro, sembrava buona, corrente su di un costone a picco sul Don. Rimanemmo a Grieperowka cinque giorni e il 31 ottobre partimmo alla volta di Belogorj. Camminammo in silenzio, lentamente; gli alpini erano carichi come muli, un breve alt a Morosowka e nella notte giungemmo alle prime case di Belogorj. La strada di là scendeva dolcemente fino al paese che era adagiato in una piana a poche decine di metri dal fiume. Ci accolse un gran kolkos a mala pena non in vista dal nemico che, senza una gran convinzione, batteva con l’artiglieria la pista che scendeva sul paese. I colpi arrivavano a brevissima distanza dal kolkos, ma l’esperienza degli ungheresi ci aveva insegnato a non dare eccessiva importanza alla cosa.

 

Tenente Tonino Lupi (49^ Compagnia - Fronte Russo- 4^Parte)

Nella notte un aereo russo sgangiò parecchie bombe; dormimmo con un sol occhio. Il primo novembre andammo a riconoscere la nuova linea; gli ungheresi si erano sistemati in capisaldi e ci fecero ottima accoglienza. Gente simpatica, questi ungheresi! Tutti, ufficiali e soldati, portavano grosse medaglie tintinnanti sul petto e sembrava dovessero esser pronti a sfilare in parata. Rimanemmo colpiti dalla loro disciplina ferrea e dall’ordine e dalla pulizia regnanti sovrani anche durante la disagiata vita di trincea. Gli ungheresi partirono ed in linea furono sostituiti dall’Edolo e dalla 46. Iniziammo subito a lavorare ai ricoveri invernali; ai turni, senza mai sospendere il lavoro, maneggiammo picco e pala penetrando sempre più in profondità; gli alpini lavoravano di gran lena, capivano che si trattava di farsi la casa per l’inverno e di farla comoda e robusta. In pochissimi giorni i ricoveri principali vennero approntati, nell’immediato ridosso delle linee. Il 5 novembre tutto il Tirano completò lo schieramento in linea. La 46 era spiegata nella piana, la posizione più critica, noi della 49 ci agganciammo ad essa ed eravamo schierati lungo il costone che si sollevava a picco sul Don; dopo di noi veniva la 48 e quindi il battaglione Edolo; oltre la 46 vi era il 6° Alpini; alle nostre spalle, sul dosso declinante nella piana era il paese di Bolgorj alle cui case abbandonate attingevamo continuamente materiale per i nostri ricoveri. I russi tiravano continuamente su di un gruppo di case rosse, ma con la stessa testardaggine continuavamo imperterriti ad andare a visitare quelle case; travi, vetri, stufe, intelaiature di finestre, erano cose troppo interessanti e necessarie per non andare a prelevare! Dall’alto della linea, dieci metri quasi a picco sul fiume, si dominavano le linee nemiche; la riva opposta era piatta,oltre la riva una boscaglia dalla quale si levavano colonne di fumo; durante la notte grossi fari di automezzi rompevano di quando in quando la fitta oscurità; erano i rifornimenti alle truppe che stavano acquattate lungo la riva del Don. I russi facevano continuamente cecchinaggio e bisognava stare attenti a non prendersi una pallottola o addirittura un colpo di anticarro. Il 4 novembre un capitano dell’artiglieria a cavallo rimase fulminato da un cecchino mentre stava all’osservatorio, a pochi passi dal comando della 49. Ogni tanto si vedeva qualche borghese aggirarsi per Belgorj; forse era povera gente che andava a rintracciare qualcosa di nascosto all’ultimo momento, prima dell’affrettato sgombero, forse erano partigiani che fingevano; l’ordine era di non lasciar passare nessuno, tanto più che ad ogni movimento di persone corrispondeva una scarica di artiglieria da parte dei russi che tiravano tutte le volte che vedevano gente muoversi. Gli ungheresi erano più sbrigativi: fucilavano tutti coloro che venivano sorpresi oltrepassare un cartello di avviso, posto in cima alla salita, nelle vicinanze di un grande kolkos. A me capitò di sorprendere due donne, una vecchietta ed una giovane, le quali tentavano di penetrare in quei depositi sotterranei che i russi usavano avere a fianco dell’isba per porvi le provviste invernali; io non capivo nulla di quello che dicevano, vedevo solo che avevano uno sguardo implorante e che dalle loro gote cadevano lacrime che mi facevano stringere il cuore; quando dissi loro di filare alla svelta mi chiesero “Gnet caput?”. “Gnet caput!” garantii sorridendo ed esse si gettarono ai miei piedi baciando ripetutamente i miei scarponi. Le rialzai; la vecchia mi benedisse solennemente e mi accarezzò sulle guance e io vidi che era sincera. Erano poco lontano quando arrivò una salva di mortai; le due donne si voltarono e la vecchia mi ripeté da lontano la sua benedizione. In serata arrivò una brutta notizia: un pattuglione dell’Edolo, uscito in perlustrazione sulle rive del Don con la prima oscurità, era andato a finire sulle mine lasciandovi quattro morti e parecchi feriti gravi tra cui il tenente Tomasi, vecchio commilitone della scuola di Bassano. La notizia ce la portò il tenente Vita, passato volontariamente dal comando di battaglione a comandare un plotone dalle Quarantasei. Alle brutte notizie si reagisce sempre con delle frasi allegre, anche se si prova un profondo dolore; è uno dei fenomeni che si registrano in guerra, forse è una reazione del sistema nervoso! Al vecchio Dodo il Capitano Briolini disse “Guarda di non fare la stessa fine anche tu, come loro, con quel tuo peso da carro armato!”. E tutti ci ridemmo sopra, compreso Vita che aggiunse una serie di inconfutabili scongiuri. Riprese a piovere e a far freddo, poi la pioggia si trasformò in neve ed a poco a poco il paesaggio incominciò ad imbiancarsi; i ricoveri erano piuttosto accoglienti ma continuavamo a lavorarci come pure alle postazioni che stavano dei veri e propri bunker. Le vedette erano al coperto, le armi pronte ed avvolte nei teli tenda a protezione del freddo, il rancio arrivava caldo, solo le sigarette tardavano e le scorte erano quasi esaurite. Dall’alto delle postazioni dormiva la riva opposta dove i russi stavano acquattati; il pensiero fisso era la porta di Bolgorj dove era schierata la 46; questa però lavorava magnificamente ed aveva organizzato una linea difensiva coi fiocchi! I nostri plotoni fucilieri, rinforzati da mitragliatrici e da cannoni della 109 erano diventati dei veri e propri settori che contavano da 50 a 60 uomini con due e anche tre ufficiali. La rete dei camminamenti prese ad infittirsi, le comodità nei bunker ad aumentare: le brandine, le mensole, i portalampada, persino i vetri alle finestrelle! Attingevamo continuamente alle isbe del villaggio e mai come allora compresi l’importanza di un chiodo, di un’asse, del telaio di una porta. Gli alpini avevano le mani che facevano miracoli! S’ingegnavano con tutti i mezzi a rendere più resistenti e confortevoli i bunker e la vita scorreva attiva e vigile, ritmata dalle scariche delle artiglierie che, ad ore fisse, demolivano a poco a poco le case del villaggio, sollevando qua e là qualche piccolo incendio. Improvvisa giunse la notizia dell’apertura delle licenze per esami universitari; il capitano Briolini, Nicola, il dottor Taini e tutti i colleghi mi esortavano a chiederla, passai dei momenti terribili per l’incertezza tra il desiderio di rivedere la mia famiglia per qualche giorno ed il pensiero di dover lasciare il mio reparto, i miei compagni, i miei alpini, i miei amici! Il mattino seguente il colonnello Adami venne ad ispezionare la linea; stavamo lavorando ai rifugi: s’intrattenne famigliarmente con tutti poi mi annunziò che le licenze erano aperte e che avrebbe fatto partire per primi me e il tenente Zipper. Fu allora che il capitano Briolini e Nicola mi convinsero a decidermi e mi affidarono la prima lunga lista di commissioni da fare durante la mia breve permanenza in Italia. Tre giorni dopo, il 22 novembre, alla una pomeridiana, dopo aver salutato col cuore gonfio di gioia e di commozione i cari amici ed i miei alpini, partivo con la slitta della spesa-viveri alla volta di Serghejewka , prima tappa del viaggio che mi doveva ricondurre a riabbracciare i miei cari. La slitta si mosse cigolando sul pantano gelato; gli alpini del mio plotone aprirono il cerchio e mi salutarono riempiendomi di auguri di buon viaggio e raccomandazioni di buona borghesia! Io salutavo e ridevo, ma provavo un’amarezza profonda che non riuscivo a vincere a nessun costo, nemmeno col pensiero della gioia che avrei procurato ai miei cari quando sarei apparso improvvisamente davanti a loro! Ero ormai distante; gli alpini –dopo un ultimo saluto- furono inghiottiti nuovamente dai camminamenti; la slitta prese a salire; quando fu sull’ampia curva sovrastante il villaggio la prima scarica di katiuscia si abbatté, urlante e fragorosa coi suoi quaranta e più colpi, sul costone ovest di Belgorj, tra la slitta e la linea. Il mulo s’imbizzarrì, ma i conducenti lo tennero a freno; io scesi sulla neve e soffermai un lungo sguardo di saluto alla piana, alla 49, ai vecchi compagni, al Don che scorreva lento e scintillante per i primi ghiacci. Dopo un breve tratto una voce mi chiamò allegramente : “Andiamo presto in Italia, che tanto poi qui ci torneremo!”. Era il tenente Invernizzi del Morbegno, anche lui felice e triste, anche lui diretto a Serghejewka, prima tappa del viaggio di licenza in Italia! La sera calò rapidamente sulla pianura; la slitta scivolava lenta sulla pista gelata, un vento impetuoso mi faceva rabbrividire conficcandomi nel viso, con violenza, grani di neve dura; i conducenti aizzarono i muli: avevano fretta di arrivare a Serghejewka, temevano i partigiani che a sentir loro dire, non erano infrequenti nella zona. Io non ci pensavo nemmeno; ventate di allegria e di nostalgia mi inondavano il cuore, impetuose come la tormenta che spazzava rabbiosa la steppa; il mio sguardo era fisso sugli zoccoli dei muli che si alzavano e si abbassavano ritmicamente, sollevando un pulviscolo che, ai flebili raggi della lanterna, aveva il colore dell’oro; il mio pensiero volava ora a mia madre, ora alla postazione di Bonetti, ora al baracchino del capitano Briolini! A Serghejewka trovai Zurla e Glardi; il Toni, colpito da alti febbri intestinali, stava trascorrendo qualche giorno di riposo coi conducenti; apprese con sincera gioia la notizia della mia licenza e mi ospitò nella sua isba offrendomi da mangiare ed un giaciglio. Non potevo desiderare di meglio che trascorrere la notte col vecchio, fraterno amico; accoccolati vicino alla stufa parlammo degli amici, dell’Italia, della guerra, della linea finché il sonno non ci appesantì le palpebre. Nel cuore della notte fummo vegliati di soprassalto da un allarme contro i partigiani: ci radunammo nel kolkos-muli e pattugliammo il paese senza trovare nessuna traccia. Sulla piazza del paese vi era una forca e da questa penzolava un povero uomo; il suo corpo oscillava al vento, la sua lingua ghiacciata usciva smisuratamente lunga dalla gola, stretta dal nodo scorsoio, una sentinella tedesca incrociava nei dintorni impedendo a tutti di avvicinarsi. Non gli badai e mi appressai a quel povero corpo senza vita; il tedesco gridò qualcosa, io feci l’atto di estrarre la pistola dalla fondina, quando si accorse che ero un ufficiale divenne più gentile. Gli chiesi che cosa aveva fatto quel povero uomo; mi indicò un cartello inchiodato sul palo della forca. Lessi: “Ich war ein partisan! „ Io ero un partigiano! Zurla mi spiegò che qualche giorno prima un reparto tedesco aveva reclutato l’intera popolazione di Serghejewka composta di donne e di vecchi per certi lavori di scavo; quel poveretto che penzolava, dopo aver lavorato di picco e pala per mezza giornata, si era sentito male ed aveva abbandonato il lavoro. Ed i tedeschi lo avevano subito considerato un sabotatore ed avevano provveduto ad applicare la legge marziale! E l’ordine del comando tedesco era di lasciar penzolare quel corpo per cinque giorni, perché servisse da monito e non capiva che era si un monito, ma di vendetta per siffatta crudeltà. Un alpino passando boffonchiò : “Pietà l’è morta!”. L’indomani-abbracciato il vecchio e caro Toni- partii per Kulescowka; faceva freddo, molto freddo, ma il motore del camion a poco a poco riscaldò la cabina: dai vetri appannati guardavo il solito paesaggio uniforme della steppa, rotto soltanto da qualche rara isba sulla porta della quale un volto di donna incorniciato da un bianco fazzolettone sorrideva salutando con gesto lungo e misurato. A Kulescowka - sede delle nostre salmerie e delle furerie del comando di reggimento - trovai il tenente Melli, il mio buon amico, che mi invitò a cena nella sua isba e divise con me il suo giaciglio. Il giorno seguente, al comando di reggimento, dopo aver ritirato i miei bravi documenti di licenza, mi unii alla “schiera degli eletti”; eravamo in sei: i tenenti Invernizzi e Balzaretti del Morbegno, Massarani e Fanetti dell’Edolo, Migliavacca della reggimentale ed io del battaglion Tirano. Su di un’autocarretta partimmo per Rossosch dove scendemmo per aspettare il treno tedesco diretto a Millerowo. Alla mensa del comando tappa di Rossosch ebbi la fortunata combinazione di incontrare Delio Bonanni e Franco Massobrio, amici di vecchia data, con i quali trascorsi qualche ora, accettando di buon grado incarichi e commissioni. Alle 22 arrivò la tradotta tedesca; salimmo sui vagoni già stipati e viaggiammo tutta la notte in un clima gelido che ci costrinse a battere continuamente i piedi per scaldarci. A Millerowo infine il nostro treno! Dopo una lunga attesa, finalmente si mosse, procedette prima lentamente, per un buon tratto, sbuffando e cigolando, poi accellerò, solcando la pianura nevosa battuta dal vento. Karkow, Kiev, Leopoli; a Budapest ci fermammo l’intera notte e ne approfittammo per visitare a volo la città avvolta in un raggio di luna; il Danubio scorreva lento sotto il gran ponte di ferro; gli ungheresi - al veder ufficiali italiani - salutavano e sorridevano con simpatia. Poi il Balaton, Lubiana e alla fine, al settimo giorno di viaggio, la frontiera italiana e poi Udine con il suo castello ed il festoso saluto della gente friulana. Scendemmo dalla tradotta e ci avviammo al campo contumaciale; vedere i tram, i negozi, i bar era una festa; con Massarani saltammo su di una giostra e girammo a lungo, dondolandoci sul cavallo di legno, fino alle ore piccole! Dopo la quarantena, partimmo verso le nostre case con l’appuntamento per il 3 gennaio per il viaggio di rientro al reparto. Il 3 gennaio ci trovammo; nell’atrio dell’albergo Italia m’incontrai con Massarani, Zipper e Staffieri. Al comando tappa di Udine ci dissero che avremmo dovuto attendere qualche giorno: ne trascorsero otto. Tutte le mattine ci presentavamo, una volta ci fecero vedere persino i vagoni, poi ci rimandarono all’albergo. A poco a poco s’insinuò la terribile notizia della ritirata! Quando la radio la confermò, Zipper mi guardò a lungo, muto, attraverso gli occhiali appannati dalla commozione; io provai una fitta al cuore, un dolore fisico: nel mio pensiero non vi era altro che la 49, il battaglione Tirano, il capitano Briolini, Nicola, Zurla, Taini, Soncelli, Antoni, Vita, De Minerbi, i miei alpini. Il comando tappa annunziò che nessuna tradotta sarebbe più partita, che i resti delle nostre truppe sarebbero rientrati appena possibile. Ricevemmo l’ordine di recarci a passo Rolle e di aggregarci al battaglione complementi del Quinto alpini destinato in Slovenia. Arrivammo a Rolle e partimmo per il fronte antiribelle. Solo dopo pochi giorni appresi che della 49 erano rientrati soltanto Toni Zurla e Taini e Calvi, ferito con pochi uomini. Tutti gli altri ufficiali con la maggior parte degli alpini erano caduti combattendo! Il ricordo della grande sofferenza morale di quei giorni m’intristisce ancor oggi, con la stessa intensità! Trascorrevo lunghe ore in silenzio, riandando col cuore con la mente agli amici caduti, al caro indimenticabile capitano Briolini, al fraterno amico Nicola, all’esuberante e coraggioso Soncelli, al mite e fiero Antoni, a Gilardi, a Offredi, a Schena, a tutti gli alpini rimasti nella sconfinata steppa; provavo violenta la vergogna di essermi allontanato da loro, mi facevo la colpa di aver accettato quella licenza e piansi....piansi e maledissi la guerra che ti fa trovare un amico e te lo toglie con crudeltà spaventosa!

 

Tenente Tonino Lupi (49^ Compagnia - Fronte Sloveno- 1^Parte)

Nevicava A Ziano quando mi presentai alla 628 del battaglione complementi del Quinto alpini; la neve sfarfallava lenta mentre nell’alta valle scendevano le ultime luci del crepuscolo. Eravamo saliti col trenino fino a Ziano; avevamo viaggiato in silenzio, nel vagone, Zipper, Massarani, Staffieri, Tricceri ed io: i nostri pensieri erano rivolti al battaglione che avevamo perduto, agli amici fraterni che non erano più, agli alpini dei nostri plotoni. Nessuno di noi aveva potuto immaginare una conclusione così tragica, eravamo partiti dal Don con la certezza di ritornarvi, nostro bunker! Non sapevamo rassegnarci alla triste realtà dei fatti; viaggiavamo in silenzio, nel trenino sbuffante della Val di Fiemme; i canti del gruppo di giovani sciatori ci davano fastidio, ci davano maledettamente fastidio persino i sorrisi di due belle figliole impantalonate: troppo acuto era il nostro dolore, troppo profonda la nostra tristezza, troppo vicino il ricordo! Il trenino si arrampicò fino a Ziano, stridendo nelle curve fra la neve e ci sembrava di vedere la neve di Belgorje! Io e Staffieri ci presentammo al capitano Corti: egli capì quello che stavamo provando e fu di una cortesia sincera e commovente. Trascorsero alcuni giorni pieni del ricordo dei cari amici scomparsi, pieni del desiderio di poter almeno riabbracciare i superstiti! Un giorno il capitano mi diede la notizia che i resti del reggimento sarebbero passati alla stazione di Ora; con Staffieri ci precipitammo a valle e facemmo appena in tempo a vedere gli unici due carri della 46; il rimanente del battaglione era passato sulla tradotta precedente, pochi minuti prima! Da un sottufficiale ebbi la triste conferma dell’eroica morte del capitano Briolini, di Nicola, di Soncelli, di Antoni, Gilardi, Perego, Slataper, Grandi e di molti altri carissimi amici ed alpini; l’unica consolazione, in tanta tristezza, che Toni Zurla era vivo e con lui Vita e Taini, e Calvi, sebbene ferito all’addome. Quando rientrammo, il capitano Corti ci strinse paternamente la mano e nel suo vocione squillante c’era una nota di profonda commozione. Trascorse del tempo: a poco a poco mi uniformai alla nuova vita, ai nuovi colleghi, ai nuovi alpini: tutta roba giovane ad eccezione di qualche vecchia conoscenza ripesata dalla naja alla fine della licenza di convalescenza. Da Ziano salimmo il Passo Rolle e con gli sci battemmo la zona: il capitano zompava avanti instancabile, pieno di entusiasmo, incoraggiando le giovani reclute con urlacci che facevan staccar slavine, ma i suoi modi, apparentemente burberi, nascondevano un cuore paterno, nobile e generoso, e tutti gli alpini gli volevano bene e lo chiamavano “Papà Giacum”. A Rolle sostammo un paio di settimane, poi, all’improvviso, come sempre accade, arrivò l’ordine di traferimento per il fronte antiribelle. Lasciammo la Val di Fiemme ammantata di bianco ed una sera di fine febbraio sbarcammo a S.Lucia di Tolmino. Da Santa Lucia sù per la Valle dell’Idria fino al Bivio Zelin e quindi, dopo una lunga marcia, arrivammo a Circhina, nostra nuova residenza per le operazioni di polizia cui eravamo stati destinati. Circhina era un paesetto, di una certa importanza, con la sua piccola chiesa silenziosa ed austera ed un alberghetto infiorato. Ci sistemammo nelle casermette, al limitare dell’abitato. I pochi fanti della GAF ci narrarono sui ribelli fatti poco allegri. Dopo pochi giorni ricevetti l’incarico di scortare con un piccolo plotone una pattuglia di carabinieri addetta alla precettazione militare. Naturalmente ben poche reclute si erano presentate alla chiamata e bisognava andarle a rintracciare nelle loro baite e condurle, se necessario con la forza, a Circhina per l’inoltro al distretto. Partimmo con le prime luci dell’alba e ci arrampicammo lentamente lungo i ripidi sentieri fiancheggianti il Monte Porsena. Dopo qualche ora di cammino, incontrammo la prima baita: fuggiti. Il brigadiere dei carabinieri procedette impassibile alla lettura della notifica: occhi ostili eran fissi su di noi e provai un vero dolore nel constatare l’anti-italianità di questa gente. Non mi sembrava possibile che erano i nostri confini e potessero vivere persone che avevano in odio la nostra bandiera, il nostro esercito, gli stessi nostri alpini! Chiesi dell’acqua ad una donna: uscì all’aperto, sul terrazzo chiazzato di neve; quando rientrò con un pesante secchio un alpino fece per aiutarla: gli rispose con malgarbo biascicando parole slave. Intervenni facendole osservare che il soldato era stato gentile e che doveva essere apprezzato e rispettato, costei lanciò un’occhiata carica di odio e fu un pò più cortese perché capì che non stavo certo a scherzare! Riprendemmo il nostro cammino. Alla seconda e terza baita nessuna traccia di uomini: avevano preferito arruolarsi nelle bande di ribelli. Al quarto casolare un giovane ci venne incontro sorridente: ascoltò il carabiniere, sempre sorridendo si infilò la giacca, pronto a seguirci. Eravamo molto distante da Circhina e marciavamo con gli occhi bene aperti; entrammo in un fitto bosco: i carabinieri eran nervosi e dicevano che in quel bosco, mesi addietro, un reparto della GAF era caduto in una imboscata. Scivolammo silenziosi sulla neve dura, aperti a ventaglio; ad un tratto una fucilata riecheggiò a distanza: una pallottola sibilò tra gli alberi spaccando i rami secchi. Poi più nulla. Finalmente il bosco cominciò a diradarsi e sboccammo su di un costone sovrastante a picco la valle già avvolta dalle prime ombre della sera. Giungemmo alle casermette che era notte fonda, il giovanetto che avevamo reclutato mi salutò, il suo sorriso nella fioca luce del corpo di guardia mi colpì per la sua dolcezza: gli battei una mano sulla spalla e gli augurai buona fortuna; lo seguii con lo sguardo mentre si dileguava nel buio accompagnato dai carabinieri.La guerra contro i partigiani è una strana guerra: è fatta di comodità finché queste durano, poi, improvvisamente un allarme costringe a prendere la montagna ed a batterla quant’è vasta, alla ricerca di un nemico che non veste divisa, che aspetta paziente e feroce all’agguato, che si tramuta in pastore, in contadino, in donna. Nelle casermette ci eravamo sistemati per bene, compatibilmente col fatto che eravamo in zona di operazioni, naturalmente. Ma essere al coperto, mangiar rancio caldo due volte al giorno, lavarsi in lungo e in largo erano già cose che facevano venire il capogiro a chi le raffrontava alle vite dell’Albania e della Russia. Un giorno arrivò Martinelli, il vecchio esploratore, che una cattiva febbre reumatica aveva gettato in un ospedale al tempo del rientro dalla Grecia. Licenziai immediatamente l’imbranatissima recluta che con molta buona volontà e molti danni mi faceva da attendente e assunsi lui. Mi seguì fedelmente ovunque, sempre pronto, sempre premuroso, sempre allegro, con il suo passo dinoccolato di “mangiamontagne”, coraggioso e deciso, da buon vecchio contrabbandiere della Valdidentro! Quando più torbida era la << naja >> sempre invocava il suo paesello: << Pedenoss, Pedenoss! Sta sicür che te porti indré i me oss!>>. *** Battevamo continuamente la montagna. Per un po’ i ribelli non si fecero vedere: dopo qualche azione sporadica con poche fucilate, costoro avevano capito che con gli alpini c’era poco da fare e si tenevano alla larga. Una mattina, la mattina del sabato santo, uscimmo per un breve rastrellamento: nel buio precedente l’alba sfilammo silenziosi lungo il ponticello di legno delle casermette; il campanile della chiesa di Goriani batté i soliti rintocchi di segnale; non riuscimmo mai a scoprire l’autore di quei rintocchi ed avevamo finito col rassegnarci e farci l’abitudine. A poco a poco l’alba sbiancò il cielo e sbocciò una giornata meravigliosa : su di un costone erboso il capitano ordinò di dividerci; io proseguii per costa con Villani e Staffieri ed i loro plotoni; il resto si diresse a valle attraversando una macchia. Ad un tratto udimmo un improvviso, intenso scrosciar di mitraglia, poi un gruppo di ribelli passò sul costone opposto, inseguito dagli alpini. Assistemmo impotenti alla scena: i ribelli correvano, cadevano, si rialzavano braccati dagli alpini. Non potevano fare fuoco per timore di colpire, data la distanza, i nostri. Le raffiche si susseguivano alle raffiche e gli scoppi delle bombe a mano rintronavano nella piccola valle fasciata di verde. Vedemmo i ribelli screstare ed infilarsi in un bosco di abeti; i nostri si arrestarono, il capitano fece lanciare gli squilli di adunata; ci riunimmo in breve tempo. Rientrò il tenente Re che comandava gli inseguitori; era trafelato ed insisteva per continuare l’inseguimento. Ci riordinammo, nessun mancante, nessun ferito, solo pochi graffi a qualcuno. Riprendemmo la marcia a passo svelto lungo il sentiero percorso dai ribelli: di loro nessuna traccia: solo varie macchie di sangue sulle pietre e sull’erba, qualche straccio e molti caricatori segnavano la via di ritirata. Ai primi alberi ci arrestammo stimando inutile proseguire nell’inseguimento. La valle di Circhina di lassù si apriva alla nostra vista sotto il sole di una primavera precoce: un suono smorzato di campane salì fino a noi ad annunziarci che Cristo era risorto! Da quel giorno i rastrellamenti si fecero più intensi e sempre bisognava pistare con gli occhi aperti! Il più delle volte erano scarpinate senza risultato, ma non di rado accadeva che ci scappasse qualche fucilata o che si catturasse qualcuno che, se non proprio combattente, era almeno una staffetta o un informatore dei ribelli. I migliori risultati si ottenevano arrivando all’alba presso i piccoli abitati di montagna e allora sì che i giovani e gli uomini validi saltavan fuori dalle case!

 

Tenente Tonino Lupi (49^ Compagnia - Fronte Sloveno- 2^ Parte)

Qualcuno tentava di scappare, i nostri alpini lo raggiungevano subito e lo afferravano per il colletto; qualcuno anche si difese con le armi ma solo pochi colpi e poi scendeva con le mani alzate; avevamo l’ordine di fucilare sul posto chi si opponeva con la forza, ma a nessuno di noi venne mai in mente di farlo. Gli stessi alpini – al vedere le donne con il pianto negli occhi – finivano col commuoversi e si che da parte loro i ribelli non usavano certo nessuna umanità! Recentissime ed all’ordine del giorno eran le notizie di soldati italiani catturati, seviziati, torturati ed uccisi infine nel più barbaro e ignobile dei modi! Eppure non ce la sentivamo di incrudelire a freddo contro i nostri prigionieri e cercavamo di far loro capire che noi non odiavamo nessuno e che solo pretendevamo di esser lasciati in pace a presidiar i luoghi cui eravamo destinati, senza esser continuamente oggetto di imboscate. Ai primi di giugno fui mandato con Staffieri, Boito e 40 uomini a presidiare il Passo Skofja, Villani e Fontana salirono al passo Circhina: due caposaldi ad un paio d’ore di marcia dell’abitato, affacciati sulla vecchia frontiera. I giorni trascorrevano lenti e monotoni: durante la notte qualche fucilata ci metteva in allarme, le vedette innervosivano e per farsi coraggio svuotavano i caricatori. Durante quel mese fu un susseguirsi incessante di temporali che sul Passo battevano sistematicamente. Dall’alto assistevamo all’insolito spettacolo delle saette che, tracciando nell’aria i più fantastici guizzi, si scaricavano sopra i fienili, nella vallata, incendiandoli. Un temporale, particolarmente violento, ci sorprese all’imbrunire: rovesci di pioggia e scariche elettriche si susseguivano senza interruzione: volli uscire per far compagnia alla vedetta più esposta: stavo salendo il sentierino verso il bunker, quando un bagliore mi accecò ed una scrosciante esplosione mi fece sobbalzare e cadere: un fulmine aveva schiantato un abete a pochi metri da me e, crepitando, si era disperso zigzagando lungo il sentiero dopo avermi bruciacchiato l’estremità del cinturone. Quando mi rialzai, la vedetta, accorsa, mi stava guardando allibita: <> non faceva che ripetere, aiutando a togliermi di dosso il fango! Io pensavo alle cannonate del fronte occidentale, ai combattimenti del fronte greco e del fronte russo: bel lavoro che avrebbe fatto il fulmine se fosse riuscito – lui – a beccarmi! Durante la notte qualche ribelle in vena di prodezze attaccò il Passo Circhina: Villani e Fontana organizzarono un rapido e breve temporale poi attraverso il telefono mi urlarono che avevano ripreso a giocare con Pietro, il loro leprotto porta-fortuna. Festeggiammo il fulmine e la sparatoria il mattino seguente, in compagnia del capitano Corti che – neanche a dirlo – era subito salito per vedere i suoi “bagai” con l’attendente carico di strüdel e di sigarette! Giornate monotone ed eguali, sul Passo; lunghi appostamenti con la speranza di sorprendere qualche reparto nemico di passaggio, ma invano. Trascorrevano lunghe, interminabili ore appiattiti tra l’erba, dietro alle rocce, nel silenzio grande della montagna. Rientravamo infreddoliti, bagnati dalla rugiada della notte e le novità che sul mattino correvano sul cavo del telefono erano sempre le stesse: Niente di nuovo. In luglio il capitano Corti, con il rimanente della compagnia ebbe maggior successo: riuscì, un mattino, a sorprendere un accampamento di ribelli e con un ardito ed improvviso attacco lo sgominò. Pochi giorni dopo ebbe un altro scontro sulle montagne antistanti alla mia posizione, al di là della valle; entrarono in azione i mortai ed i ribelli dovettero ripiegare, abbandonando morti e feriti. Dall’alto di Skofja, con Staffieri e Boito, seguii tutta l’azione. Boito disse che sembrava d’essere in tribuna. Aveva ragione! Ci ripugnava dover stare a guardare impotenti, ma non potevamo né dovevamo fare altro: provavamo solo qualche raffica di Breda ma la distanza era elevata. Nei binoccoli si susseguivano gli ometti che andavano e venivano: distinguevo Carluccio Re, per la sua mole e il suo cappello; strisciava cauto guadagnando sempre terreno, saliva per prendere alle spalle un gruppo nemico; lo vidi infine scendere in picchiata lasciando bombe, vidi il gruppetto di ribelli sbandarsi ed arrancare sull’erta petrosa del monte, a mezza costa. Poi i mortai lacerarono l’aria con i loro scoppi, delle grida <> si levarono: era il capitano Corti che alla testa dei suoi alpini faceva il <>! Cadde la sera ed il frastuono della battaglia lasciò il posto al canto dei grilli ed una profonda pace si stese sulla montagna. Girai nervosamente la manovella del telefono: da Circhina qualcuno mi rispose che l’azione aveva dato ottimi risultati e che il capitano Corti stava scendendo alle casermette con qualche ferito e con dei prigionieri. La notizia del 25 luglio arrivò repentina, in tutta la sua cruda realtà; qualcuno anche se ne rallegrò, ma la maggior parte degli alpini – pur essendo di idee contrarie alle fasciste – capì che era una nuova ferita inferta alla Patria. Al mio distaccamento di Passo Skofja avevo aggregato una squadra di militi della contraerea, con una vecchia mitragliatrice a raffreddamento ad acqua; buona gente, la maggior parte oltremodo anziana, che eseguivano il servizio di avvistamento con lodevole impegno; il capo squadra venne da me, preoccupato per sé ed i suoi uomini. Lo tranquillizzai dicendogli che lo consideravo un soldato al servizio della Patria e non un milite al servizio di un partito; mi ringraziò commosso. Gli alpini vollero regalare a tutti i militi le stellette e continuarono a trattarli cameratescamente ed ascoltavano in silenzio le meravigliose cantate friulane che tre di loro intonavano ogni sera, quando il sole stava per scomparire dietro alle montagne. I ribelli non si fecero più notare per parecchi giorni; correva voce che avevano cambiato zona operativa e ce ne accorgemmo quando arrivò l’ordine di scendere a Circhina per iniziare i rastrellamenti nel settore di Chiesa San Giorgio e di Chiapovano. Battemmo le montagne in lungo ed in largo, dormendo sotto la tenda, pistando lungo i sentieri impervi con un risultato di poche fucilate e rubacchiando qualche pecora per rompere la monotonia della galletta e della scatoletta. Alla fine ci trasferimmo e pattugliammo parte della Selva di Tarnova, piantammo le tende alla periferia di Gorizia. Tristi notizie si accavallano l’una sull’altra: sbarco del nemico in Sicilia, bombardamenti sulle città, ritirate in Africa; i nostri commenti erano amari, solo la speranza di eventi migliori ci aiutava a sopportare quanto riuscivamo a capire tra le righe dei bollettini di guerra. Da Gorizia partimmo alla fine d’agosto in tradotta; scendemmo a Fortezza, in Valle Isarco, e ripiantammo le tende sulle rive del fiume. Colonne di tedeschi scendevano in autocarro la strada del Brennero; ordini strani ci pervenivano: <>. Sul ponte di Varna affiancammo un alpino ad ogni sentinella della Wermacht, poi l’alpino ricevette l’ordine di pattugliare con la baionetta innestata, la pallottola in canna ed il dito sulla sicurezza. I tedeschi ci guardavano storto, la popolazione indigena ci guardava con odio! Il giorno 7 settembre fui chiamato dal maggiore Briolini, cugino del carissimo mio Capitano caduto in Russia. Mi fu ordinato di tenermi pronto, con una piccola squadra di uomini da me scelta, a partire per rilevare tutte le batterie tedesche della zona; mi fu aggiunto che sarebbe stata possibile un’azione contro i tedeschi. Scelsi accuratamente i miei alpini: primo fra tutti Martinelli, il vecchio del Varr e Lamit. Il segreto mi impediva di dare degli ordini necessari alla bisogna: addussi il solito motivo sulla solita solfa: E’ NAJA. Martinelli capì che non si trattava del solito addestramento, bofonchiò qualche cosa e si mise a preparare lo zaino. Poi venne il contr’ordine. Il pomeriggio seguente, la tanto temuta notizia della capitolazione; arrivò improvvisa, repentina, bruciante! Ad un intenso clamore seguì un silenzio profondo; il capitano Corti radunò gli ufficiali: aveva la voce rotta dai singhiozzi, scandì poche parole e dette l’ordine di tenere gli uomini uniti. Soldati di altri reparti incominciarono a girovagare per la campagna; gli alpini stavano muti, ma non erano tranquilli. Vegliai a lungo girando per l’accampamento, dalle tende usciva un sommesso mormorio, ben pochi dormivano. Andai a coricarmi ma non mi riusciva di prendere sonno; mi sentivo sgomento, la vergogna della capitolazione mi attanagliava il cuore. Pensai con infinita tristezza al sacrificio di tanti e tanti cari amici e compagni; tutto inutile, tutto vano! Piansi sommessamente. Nella notte i tedeschi ci attaccarono all’improvviso; colpi di mortaio caddero in mezzo all’accampamento, raffiche di mitraglia abbatterono le tende. Saltammo fuori mezzo inebetiti e rispondemmo con le poche armi, ma nell’oscurità non si sapeva dove sparare! Urla, lamenti, imprecazioni: poi il pesante sferragliare di un <> ed il secco crepitare delle pistole automatiche. Gli uomini si sparsero in tutte le direzioni. Seguito da qualche alpino mi gettai presso un fienile: feci in tempo a vedere Villani attraversare l’interno sparando; poi lo vidi uscire con le mani alzate, seguito da un tedesco con mitragliatore spianato. Mi misi in cerca del capitano; sul limitare di Villa Wolger mi unii a Martinelli, da un fossato ci giunse un richiamo: era Cincera, l’attendente del capitano Corti che mi disse di andare da lui, subito dopo udii la voce dello stesso che mi chiamava ed un fante tedesco, poco più di un ragazzo, mi si parò dinanzi con la pistol-machine puntata; urlava, digrignava i denti e tormentava col dito il grilletto. Lo vedevo esattamente perché era illuminato dalla luce che penetrava dalla porta semiaperta della Villa. Con Martinelli alzammo le mani e attraversammo, seguiti dall’altro sempre urlante, un lungo tratto di prato. Mi ritrovai col capitano: stava in mezzo ad un gruppo dei suoi “bagai” e rincuorava l’alpino Macario ferito gravemente ad un braccio. Il giorno seguente iniziammo il triste cammino verso l’internamento in Germania e la prigionia in Polonia. Ero diventato il n° 100 149.

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